
Narrazioni violente e ricomposizione della rabbia
Lo stupro di Palermo e la grande mobilitazione femminista che ne è seguita, contro la cultura maschilista, la violenza di genere, le speculazioni del governo e quelle mediatiche
Quello che ormai è noto come lo «stupro di Palermo», avvenuto nei primi giorni di luglio e giunto alla cronaca dopo la denuncia della ragazza e la diffusione mediatica degli atti del truce episodio, ha condotto a un’immediata ondata di mobilitazioni a livello nazionale del movimento Non Una Di Meno e di tantissime altre realtà – collettivi, associazioni, sindacati, centri antiviolenza e più in generale delle città. Questa violenza purtroppo è stata presto accompagnata da fatti altrettanto atroci, come le violenze di gruppo avvenute a Caivano e Monreale, il femminicidio di Marisa Leo o di Vera Maria Shiopu uccisa a Caltanissetta, insieme a molte altre. Ad oggi, secondo l’Osservatorio Nazionale di Non Una Di Meno, sono 80 i femminicidi, lesbicidi e trans*cidi avvenuti quest’anno, e innumerevoli sono i casi di stupro subiti. Tuttavia, la violenza di Palermo è divenuta un caso «emblematico», per diverse ragioni. Di certo per l’atrocità della violenza e per i dettagli che purtroppo sono stati condivisi dai media. Al contempo, ciò che ne è seguito, sia per ciò che concerne la mobilitazione immediata che per le risposte istituzionali e le narrazioni tossiche, ci fanno – e ci devono – interrogare su diversi temi.
Narrazioni della violenza, violenza delle narrazioni
A pochi giorni dalla diffusione della notizia della violenza consumata al Foro Italico, Non una di Meno Palermo ha organizzato una passeggiata rumorosa per le vie del centro storico in cui la ragazza è stata trascinata. Una passeggiata convocata per passaparola e post sui social, a cui hanno partecipato centinaia di persone, per solidarizzare con la ragazza e farle sapere di non essere sola, che esiste un movimento che le crede e la sostiene, per abbracciarla con amore e rabbia. Una passeggiata che al contempo, con lo slogan «lo stupratore non è malato ma figlio sano del patriarcato», ha dato una risposta politica chiara a quello che intanto avveniva sui social e in città.
Il caso di Palermo, infatti, lungi dall’essere un caso isolato, emergenziale o particolare, è invece del tutto parte ed effetto della violenza di genere del sistema patriarcale capitalista, una violenza sistemica e strutturale che viviamo quotidianamente sui nostri corpi. La spettacolarizzazione del caso di Palermo è dovuta di certo all’efferatezza e alla brutalità della violenza subita dalla ragazza, di cui purtroppo siamo tutte venute a conoscenza a causa della narrazione delle testate giornalistiche, le quali, senza scrupolo alcuno, hanno condiviso i dettagli più atroci della denuncia presentata e del video ripreso da uno dei sette – dettagli, evidentemente, condivisi dalla questura. Una vera e propria «pornografia del dolore», svenduta per accumulare like e profitti sul corpo della giovane. A differenza, dunque, di altri moltissimi casi avvenuti e che avvengono tutti i giorni, a cui segue la colpevolizzazione della vittima, questo caso ha generato una fortissima rabbia e indignazione da parte della città tutta e oltre.
Ci siamo però chieste: «E se invece di sette fosse stato uno lo stupratore? E se invece di stupro fosse stato un palpeggiamento? Ci sarebbe stato tutto questo interesse dei media e della governance? È la spettacolarizzazione della violenza che interessa o l’atto di violenza di genere in sé e per sé?». Quella della stampa locale e nazionale è stata, e continua a essere, non soltanto una narrazione tossica, contro la quale da anni Non Una Di Meno punta il dito, ma una atroce violenza contro la vittima, esposta ripetutamente allo sguardo pubblico. Da una parte è emerso uno sguardo curioso dell’orrido delle masse di stupratori: centinaia di migliaia sono stati gli uomini iscritti a chat Telegram che chiedevano il video dello stupro di Palermo. Dall’altra, uno sguardo di una città indignata, che però sui social e non solo, ha reagito con le stesse parole d’ordine che da anni vengono veicolate dai vari Salvini e dalla destra in genere di questo paese: «castrazione chimica», «ergastolo», «ammazzateli» e l’augurio ai 7 di ricevere in carcere ciò che avevano perpetrato sono purtroppo diventate le parole d’ordine più diffuse sui social. Tantissime chiaramente sono anche state le reazioni nell’opinione pubblica a sostegno della ragazza. Tra queste, la campagna social «#io non sono carne» lanciata da personaggi del mondo dello spettacolo, che riprendeva una delle aberranti frasi di uno degli stupratori. Crediamo, tuttavia, pur riconoscendo i buoni propositi dell’intento, che rilanciare una campagna che utilizza le parole del carnefice, riproduca e reiteri i meccanismi violenti di sovraesposizione della ragazza e del singolo caso allo sguardo pubblico che di quei dettagli è purtroppo stato affamato.
La spettacolarizzazione di alcuni casi di violenza avviene ogni qualvolta questa riguarda episodi talmente efferati da non poter giustificare la retorica del «se l’è cercata», come invece avviene nei tantissimi casi che rimangono silenti, che vengono perpetrati da figli di senatori e politici o che vengono consumati su donne non conformi allo stato nazione per genere, razza o classe – non «donne», non «madri», non «bianche», non «italiane». «Lo chiamano branco, li chiamano mostri, urlano all’ergastolo – recita il comunicato di Non Una Di Meno Palermo –: questa retorica e questo linguaggio non fanno altro, in realtà, che deresponsabilizzare e ‘individualizzare’ soltanto sui sette ragazzi la cultura dello stupro, nel tentativo di ‘occultare’ la violenza che in realtà ci circonda tutti i giorni. Non erano mostri, né cani, né un branco in movimento: ragazzi, come i tanti che tutti i giorni dalle chat su Whatsapp al catcalling, dallo stalking ai mille processi di virilità tossica, sono figli della società patriarcale di cui riproducono i rapporti di potere e di violenza».
La cultura dello stupro e la violenza di genere, proprio perché strutturali, si coagulano in tantissimi aspetti della nostra vita quotidiana. Quando urliamo al mostro e al branco lasciamo spazio alle odiose retoriche dei not all men. Lasciamo spazio a chi pensa che la violenza di genere sia soltanto l’ultimo atto feroce dello stupro o del femminicidio e che non ne fanno parte i fischi per strada la notte che ci fanno sentire insicure, i commenti sulle chat, lo stalking. Lasciamo spazio alla colpevolizzazione del porno che è avvenuta nelle settimane successive alla diffusione della notizia, da parte delle stesse istituzioni che tacciano di «ideologia gender» i percorsi costruiti dal basso sull’educazione sessuale, sull’affettività e sul consenso come la base con cui approcciarsi alle relazioni con le altre persone.
Lasciamo spazio, anche, a chi pensa che questa violenza sia dovuta alla città in cui è avvenuta o al fatto che i soggetti coinvolti venissero da un quartiere popolare della città di Palermo, riproducendo così non soltanto un violentissimo classismo, ma anche il razzismo antimeridionale di cui questo paese è impregnato. Tantissimi sono stati i giornalisti, gli intellettuali, i politici che si sono sentiti in dovere di scavare nel torbido, nella povertà economica e sociale dei quartieri popolari meridionali e della gente che ci vive – tra Caivano e Palermo – per dimostrare che sì, la violenza di genere è colpa di tutto tranne che del sistema in cui viviamo. Ancora una volta assistiamo alla violenza che in quanto persone siciliane viviamo nelle molteplici oppressioni della nostra posizionalità – anche geografica, in questo caso – di chi vede il consumarsi di questi efferati episodi come «strettamente connaturati» all’indole di una popolazione che vive un territorio arretrato, povero e sottosviluppato. Come se altrettanta violenza non si consumasse nei salotti borghesi delle grandi ville di Milano o nelle case di senatori e politici, come se la violenza non fosse generata dal sistema capitalista e patriarcale che è trasversale alle classi sociali e ai territori. Anche questa volta il pregiudizio antimeridionale funge da dispositivo per «spostare» la questione della violenza di genere su un piano di deresponsabilizzazione dell’azione governativa, la cui risposta si è tradotta in decreti per ordine e sicurezza.
Quando tagliate i fondi ai centri antiviolenza, quando ci vietate di abortire, quando ci sottopagate al lavoro, quando ci razzializzate ed esotizzate, quando strumentalizzate anche certe violenze per i vostri like o i vostri decreti e quando decidete invece di colpevolizzarci o tenere silenti altre forme di violenza: siete tutti coinvolti. La violenza di genere riguarda tutte le persone e i 7 sono soltanto figli di questo sistema che continua a produrre e ad accumulare sui nostri corpi. Vivi o morti.

Ti rissi no!
Alla violenza delle narrazioni mediatiche e cittadine si sono aggiunte immediatamente le reazioni istituzionali. Il comune di Palermo, il 23 agosto, attraverso le parole dell’assessore Maurizio Carta, dà notizia del piano congiunto con la Prefettura di risposta alla violenza avvenuta. Un piano che ha previsto il potenziamento «dei servizi settimanali interforze nelle piazze della movida», «la regolamentazione di questa per regolare gli orari e i luoghi», la lotta agli abusivi, «l’attuazione del Masterplan per la videosorveglianza». Insomma, ancora una volta, alla violenza di genere si risponde con securitarismo, videosorveglianza, militarizzazione del territorio. Dispositivi, questi, concentrati a Palermo nel centro storico e in particolare nel quartiere della Vucciria, da settimane ormai sottoposta a controlli, sanzioni, chiusura di alcuni esercizi commerciali.
Ai nostri occhi, è evidente come quello che le istituzioni stanno attuando è una vera e propria strumentalizzazione della violenza: stanno ovvero utilizzando l’atrocità consumata in una notte tra «le vie della movida» per potenziare ordine e (loro) sicurezza in una particolare area della città, da anni sottoposta a processi di gentrification, turistificazione e svendita urbana. D’altronde, proprio la Vucciria è da anni al centro del dibattito cittadino per una movida affatto regolamentata e che crea disagio agli e alle abitanti del quartiere – vecchi e nuovi. Strumentalizzando la violenza avvenuta, il comune e le istituzioni tutte stanno usando ciò che è avvenuto per portare a compimento il processo di regolamentazione a suon di camionette, multe e videocamere. Qual è il collegamento tra lo stupro e la presenza di abusivi nella zona in cui la ragazza si era recata a trascorrere la serata continua a rimanere un mistero.
In queste retoriche securitarie, lo sguardo che produce lo spazio urbano continua a essere quello eteronormato e prettamente maschile: le donne – e sempre certe donne, ovviamente – sono gli oggetti di queste politiche mai i soggetti, le vittime da proteggere e custodire (soprattutto dall’alcool, a quanto pare, dato che le istituzioni si stanno concentrando sulla movida). La politica securitaria, inoltre, agisce come dispositivo di esclusione spaziale che continua a naturalizzare e stereotipizzare l’idea della donna come corpo imprevisto nello spazio pubblico. Il tema dell’ordine pubblico e della sicurezza degli spazi da attraversare diventa per noi sempre più pregnante, non soltanto per proteggerci dalle strumentalizzazioni delle violenze di genere che subiamo e che si consumano nelle nostre città, ma anche per sviluppare pratiche intersezionali di safety che contrastino la security.
Nessuna istituzione ha parlato dei centri antiviolenza e del loro continuo definanziamento; nessuna istituzione ha pensato di costruire rifugi, finanziare gli sportelli d’ascolto o dar forza ai movimenti e alle associazioni transfemministe e Lgbtqia+ della città per promuovere forme partecipative di contrasto alla violenza a partire da chi su questa ci lavora tutti i giorni. La seconda passeggiata rumorosa notturna organizzata da Non Una di Meno Palermo la settimana successiva mirava proprio a questo: guidate dallo striscione «le strade sicure le fanno le compagn3 che le attraversano» migliaia di persone questa volta hanno attraversato le vie del centro storico per parlare di spazi sicuri e città transfemministe.
Se dalle risposte delle istituzioni locali ci spostiamo a quelle nazionali, il quadro purtroppo peggiora enormemente. Dopo l’incursione/passerella di Giorgia Meloni a Caivano, che ha parlato di «bonifica» e di apertura delle palestre abbandonate nei quartieri popolari – un linguaggio non nuovo, purtroppo – è stato emanato qualche giorno fa il cosiddetto Decreto Caivano. Un decreto che mira, dopo i fatti di Palermo e del comune campano da cui prende il nome, esclusivamente a inasprire le pene dei minorenni e a smaltirne i processi giudiziari. Ancora una volta, la «punizione» sembra concentrarsi sui singoli casi, non volendo riconoscere la natura strutturale e sistemica della violenza di genere e le politiche che andrebbero realmente attuate per contrastarla. Nessuna educazione all’affettività e alla sessualità nelle scuole, nessun finanziamento dei centri antiviolenza e dei consultori, nessuna politica che incrementi il reddito di autodeterminazione per le donne e per tutte quelle soggettività che ne necessitano, nessuna politica per incrementare servizi e politiche giovanili. Il sistema penale, che spesso riproducee la violenza per le vittime, è altrettanto inutile per quelli che chiamano «branchi» o «baby gang» poiché parte di una società e un sistema carcerario che punta soltanto a riprodurre sé stessa. Le vittime, in tutto ciò, spariscono anche dal discorso pubblico subito dopo essere state gli oggetti utili per politiche di repressione, ordine e disciplina.
Alle risposte mediatiche e istituzionali si è per fortuna sostituita una grandissima mobilitazione che da Palermo si è poi diffusa a macchia d’olio in altre città d’Italia. Dopo le passeggiate rumorose tra le vie del centro storico palermitano e una partecipatissima assemblea cittadina, diversi nodi di Non Una Di Meno hanno dato vita a una settimana di mobilitazione culminata l’8 settembre in cortei, presidi e passeggiate arrabbiate che da Milano a Torino, da Cagliari a Bologna, da Roma a Bergamo hanno urlato «TI RISSI NO!» [in siciliano «ti ho detto no!»]. Una parola d’ordine, questa, che a Palermo utilizziamo per parlare di consenso e cultura dello stupro ogni qualvolta si consuma una violenza nella nostra città. Questa volta è diventato non soltanto un urlo per dire «sorella non sei sola»: è stato anche uno slogan ricompositivo per andare oltre il singolo caso e praticare la mobilitazione della rabbia. Il corteo regionale del 9 settembre a Palermo ha visto la partecipazione di un migliaio di persone e ha voluto ribadire i nostri moltissimi NO alla violenza che subiamo tutti i giorni: economica, sanitaria, psicologica, mediatica, spaziale, fisica. La rabbia è un dispositivo potentissimo: agiamolo.
Se va a caer.
*Questo articolo è frutto dell’elaborazione collettiva di Non una di meno Palermo di cui Gabriella Palermo, Giuliana Sorci e Simona Randazzo sono attiviste.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.