
Non c’è economia senza politica
Una chiacchierata con Robert Boyer, uno dei padri della teoria della regolazione, sulle crisi in Francia e in Messico, il rapporto tra istituzioni e accumulazione, la distribuzione delle ricchezze
Ho incontrato Robert Boyer, economista francese tra i padri della teoria economica eterodossa della regolazione, una pallida mattina di fine gennaio sulla Rive Gauche a Parigi. Mi aveva dato appuntamento in un bar, Le Nouvel Institut, dallo stile industriale e dai prezzi popolari, che sul proprio sito sottolinea di essere situato accanto all’Université de Jessieu, uno dei principali teatri delle contestazioni del Maggio 1968, e di essere «ancora frequentato da studenti e professori».
Il professor Boyer mi aspetta in una saletta laterale, con il computer aperto sul tavolino.
Com’è nata e come si è sviluppata la teoria della regolazione?
Il concetto di regolazione si oppone a quello di equilibrio, alla visione secondo cui la concorrenza porta a degli equilibri di mercato. In quest’ultima concezione, i processi storici vengono rimossi, ma il capitalismo è caratterizzato da fasi di boom, di crisi e di aggiustamento. La regolazione cerca di comprendere quali siano i compromessi istituzionali e politici che permettono all’accumulazione capitalista di proseguire. Inoltre, la teoria della regolazione nasce in contrapposizione alla visione semplicistica secondo cui il capitalismo avrebbe prodotto una polarizzazione tra masse di proletari da un lato e capitalisti dall’altro, e che quindi sarebbe crollato sotto il peso delle proprie contraddizioni.
Nei primi anni Settanta, lavoravo per lo Stato francese insieme a Michel Aglietta, Bernard Billaudot, Jacques Mistral e altri economisti. Ci venne chiesto di elaborare modelli economici che, tuttavia, non furono in grado di prevedere lo shock petrolifero del 1973. Pensavamo che fosse uno shock minore, e invece si rivelò un grande cambiamento storico. Il periodo successivo fu dedicato a cercare di interpretare quello shock e a riflettere sul periodo del fordismo, dei Trente Glorieuses, in cui i lavoratori salariati erano lo sbocco stesso della produzione di massa, con l’effetto di stabilizzare quel tipo di regime di accumulazione.
Successivamente, abbiamo cercato di capire quali fossero i nuovi regimi che si formavano. Negli Stati uniti e in Gran Bretagna si è formato un regime inizialmente trainato dall’innovazione e dalla globalizzazione, che vive sul «domani». Detto semplicemente: io penso di avere ricchezza, mi indebito e creo un capitale che produce sufficiente valore per rispettare i pronostici, finché questi non diventano molto più favorevoli della realizzazione. C’è stato un brutale aggiustamento di questo regime prima del 2000 e poi nel 2008. Nei miei ultimi lavori parlo di un modello anthropogenétique, in cui le fonti di accumulazione non sono la finanza o il settore high-tech, ma l’istruzione, la sanità e la cultura. Guardate il Giappone, dove c’è stagnazione economica, ma cresce la speranza di vita grazie agli investimenti in sanità e istruzione. Oppure l’Europa, dove c’è stata una socializzazione della riduzione dei redditi con crescita piatta; è un modello molto difficile da finanziare.
Abbiamo quindi cercato di fare una storicizzazione dei percorsi di accumulazione che non sono schemi astratti. C’è concorrenza? Come sono trattati i lavoratori? Quale ruolo svolgono la moneta e lo Stato? La teoria della regolazione descrive come si creano questi compromessi. Ci accorgemmo che il fordismo (in cui la crescita è trainata dai salari) era un regime estremamente particolare che molti paesi non avrebbero mai conosciuto. Ad esempio, in Brasile, nonostante gli sforzi di Lula, i lavoratori non sono mai diventati parte del compromesso centrale. Questo è stato piuttosto tra capitalismo agro-alimentare e risorse naturali. La Germania, nemmeno, è mai stata fordista; il suo modello è sempre stato mercantilista, basato sul surplus commerciale, ma oggi è in difficoltà, perché la domanda si è ridotta per via delle auto elettriche cinesi.
L’ultimo premio Nobel per l’economia è stato assegnato a Daron Acemoglu, James Robinson e Simon Johnson che, come voi, danno importanza alle istituzioni. Su Acemoglu, lei ha recentemente scritto un articolo su Alternatives Economiques. Qual è la differenza tra i vostri approcci?
La differenza è che noi studiamo le istituzioni dagli anni Settanta e, più che dire che le istituzioni sono importanti, ci chiediamo perché le istituzioni cambiano. In Acemoglu ci sono istituzioni buone e inclusive, e altre cattive ed estrattive; è un approccio molto normativo. Noi non concepiamo una dicotomia, ma parliamo di cinque tipi di capitalismo. Inoltre, la teoria di Frédéric Lordon sull’endo-metabolismo ci permette di capire le crisi senza ricorrere a elementi esterni: il successo stesso di un modo di accumulazione porta dei cambiamenti che, in maniera endogena, destabilizzano il sistema. Per Acemoglu, le istituzioni e le Costituzioni hanno un impatto, ma per noi arrivano dopo; sono il prodotto della politica. In altre parole, il primato della politica sull’economia. L’economia politica è formata da due parole: noi diamo più peso alla parola «politica», è quest’ultima che crea i compromessi.
Lei è appena tornato dal Messico, un paese che conosce bene e in cui è stato molte volte. Come valuta la traiettoria politico-economica di questo paese e l’operato degli ultimi presidenti di sinistra, Obrador e Sheinbaum?
La prima volta che andai in Messico, il paese era governato dal Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), che aveva creato delle istituzioni neocorporativiste e c’era una relazione tra la crescita della produttività e l’aumento dei salari reali. Era un paese sia industriale che agricolo. Così, il Messico iniziò a essere visto come un paese emergente, con il petrolio, e tutte le banche europee volevano fare prestiti. Ma, a un certo punto, i messicani non furono più in grado di ripagare i debiti e l’economia crollò. Il paese fu vittima di questo meccanismo. Una situazione simile accadde in Giappone negli anni Novanta, quando tutti pensavano che sarebbe diventato «il numero uno», ma l’afflusso di capitali creò una bolla immobiliare, e i giapponesi non trovarono un nuovo motore di crescita.
Successivamente alla crisi, il Messico ha intrapreso un’integrazione economica nel mercato americano e un’apertura alla democrazia e ai partiti, come il Partito della rivoluzione democratica (Prd) e lo stesso Pri, che ha generato un sistema molto difficile da governare, con oltre il 50% della popolazione che lavora nell’economia informale. La grande novità di Amlo (Andrés Manuel López Obrador) è stata quella di creare un’alleanza di partiti che, fino ad allora, erano stati sempre sconfitti nelle elezioni, uniti dal programma di voler ripristinare i danni fatti dal neoliberalismo corrotto. Questo attraverso un’eccezionale capacità discorsiva di Amlo, che utilizza una retorica alla Carl Schmitt: «Noi contro loro». Ci siamo noi o i corrotti. Con conferenze stampa di 2-3 ore, per legittimare una riallocazione della spesa sociale verso chi non aveva mai ricevuto denaro, come i soldi dati ai giovani delle zone rurali per andare all’università.
La difficoltà della nuova presidente, Claudia Sheinbaum, è che eredita tutto questo, ma con l’elezione di Trump negli Stati uniti, che è un mercantilista e vorrà ridurre il surplus commerciale del Messico applicando dei dazi. Questo potrebbe uccidere il motore della crescita del Messico e quindi come giustificare questa dipendenza economica? C’era un equilibrio molto stabile a livello interno (Sheinbaum è stata eletta con il 61% dei voti), ma ora c’è la rottura provocata da Trump. È una lunga storia in cui un modello neoliberale trova un equilibrio, ma il cambio di dottrina degli Stati uniti finirà per destabilizzare il suo migliore allievo nelle catene globali del valore. Sarà difficile cambiare la specializzazione produttiva del Messico, incentrata sull’automotive. Di nuovo, la soluzione non è puramente economica, è politica. Quali risposte darà la politica?
Sto preparando un libro con un collega del Collegio del Messico, in cui mostriamo che negli ultimi anni i super-ricchi si sono arricchiti, le classi medie inferiori sono state leggermente detassate e i più vulnerabili hanno ricevuto un po’ di reddito, ma la maggior parte del reddito è andata ai miliardari. Questo è il non detto implicito del compromesso che si è creato: niente è cambiato nei rapporti di forza con gli imprenditori, ma grazie alla retorica, il popolo pensa che ci sia stata una grande rivoluzione.
La Francia, invece, sta attraversando una lunga crisi politica. Come interpreta la situazione?
Il fordismo permetteva soluzioni win-win, con l’aumento della produttività in cambio di aumenti salariali, unito all’estensione delle protezioni sociali e alla stabilità della moneta. I capitali francesi si sono ammutinati, andando a fare profitti all’estero. Per incoraggiare il rientro delle multinazionali, sono state abbassate le tasse. Questo ha creato un deficit strutturale e ora si vorrebbero risparmiare quasi 20 miliardi all’anno per cinque anni dalla spesa sociale sulle pensioni. Un totale divorzio tra le promesse elettorali e la capacità di realizzarle. A questo si deve il declino di Macron. La seconda crisi è costituzionale: l’articolo 49 della Costituzione ha permesso a Macron di far passare la legge sulle pensioni senza una maggioranza in parlamento, che in precedenza era stata osteggiata da cittadini e sindacati. Oggi c’è un parlamento diviso in tre, con sinistra, centro ed estrema destra. Conclusione: un’assemblea ingovernabile. Oggi si discute di bilancio, ma tutti i partiti politici sono in attesa dello scioglimento delle camere per provare a vincere le elezioni legislative. Quella è la vera posta in gioco. E se Macron si dimettesse, si presenterebbe alle presidenziali. Dal mio punto di vista, la crisi è molto grave. Si dice inoltre che ogni partito faccia il proprio interesse e non l’interesse generale. Ma attenzione: come dicono i miei colleghi Stefano Palombarini e Bruno Amable, l’interesse generale è una costruzione politica. Questo è importante, perché anche i keynesiani dicono che c’è un interesse generale, ma in realtà è il blocco egemonico di quel momento che lo definisce.
*Emanuele Nebbia Colomba è dottorando in scienze sociali ed economiche presso l’università Sapienza di Roma e consigliere comunale a Lerici (Sp).
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