
Nel nome del popolo. Messina e l’autoritarismo urbano
La città dello Stretto è divenuta, con il sindaco De Luca, un laboratorio di populismo urbano, che rielabora i modelli securitari adattandoli alla periferia sud del paese
Cosa fare quando un leaderismo autoritario sofisticato, dal carattere comunicativo superficialmente trash, appare nella tua città e crea rapidissimamente una comunione sentimentale con il «popolo», segnando una direzione culturale e dando vita a un governo delle persone e delle cose che investe le economie familiari così come lo spazio pubblico, il tempo libero e la sessualità, criminalizzando la questione sociale, incrementando le divisioni e sprigionando un livore che, in nome della civilizzazione, investe il «basso» urbano, sanzionando i comportamenti indesiderati, esponendo sui social media le persone che li praticherebbero e allargando a dismisura il numero dei nemici da colpire ed esibire?
Se quella sopra delineata è grosso modo la situazione venutasi a creare a Messina a partire da quel giugno 2018 in cui è stato eletto sindaco Cateno De Luca, da tale avvenimento derivano anche le domande che hanno animato il convegno Frizioni urbane. Governo dei margini e sicurezza dei diritti, tenutosi presso il Dipartimento Cospecs dell’Università di Messina lo scorso 31 ottobre e organizzato da chi scrive. Si è trattato di una lunga giornata di studi che ha ospitato urbanisti (Alessandro Coppola), sociologi (Gennaro Avallone, Domenica Farinella, Enrico Gargiulo, Martina Lo Cascio, Pierpaolo Zampieri), critici sociali (Wolf Bukowski), antropologi (Berardino Palumbo e Giuliana Sanò), penalisti (Lucia Risicato) e, nella tavola rotonda del pomeriggio, anche una risicata rappresentanza di consiglieri comunali che hanno accettato di confrontarsi coi ricercatori sui temi della città (Alessandro Russo del Pd e Cristina Cannistrà del Movimento 5 Stelle). Assente, malgrado gli inviti, proprio Cateno De Luca.
Ciò che è emerso sin da subito è che questo governo urbano – che per comodità definiremo «populista» – è ben più complesso di quanto il pubblico esterno alla città potrebbe ritenere. È anzi un oggetto culturale che merita attenzione e che necessita di strumenti diversi da quelli più generali che adopereremmo per interpretare un Matteo Salvini qualunque.
Certo, è da quest’ultimo e da Beppe Grillo che Cateno De Luca trae ispirazione, oltre che da Berlusconi e da sindaci scenografici come l’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito o l’ex sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, da cui eredita il piglio da sceriffo. Ma De Luca è interessante perché da questi personaggi ricava per lo più solo alcune tecniche di penetrazione nell’immaginario collettivo. Un certo uso di Facebook, per esempio. Oppure un fare gigionesco che ne tempera l’autoritarismo sfrenato. E, naturalmente, alcuni temi.
Per il resto il sindaco della città dello Stretto andrebbe visto come un «adattatore», che piega gli stilemi al linguaggio e ai complessi locali, generando così un prodotto nuovo e per molti versi originale. In tal senso ciò che è apparso chiaramente dall’incontro è che De Luca – così come altri suoi equivalenti meno noti – vada osservato al crocevia tra alto e basso. Tra ciò che appartiene al livello nazionale o sovranazionale e quello che è invece specifico, ossia proprio della dimensione locale.
In questa prospettiva il populismo urbano di De Luca è originale perché risignifica totalmente i significati del sicuritarismo di matrice leghista. Se alla base del modo leghista di concepire lo spazio pubblico si rinviene la nostalgia di un’epoca in cui le città settentrionali non erano ancora «colorate» e le sciure si aggiravano tra casa e mercato, il sicuritarismo di De Luca ha alla base il complesso di arretratezza di una città e dovrebbe essere visto come un paragrafo della Questione meridionale.
De Luca non promette semplicemente una città sicura, ma funzionale agli investimenti mancanti in una città che si spopola (-20.000 residenti in vent’anni). Ugualmente non persegue semplicemente infrazioni o reati, ma indica la via della «civiltà» e della moralità, intento a replicare inavvertitamente il modello di quella «città di gentlemen» che, secondo Ananya Roy, sarebbe alla base del progetto e della pedagogia dietro la nuova Calcutta. Dalla lotta ai sudici che sporcano la strada con sacchi di spazzatura e solidi vari a quella contro i parcheggi in seconda fila, agli ambulanti di ogni nazionalità che abbrutiscono la strada e ai fracassoni che percorrono le vie del centro con i loro stereo atti a diffondere musica neomelodica o techno commerciale, la sua è la promessa di uno spazio «normale» a misura di turista. Quella normalità che ha le rappresentazioni asettiche delle città settentrionali o, addirittura, della Svizzera come riferimento.
Sul piano sovrastrutturale, De Luca è l’incarnazione più alta di un auto-orientalismo e di un pensiero colonizzato «interno» che fanno proprie le rappresentazioni storiche sul Mezzogiorno come «palla al piede» e aspirano all’isomorfismo. Tendono, cioè, all’identità con un modello giudicato maggiormente avanzato. E in questo quadro la reinvenzione degli «antichi mestieri» e delle tradizioni popolari (per esempio le zampogne, quasi del tutto estranee al contesto urbano; per non parlare della carne di castrato, anch’esso pochissimo pertinente alla storia culinaria del passato e del presente urbano) a cui è dedicato addirittura un assessorato, è puramente strumentale al progetto di «turistificazione» della città e alla produzione di un brand territoriale che dovrebbe aumentare l’appetibilità del territorio. Oltre che, potremmo dire, alla presa della città da parte della campagna (quella da cui De Luca proviene). E per quanto alcuni – autonomisti o separatisti – vedano in lui un alfiere della «sicilianità» e un alleato, il sindaco nei fatti ha pochissimo a che fare con questa tradizione politica ed è invece uno che guarda a uno sviluppo compatibile con le economie urbane di piattaforma sul genere di airbnb.
Che De Luca sia più un Monti che un Canepa è del resto confermato dall’enorme attenzione che riserva al debito pubblico e ai crediti. Sindaco di una città che da oltre un decennio si muove sull’orlo del fallimento, la sua azione di polizia dello spazio urbano è, forse prima di tutto, una forma di polizia fiscale. La sua lotta sfrenata all’ambulantato – quello degli italiani ancora più che quello degli immigrati – è parte di una campagna per il risanamento delle casse comunali che gratta tutto, incluse le briciole. Ambulanti, come si è detto. Ma, ovviamente, anche prostitute e clienti (spesso indoor), a cui si conferiscono multe da decine di migliaia di euro di cui ci si può vantare su Facebook, dando talvolta in pasto al pubblico indizi sulla professione e l’identità degli uomini, così, dobbiamo pensare, da dare l’esempio agli altri e stimolare anche un rapido pagamento della sanzione. E poi condomini e attività commerciali – in debito con la locale società idrica per decine e, talvolta, centinaia di migliaia di euro – ai quali viene abbassata l’erogazione del liquido e di cui, ancora una volta, si minaccia anche di svelare l’identità (ammonta a circa un centinaio di milioni di euro il credito complessivo della società idrica e sono circa 92.000 i morosi).
Certo, ciò che è emerso dal convegno è anche il carattere apparentemente egualitario di questa amministrazione, che non adopera criteri basati sulla nazionalità per perseguire i nemici di turno e che si abbatte su poveri cittadini così come sugli imprenditori. Ma si tratta di un’osservazione solo parzialmente corretta. Per esempio, in una città attraversata dai tir, che approdano in centro città per mano di quello che dagli anni Sessanta è una società semi-monopolista di navigazione, determinando evidenti costi diretti e indiretti in termini di inquinamento, salute, sicurezza e manutenzione della strade, non risulta che l’azione del Sindaco si sia caratterizzata per analoga tensione rivendicativa.
Ciò che invece colpisce è la fluidità delle alleanze tra blocchi sociali e la natura degli scambi con le parti sociali. De Luca attacca anche i commercianti stanziali, è vero. Ma prima li libera della concorrenza esercitata dagli ambulanti. Ossia da quella stessa componente sottoproletaria ed estesa (com’è prevedibile in una città in cui il 30 per cento della popolazione guadagna meno di diecimila euro annui) che l’anno precedente era stata fondamentale per la sua elezione. Il Sindaco, dunque, con una mano leva e con l’altra dà. E in questo levare ad alcuni per dare ad altri c’è tanto il travaso quanto l’acquisizione di nuovo consenso (De Luca, infatti, era inizialmente un affare per ceti popolari e non per borghesi).
Ma non si dovrebbe pensare che la persecuzione sistematica degli ambulanti esaurisca meccanicamente la simpatia di questi ultimi verso De Luca. Come se fosse un De Soto, anziché un De Luca, il sindaco li costringe a regolarizzarsi. E regolarizzandoli li divide, facendo emergere avversione verso quella componente che resiste, magari in ragione dell’impossibilità materiale a farlo. Nel perseguitare, insomma, De Luca sa anche generare l’illusione di una promozione.
Vi è un carattere reichiano in questa vicenda che si svolge nella periferia del Paese. Tracce, cioè, di un rapporto politico basato sul carisma, la forza, l’assoggettamento felice e, persino, la libido. Qualcosa che la stessa pagina Facebook del sindaco – simile a una Radio Maria caratterizzata da una serie infinite di odi, amen e «sei grande» in coda a ogni post – denota. Senza dimenticare, naturalmente, la propensione «pastorale». La stessa confermata nell’atto di un padre nostro recitato da decine di sostenitori e guidato dallo stesso sindaco dalla finestra dell’abitazione in cui, agli albori dell’avventura messinese, si era ritrovato arrestato al termine di un’indagine per reati di evasione fiscale.
Quel che questa vicenda postmoderna suggerisce, insomma, è che nelle analisi non dovremmo mai perdere di vista il rapporto tra sovrastruttura e struttura, tra materialità e psicologia individuale e collettiva. Cercando di chiarirci meglio, si è già detto che personaggi e vicende come quelle del suddetto vadano letti incrociando i livelli generali e locali. Ugualmente non si dovrebbe leggere la loro evoluzione con ottiche unicamente materiali o culturaliste. Piuttosto è solo l’impiego congiunto di queste dimensioni che rende intelligibili tali fenomeni.
*Pietro Saitta è ricercatore in Sociologia generale presso l’Università di Messina. È autore di numerosi saggi dedicati alla questione urbana e a Messina. Tra i suoi lavori recenti: The Endless Reconstruction (con D. Farinella, Palgrave Macmillan) e Prende le case (Ombre Corte).
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