Non c’è pace sul fronte orientale
Il leghista Fedriga vorrebbe costruire un muro lungo la frontiera est, da dove ogni anno passano migliaia di migranti. Come nelle guerre dei balcani, l'Europa chiede ai paesi balcanici di violare ciò che nell'Unione sarebbe inviolabile
Durante l’estate, il governatore del Friuli-Venezia Giulia, il leghista Massimiliano Fedriga, lanciava mediaticamente il progetto di costruire un muro sul confine italo-sloveno: l’idea, scopiazzata con qualche invidia a Donald Trump e soprattutto a Viktor Orbán, non si è ovviamente realizzata, ma ha avuto il merito di far sapere in Italia che esiste un confine orientale, attraverso il quale ogni giorno passano illegalmente decine di persone. Nel 2019, le prefetture regionali hanno registrato 5.526 arrivi, che non tengono conto di chi attraversa l’Italia per dirigersi più a nord, senza lasciare traccia.
Ora, a estate finita e in una nuova fase della retorica nazionale sull’immigrazione (una fase che alla violenza di sempre accompagna una narrazione più ipocrita) e dopo che la «minaccia» del dittatore turco Recep Tayyip Erdoğan ha riportato l’attenzione sui milioni di persone dislocate alle frontiere orientali d’Europa, proviamo a tracciare il quadro della situazione della rotta balcanica, cioè di quella questione migratoria italiana che non viene gestita come emergenziale, che non occupa spazio mediatico e nemmeno politico e che quindi, in definitiva, non è nemmeno una questione migratoria. Proviamo a farlo guardandola da un’angolazione diversa, che poi è quella centrale: e cioè quella degli interessi e delle strategie dell’Unione europea.
The game
La rotta balcanica ha acquistato nome e fama nel 2015, quando la Germania per ragioni economiche e propagandistiche decise di creare un «corridoio (abbastanza) umanitario» per permettere alle persone in fuga dalla Siria in guerra di raggiungere il nord Europa. Nel 2015, la rotta era un passaggio irreggimentato dalle polizie balcaniche, secondo le richieste dell’Ue, e permise il trasferimento in Germania e nord Europa di una parte della classe medio-alta e istruita siriana. Il corridoio era perennemente seguito e controllato da uomini in divisa, che monitoravano e incanalavano il movimento delle persone in viaggio. Nel 2016, l’accordo tra Ue e Turchia segnò la chiusura formale della rotta, costringendo le persone migranti a chiedere asilo in Grecia per evitare la deportazione in Turchia, almeno fino alla sospensione dell’accordo da parte della Turchia nell’estate 2019. Tuttavia, la rotta non è mai stata davvero abbandonata e i suoi numerosi confini non sono mai stati impermeabili: dopo la «chiusura» del confine serbo-ungherese (settembre 2015, con il «muro di Orbán») e di quello serbo-croato (marzo 2016) i flussi migratori – che sempre trovano nuovi argini da rompere – si sono immessi anche nelle valli bosniache. A partire da febbraio 2018, le cittadine di Bihać e Velika Kladuša, nel cantone di Una-Sana al confine bosniaco-croato, hanno visto lo stanziamento nei loro territori prima di centinaia, poi di migliaia di persone in transito. Inizialmente, la solidarietà era autorganizzata o gestita da gruppi informali e associazioni locali; progressivamente, l’intervento della Croce rossa locale e di alcune organizzazioni internazionali ha aperto la strada a una gestione istituzionalizzata dei flussi e dell’assistenza, ora completamente controllata dall’agenzia Onu per le migrazioni (Iom/Oim), che limita e monitora la solidarietà spontanea o militante e favorisce l’allontanamento delle persone dai campi informali sul confine e la pratica dei cosiddetti «rimpatri volontari».
Oggi, la rotta bosniaca è la più trafficata, anche se le rotte precedenti non sono mai state del tutto abbandonate: quest’anno, secondo il governo bosniaco, a fine settembre più di 21 mila persone avevano raggiunto la Bosnia-Erzegovina, chi dal Montenegro, chi dalla Serbia – ma probabilmente i numeri sono più alti. Nei mesi estivi, tra le 400 e le 600 persone a settimana tentano la traversata verso l’Europa occidentale, che nel gergo della rotta prende il nome di «the game». A inizio giugno, a seguito di un incendio nel campo Miral di Velika Kladuša, sono cominciate le rivolte: rabbia ed esasperazione si sono espresse in tutte le forme nelle strade della città. A Bihać, 40 chilometri più a sud, a metà giugno la polizia ha dato inizio a una vera e propria caccia all’uomo, irrompendo negli edifici abitati o abbandonati alla ricerca di migranti. Il rastrellamento si è concluso con una deportazione a Vučjak, un campo in mezzo al nulla che non troppo tempo fa veniva usato come discarica e che da una settimana è senz’acqua. Lì, le persone in transito vengono nascoste allo sguardo dei ricchi turisti arabi che passeggiano nel centro cittadino.
Le violenze sistemiche della polizia croata
Lungo tutta la rotta balcanica, dalla Grecia a Trieste, il tratto più difficile è quello croato. L’estate scorsa, dopo un articolo-avanguardia uscito sul Guardian, anche alcuni maggiori quotidiani italiani si sono interessati alla questione migratoria in Croazia, pubblicando reportages che raccontavano le violenze sistematiche della polizia. Da allora, i flussi sono continuati, incrementando o diminuendo in base alle condizioni climatiche, mentre la violenza poliziesca si è sistematizzata e si è fatta più crudele e mirata, grazie all’affinamento di anni di pratica.
La Croazia si attraversa in automobile, nascosti sui camion o a piedi, in base alle proprie disponibilità economiche: come ovunque, chi è più povero e quindi deve camminare si espone al pericolo maggiore. Il rischio di essere intercettati e respinti dalla polizia è altissimo, anche a causa della delazione diffusa, alimentata da una strategia della tensione mediatica e politica. Quando la polizia croata intercetta le persone in transito non si limita a respingerle verso la Bosnia, ma le deruba, manganella e distrugge loro i cellulari. Le violenze della polizia croata contro chi attraversa illegalmente il confine sono registrate già da alcuni anni sul sito borderviolence.eu, gestito da una rete di associazioni, collettivi e attivisti. Testimonianze e report degli abusi e dei violenti respingimenti vengono tracciati chiaramente anche in una mappa dei respingimenti pubblicata di recente, in costante aggiornamento da parte di attivisti e persone in transito.
Nel 2017 l’Unhcr e le organizzazioni partner hanno registrato circa tremila casi di respingimenti illegali dalla Croazia, a fronte di un numero reale probabilmente maggiore. Se si guardano i dati del 2018, si nota immediatamente l’enorme differenza nei numeri pubblicati dalle diverse fonti. Come mostra il quinto report sulle violenze della polizia pubblicato dal Centro studi per la pace di Zagabria, il Ministero degli Interni croato riferisce che nel 2018 sono state registrate 8207 persone che hanno tentato il passaggio della frontiera; di queste 1438 sono state rimandate «in Paesi terzi», 1068 hanno fatto richiesta d’asilo, 536 sono state portate in centri di detenzione. Il Ministero fornisce informazioni sulla sorte di 3042 persone, ma non su quella delle altre 5165: dove sono queste 5165 persone e, soprattutto, come sono state trattate dalla polizia croata? Secondo le statistiche riportate da organizzazioni e attivisti sul campo, il numero di persone che sono entrate illegalmente in Croazia nel 2018 è decisamente maggiore di quello ufficiale – maggiore è, di conseguenza, anche il numero di respingimenti illegali. Per esempio, nel 2018 i respingimenti dalla Croazia alla Serbia ammontano a circa 10500 secondo l’Unhcr, a circa 6500 secondo Save the Children, mentre secondo il Ministero croato ci sarebbero stati solo 1800 tentativi di attraversamento illegale; le migliaia di persone che mancano dai database sono quelle che la polizia croata ha respinto illegalmente e senza lasciare traccia, e perciò in un quadro di impunità in cui la violenza è divenuta sistematica.
Legalmente, la polizia croata può respingere chi tenta di attraversare il confine sprovvisto di documento valido, attraverso i cosiddetti accordi di riammissione, come vale anche per i Paesi in territorio Schengen (qui una breve guida ai respingimenti, di Asgi). La Croazia non può però respingere coloro che fanno richiesta di asilo, essendo firmataria della Convenzione di Ginevra, secondo la quale ogni persona ha diritto di fare richiesta di asilo e la sua domanda deve essere valutata singolarmente da una commissione. Quindi, un poliziotto alla frontiera non ha alcun diritto o competenza di determinare se quella richiesta d’asilo debba essere accettata o meno Quando la polizia Croata respinge persone che esplicitano verbalmente la loro richiesta di asilo: in quel caso si parla di respingimento illegale. Respingimenti analoghi vengono messi in atto anche dalla polizia slovena, in coordinamento con quella croata. L’Italia non fa eccezione: l’estate scorsa, alcune persone hanno denunciato pubblicamente di essere state respinte da Trieste, e anche quest’anno sono emerse altre testimonianze di respingimenti illegali dall’Italia. Inoltre, i nuovi accordi tra Italia e Slovenia e l’ingaggio di alcune pattuglie miste per la perlustrazione del confine punterebbero a coordinare le polizie lungo la rotta per respingere collettivamente e illegalmente le persone, da Trieste fino in Bosnia-Erzegovina.
Organizzazioni internazionali come l’Unhcr, Amnesty International, reportage d’inchiesta pubblicati sui media internazionali, come quello sull’Espresso, e soprattutto piccole Ong e attivisti sul territorio denunciano fin dal 2018 i respingimenti illegali, il diniego di accesso alla procedura d’asilo, nonché le violenze, gli abusi e le ruberie da parte delle autorità di polizia: una mole di documenti che fa emergere un disegno fatto di violenze sistematiche volte a negare il diritto all’asilo e la dignità umana. Il 21 novembre 2017, Madina, 6 anni, è stata travolta da un treno in corsa, mentre camminava per mano a suo fratello lungo le rotaie del treno al confine serbo-croato, che erano state indicate come via di ritorno dagli agenti della polizia croata, dopo aver negato loro il diritto d’asilo in Croazia. La famiglia di Madina ha fatto causa alla Croazia, portando il caso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Da allora, nessuna giustizia è stata fatta, ma alcuni poliziotti hanno cominciato a parlare. Lo scorso giugno, in una lettera indirizzata a Lora Vidović, la Difensora civica del popolo croato, alcuni agenti di polizia anonimi hanno ammesso il trattamento «inumano» cui sottopongono le persone migranti che finiscono tra le loro mani; in seguito la presidente Grabar-Kitarović ha ammesso candidamente alla televisione svizzera che la Croazia esegue deportazioni di massa, durante le quali – dice – «la forza non viene usata in modo eccessivo. Ovviamente, una piccola dose è necessaria».
Fondi europei // This is German money
La Croazia entrerà nello spazio Schengen nel 2020: l’adesione pone come condizione la capacità e la responsabilità di controllare i confini esterni dell’Ue. La Croazia quindi ferma e respinge i migranti non tanto perché siano un problema di sicurezza interna, essendo peraltro la Croazia solo terra di transito, ma per provare all’Ue di costituire davvero il suo limes meridionale. Secondo Drago Zuparic Iljic, sociologo croato:
la Croazia gioca a fare il guardiano del confine di Schengen, in pratica per mostrare all’Ue che siamo pronti a essere ammessi […]. La Croazia è una pedina nel sistema, e talvolta si tratta di una pedina particolarmente brutale.
Per gli anni 2014-2020, il Fondo asilo, migrazione e integrazione (Fami/Amif) e il Fondo per la sicurezza interna (Fsi/Isf) garantiscono alla Croazia 108 milioni di euro (più 23 stanziati in emergenza) per la gestione dell’immigrazione: a mo’ di paragone, 950 sono i milioni ricevuti dall’Italia nello stesso periodo. Nel dicembre 2018, sono stati stanziati 305 milioni in «aiuti d’emergenza» a Italia, Grecia, Cipro e, appunto, Croazia, che ha ricevuto 6,8 milioni per rafforzare la sorveglianza alle frontiere e la capacità di contrasto, coprendo i costi operativi di dieci stazioni di polizia di frontiera. Nel complesso, nell’ambito del Fami e del Fsi, i fondi di emergenza fanno parte dei 10,8 miliardi di euro mobilitati nel periodo 2014-2020 dalla Commissione Europea per la migrazione, la gestione delle frontiere e la sicurezza interna.
Nel 2014, cioè dalla cosiddetta «crisi migratoria» nei Balcani, l’Ue – su input tedesco – ha dato il via al Processo di Berlino, che ha lo scopo di implementare la cooperazione nella regione e i rapporti tra Ue e Paesi balcanici, con l’obiettivo formale della loro «democratizzazione» ed «europeizzazione», all’interno del processo di allargamento. I Balcani occidentali sono visti come una sfera di influenza fondamentale e un alleato strategico per la questione migratoria e della sicurezza soprattutto dalla Germania, che ha avuto da sempre con quegli Stati una relazione politico-economica di interdipendenza diseguale, che si rafforzò negli anni della Ostpolitik e giocò una parte nella destabilizzazione e nello smantellamento della Jugoslavia.
Oggi, la relazione tra la Germania e i Balcani resta molto forte, grazie al commercio, all’emigrazione dei cittadini balcanici e al finanziamento di progetti di sviluppo e investimenti nella regione, stando ai dati dell’European policy centre; tuttavia, l’egemonia tedesca nei Balcani ha cambiato forma. Come è noto, il Bundestag, unico tra i parlamenti nazionali europei, ha dei poteri diretti sulle decisioni del suo governo in materia europea, e in particolare sulle negoziazioni per l’accesso all’Ue di nuovi Stati membri e la Germania ha un atteggiamento favorevole e al contempo severo sul raggiungimento degli standard. Gli interessi delle élites tedesche ed europee nei Balcani si manifestano infatti oggi all’interno del processo di allargamento dell’Ue, cioè l’impresa di politica estera di maggior successo dell’Unione, percepita come la via migliore per assicurarsi stabilità e pace ai propri confini. La volontà politica di portare i Balcani in Europa, espressa a partire dal Consiglio europeo di Salonicco del 2003, si è manifestata negli anni in maniera contraddittoria; il susseguirsi di slanci (come quello del 2014, con l’ottenimento dello status di candidati di Serbia e Albania, sotto l’alto commissariato Mogherini o la pubblicazione delle linee guida strategiche nel 2018) e pause ha dato la possibilità a poteri extra-europei (Russia, Cina, Turchia) di allignare nella regione. Tuttavia, rimane saldo l’obiettivo strategico di un progressivo allargamento dell’Ue a tutti i Balcani occidentali, basato sulla conclusione del processo di «pacificazione, stabilizzazione e democratizzazione» dell’Europa sud-orientale e volto al «rafforzamento della soft-power europea nell’area, [al] contrasto alla rinnovata presenza della Russia come competitor geopolitico nei Balcani e [alla] lotta all’estremismo politico e religioso».
A conferma che l’attenzione dell’Ue a guida franco-tedesca per i Balcani è legata a doppio filo con la questione migratoria vi è la massiccia presenza di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, in tutti gli stati balcanici appartenenti all’Ue e da maggio 2019 anche in Albania, mentre sono in fase di avviamento accordi con la Bosnia-Erzegovina, la Serbia, il Montenegro e la Macedonia del nord. Frontex sta assumendo un ruolo strutturale di supporto alle polizie di frontiera dei Paesi balcanici e, secondo le testimonianze raccolte dal sito borderviolence.eu, è pienamente coinvolta nelle deportazioni. Stando al report dell’agosto 2019,
le testimonianze raccolte mostrano un’orchestrazione su più livelli da parte della polizia di frontiera e un coinvolgimento fondamentale da parte dei funzionari di Frontex nelle fasi di fermo, detenzione ed espulsione forzate. Fondamentale è tenere in considerazione la collaborazione tra le parti in gioco (la polizia, l’esercito, Frontex, operatori sociali e traduttori) perché rafforza l’evidenza già emersa che i pushback sono una politica orchestrata, e non una serie di incidenti anomali.
L’Ue sceglie quindi di subappaltare il controllo dei confini orientali alle polizie balcaniche di Stati membri e aspiranti membri, coadiuvandole con la presenza di Frontex, e costringendo così quegli stessi Paesi ad avere una questione migratoria interna, che non sussisterebbe se chi riesce a oltrepassare la Turchia e le isole greche potesse attraversare liberamente i Balcani verso la propria vera meta: l’Europa occidentale. Allo stesso tempo, quella stessa questione migratoria rimane di dimensioni contenute, proprio perché le frontiere non sono completamente chiuse e – a prezzo di un percorso lungo anni e della vita di alcune/i – tante persone riescono quotidianamente a raggiungere l’Italia e, da lì, chi vuole, il nord Europa. In breve, la questione umanitaria, quella del controllo delle frontiere e quella dell’allargamento dell’Ue sono strettamente intrecciate e le responsabilità sono diffuse: a conferma, negli ultimi giorni, mentre il sindaco di Bihać dichiarava la fine dei fondi per il campo profughi di Vucjak, l’Iom/Oim regalava furgoni nuovi alla polizia, pagati con i fondi europei per l’allargamento.
Come scrive l’Assemblea contro il Cpr e le frontiere del Friuli-Venezia Giulia, «tutto questo dispiegamento non mira a bloccare chi migra lungo la rotta balcanica […], bensì a rendere quelle frontiere dei tritacarne, dei dispositivi idonei a trasformare chi riesce a superarli in soggetti deboli, disposti a ogni ricatto per conservare il premio di un viaggio difficile». All’interno di questo quadro è da leggere, quindi, l’assenza della rotta balcanica dal dibattito politico in Italia. La retorica italiana anti-immigrazione (e per riflesso la società solidale) si è concentrata sugli arrivi via mare e ha quasi totalmente ignorato gli arrivi quotidiani, ma tutto sommato limitati, da Est: troppo pericoloso sarebbe stato ammettere la porosità del confine orientale (molto più incontrollabile dei porti italiani) e troppo pericoloso sarebbe stato ammettere le responsabilità dirette (e non indirette, come in Libia) dell’Ue nel massacro quotidiano delle persone migranti.
Il prezzo dell’Unione europea
Se un viaggio devastante, lunghissimo, potenzialmente letale è il prezzo da pagare per chi vuole raggiungere l’Europa dalla rotta balcanica, essere i guardiani violenti d’Europa è il prezzo da pagare da parte dei paesi balcanici per entrare completamente nell’Ue. In un articolo su Osservatorio Balcani e Caucaso, il giornalista Ornaldo Gjergji analizzava l’uso del concetto di resilienza nella European Union’s Global Strategy (Eugs) del 2016, dove con resilienza si indicava la capacità di uno stato di resistere pacificamente a pressioni e shock, assicurando il rispetto della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti fondamentali. Da questa prospettiva, pare quasi che la resilienza – in questo caso la capacità di sopportare una crisi migratoria – sia l’abilità da dimostrare da parte dei paesi balcanici per entrare nell’Unione o nello spazio Schengen: tuttavia, la resilienza è anche, contemporaneamente e paradossalmente, la capacità dei popoli balcanici di sopportare le violenze sistemiche che avvengono nei loro paesi da parte delle loro polizie, cui tocca meritarsi il titolo di guardiani del confine. Come era stato vent’anni fa, quando i paesi europei stettero a guardare mentre a Sarajevo si consumava ciò che in Europa non sarebbe potuto accadere (e fecero succedere quello che in Europa non doveva «mai più» succedere), oggi, di venti anni più esperta, l’Ue chiede a quegli stessi paesi – che non sono ai suoi occhi mai abbastanza europei – di tornare a violare apertamente ciò che in Europa è formalmente inviolabile, per meritarsi, paradossalmente, l’onore di entrare in quell’ambitissima Unione.
*Maddalena Avòn attivista nell’iniziativa Welcome!, lavora al Centro Studi per la Pace di Zagabria. Michela Pusterla è dottoranda in Italianistica all’Università di Trieste.
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