Non succede, ma se succede…
In Italia sempre di più i vantaggi ereditati predeterminano le opportunità, eppure a differenza di altri paesi il dibattito sulle imposte patrimoniali rimane un tabù. Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha lanciato un piano per invertire la rotta
All’alba del Novecento, Eugenio Rignano dava alle stampe un volume piuttosto ambizioso sin dal titolo: Di un socialismo in accordo con la teoria liberale. Nel libro, l’autore proponeva una radicale riforma dell’imposta di successione, che gli avrebbe regalato una certa celebrità a cavallo della Grande Guerra. In quegli anni, si discuteva in Italia della progressività sulle imposte, introdotta per la prima volta proprio sulle successioni nel 1902. Ma se per gli economisti italiani l’imposta progressiva mirava al più a distribuire equamente il carico fiscale, con Rignano quella sulle successioni assumeva un ruolo non solo pienamente redistributivo, ma addirittura palingenetico, in grado di trasformare il sistema economico in senso “socialista”.
Come ricostruito in un saggio di Terenzio Maccabelli, pur partendo dall’analisi marxiana dei rapporti di produzione, Rignano trae ispirazione dai padri di ciò che oggi è noto come “socialismo liberale” (su tutti John Stuart Mill, non a caso tra i primi liberali a sostenere l’imposta di successione). Se Mill, esponente di quella che Eric Hobsbawm definì l’Età del Capitale, partiva dalla assoluta centralità e “naturalità” del diritto di proprietà, ben diversa era la fase storica in cui Rignano si trovava a scrivere. Ancora era da venire l’Ottobre russo (che lo avrebbe spinto persino ad appoggiare il fascismo), ma i crescenti conflitti di classe rendevano per l’autore inevitabile per la borghesia assecondare un radicale, ma graduale, cambiamento del sistema, tale da garantire la «maggior possibile uguaglianza nelle condizioni iniziali», pur salvaguardando i meccanismi di mercato. Se era infatti evidente la superiorità dell’impresa privata nel creare ricchezza, la sua «concentrazione sempre maggiore in pochi individui», e la lotta impari che generava tra rendita e abilità, arrivava a rendere persino dannosa la competizione. La soluzione ingegnosa secondo Rignano era una tassazione delle eredità in modo progressivo, ma rispetto al tempo – e cioè al numero di trasmissioni ereditarie. Il primo passaggio da una generazione all’altra di quei risparmi accumulati col proprio lavoro era da tassare poco o nulla, ma le fortune che un genitore trasmetteva dopo averle a sua volta ereditate, sarebbero state colpite con aliquote confiscatorie, tali da avocare, nel volgere di poche generazioni, questi beni allo Stato.
Il Forum Disuguaglianze e il “Piano Atkinson”
Volano certamente più basso di Rignano i ricercatori e le organizzazioni radunate dentro il Forum Disuguaglianze e Diversità, che lunedì 25 marzo hanno lanciato da Roma le loro 15 proposte per la giustizia sociale. Eppure sono forse i primi, dopo l’eclettico ingegnere milanese, a provare seriamente a imporre il tema della successione ereditaria al centro del dibattito politico italiano, nonché ad affrontare il nodo delle disuguaglianze crescenti in modo da andare oltre una loro generica evocazione. Come ha riassunto aprendo l’incontro Andrea Morniroli, della cooperativa sociale Dedalus, il Forum è nato due anni fa – su iniziativa della Fondazione Basso di Roma, e in particolare di una “vecchia conoscenza” della politica italiana come Fabrizio Barca – con l’ambizione di essere un’alleanza «tra il fare e il pensare», per andare a fondo su problemi su cui di solito si tende a rimanere in superfice. Accanto a progetti di “ricerca-azione”, i promotori hanno scelto di concentrare l’analisi e la proposta al tema delle disuguaglianze di ricchezza. L’obiettivo, ha spiegato subito dopo lo stesso Barca, è partire «da dove gli altri si fermano»; da quelle disuguaglianze che «non sono solo economiche», ma sempre più di accesso ai servizi, di «riconoscimento», che in assenza di «alternative sociali» hanno finito per produrre una «dinamica autoritaria». È necessario ridurle, «perché è giusto», oltre che possibile; lungi dall’essere ineluttabili, le disuguaglianze sono frutto «di una svolta politica di trent’anni fa che può essere invertita» per mezzo di politiche pubbliche, «radicali». È necessario tuttavia aggredire «a monte» (nella cosiddetta «pre-distribuzione») quelle forze che generano la disuguaglianza, riallocando «potere» (e non semplicemente «riaggiustando le cose all’interno del sistema di potere dato»). Per farlo, conclude Barca, è necessario «ripristinare strumenti eliminati e soffocati negli ultimi anni», «senza alcuna paura di essere definiti nostalgici»; ma allo stesso tempo guardando avanti, impiegando le nuove tecnologie e recependo «l’energia della cittadinanza attiva».
A scrivere le oltre 150 pagine del rapporto, sono state decine di persone, che si sono a loro volta confrontate con i quadri delle organizzazioni coinvolte, amministratori pubblici, studenti, sindacalisti, in decine di seminari (cui chi scrive ha avuto il piacere di partecipare un paio di volte) e incontri informali. Non solo, insomma, come si lascia scappare nel video di saluti la segretaria confederale della Cisl Furlan, «il Forum di Barca». Ed è questo, verrebbe da dire, il primo, grande valore aggiunto, rispetto alle tante iniziative, più o meno sporadiche, centrate negli ultimi anni sulle disuguaglianze. Si può affermare, senza timore di smentita, che nel panorama italiano, un metodo di lavoro come quello del Forum rappresenta un salto di qualità importante. Dalla discussione, tra i membri, delle stesse parole su cui fondare un ragionamento sulla disuguaglianza, agli approfondimenti seminariali, i cui materiali sono stati raccolti in un e-book, fino al confronto sui territori. Era e rimane certamente lecita la perplessità nel vedere simili proposte lanciate da ex ministri dei governi Monti e Letta; ma chi scrive crede che non solo il rapporto finale, ma anche la sua presentazione (tre ore e mezza tesissime, senza pause utili ai capannelli, in cui decine di persone si sono alternate a illustrare le proposte) fughino ogni dubbio sulla volontà e capacità di mettersi in gioco dei membri del Forum, e dell’efficacia di questa prima fase del loro lavoro. Un lavoro che non solo con le proposte, ma con l’analisi, i dati, i riquadri-glossario e gli esempi pratici, rimarrà a disposizione di chiunque vorrà interessarsi di come combattere le disuguaglianze, e che sarebbe bello “infettasse” quanto più possibile il dibattito “a sinistra”. Del resto, non nascondono di aver scritto – oltre che per chi non si ferma alla denuncia del problema ma vuole risolverlo (Barca cita Rutger Bregman, lo storico olandese che all’ultimo meeting di Davos ha avuto gioco facile nello smascherare l’ipocrisia dei milionari) – per “i partiti”, dal Pd a Potere al Popolo, invitati al lancio delle proposte, ma anche a contattare il Forum per discutere ulteriormente di come dargli attuazione. Sul palco, a prendere impegni più o meno concreti, sono saliti esponenti di amministrazioni locali piuttosto diverse, come Bologna, Napoli, Milano.
Concretamente, il piano si articola in tre aree di intervento – “un cambiamento tecnologico che accresca la giustizia sociale”; “un lavoro con più forza per contare”; e “un passaggio generazionale più giusto” – a loro volta articolate in 15 proposte. Fin dal sottotitolo, il piano richiama l’eredità intellettuale dell’economista inglese Tony Atkinson, scomparso nel 2017. Nelle parole di Andrea Brandolini (Banca d’Italia, tra i massimi esperti mondiali del tema, e membro del Forum), Atkinson è stato «l’economista che più di chiunque altro ci ha aiutato a capire come misurare, analizzare e contrastare la povertà e la disuguaglianza, in teoria e in pratica». Come scrisse il Financial Times, Atkinson tenne accesa quasi da solo la fiamma dello studio delle disuguaglianze, nei decenni in cui il neoliberismo trionfava dentro e fuori l’accademia. Se è toccato più ad altri – su tutti un suo allievo, il francese Thomas Piketty, autore del best-seller mondiale Il Capitale nel XXI secolo – portare questi temi alla ribalta internazionale, Atkinson non ha mancato di spendersi come attivista, e anche generoso militante del Labour Party. Mentre la grande volta del welfare state britannico, ispirato dal Piano Beveridge e implementato nel dopoguerra dai laburisti, tremava sotto le bombe dei governi di Maggie Thatcher, in una stanzetta vicino ai Commons, Atkinson seguiva in tempo reale il dibattito d’aula, fornendo munizioni in tempo reale alla contraerea dello shadow cabinet. Al suo ultimo libro – scritto durante la malattia, e significativamente dedicato «alle persone meravigliose» del servizio sanitario inglese – Atkinson ha affidato il suo testamento intellettuale, corredato appunto da quindici proposte su cosa può essere fatto.
Il peso dei “vantaggi ricevuti”
Il terzo capitolo del piano del Forum Disuguaglianze “traduce” nel contesto italiano le proposte 6 e 10 della lista di Atkinson – l’istituzione di una «dote di cittadinanza», o «eredità minima», e l’introduzione o il rafforzamento di imposte progressive sull’eredità e le donazioni ricevute nell’arco della vita. Come nel caso di Rignano, la seconda misura assume un ruolo chiave per l’uguaglianza nelle condizioni di partenza, proponendosi come una vera e propria imposta sul «beneficio acquisito» senza merito. L’imposta sui vantaggi ricevuti colpirebbe infatti, su base progressiva, «tutti i patrimoni e le donazioni ricevute nel corso della vita, ogni volta che questi entrano nella disponibilità degli eredi/donatari». Con una soglia di esenzione pari a mezzo milione, e un’aliquota marginale del 5% fino al milione, l’imposta sarebbe tutt’altro che confiscatoria: l’intervento principale riguarda i benefici superiori al milione, tassati con aliquota marginale del 25%, e quelli oltre i 5 (50%). Tenendo a riferimento i dati esistenti sull’eredità, nel 2016 appena il 2.5% del totale dei lasciti superava il milione di euro – e questo prima di dividere l’eredità tra i diversi soggetti che verrebbero tassati dalla nuova imposta. Anche in questo modo, mentre l’aliquota effettiva rimarrebbe comunque bassa anche per i super ricchi, la progressività del sistema sarebbe fortemente migliorata, colpendo più duramente i pochi “paperoni” italiani: secondo le stime del rapporto, dai 108 mila eredi tassati del 2016 si passerebbe ad appena 10 mila, aumentando però il gettito da 1,4 a 5,2 miliardi l’anno.
L’attenzione alle successioni e alle donazioni è conseguenza, come spiegano le pagine introduttive della proposta, dell’evoluzione delle disuguaglianze di ricchezza in Italia negli ultimi tre-quattro decenni. Come abbiamo riassunto con Marta Fana nel primo numero di Jacobin Italia, più ancora che nei redditi, è nella ricchezza – l’insieme di beni e risorse che costituisce il patrimonio – che l’Italia è diventata sempre più diseguale, con l’1% dei più ricchi arrivato a detenere circa un quarto della torta. Questo è tanto più grave, se si tiene conto che in Italia, ancora più che nel resto dell’Occidente, il peso della ricchezza privata in rapporto al Pil (indicatore proposto da Piketty come misura del «grado di intensità capitalistica» di un Paese, anche se, da noi come altrove, è composto anche di proprietà immobiliari e altri beni non assimilabili a vero e proprio “capitale”), è cresciuto a dismisura. Se nel 1970, occorreva poco più di due anni di reddito nazionale per “comprare” i patrimoni degli italiani, oggi – per l’aumento dei valori di case e azioni, il basso indebitamento medio, e anche la stagnazione dell’economia – ne servono oltre sette.
Come mostra la figura, riprodotta dal rapporto, al crescere del peso della ricchezza non è corrisposto un incremento della sua tassazione: l’imposta di successione – in assenza di un’imposta patrimoniale, e con le alterne vicende di quella sugli immobili, la principale forma di tassazione della ricchezza – ha assunto un peso sempre più ridotto all’interno delle entrate dello Stato, e questo, in conseguenza della drastica riduzione delle aliquote. Un fenomeno, quello dell’arretramento delle imposte di successione, che come scriveva qualche anno fa l’economista Graziella Bertocchi è piuttosto generalizzato; eppure, come mostrano le elaborazioni del Forum, su questo noi italiani non ci siamo fatti certo parlare dietro. Ancora prima della abolizione, realizzata dal centrodestra nel 2001, era stato il centrosinistra (Amato II) a eliminare la progressività, portando l’aliquota ad appena il 4% per i trasferimenti in linea retta (valore cui è oggi, dopo la reintroduzione da parte del Prodi II nel 2006). La conseguenza, inevitabile, è stato l’aumento del peso della ricchezza ereditata: secondo recenti elaborazioni, presentate da Salvatore Morelli (City University New York) nei diversi incontri del Forum e riprodotte nel rapporto, il valore medio delle successioni «è passato da circa 200mila euro nel 1995 a circa 300mila nel 2016» anche al netto dell’inflazione, mentre è aumentata anche la concentrazione al loro interno, così come la quota di famiglie che dichiara di aver ereditato un immobile.
Non sorprende, dunque, che cresca anche la trasmissione intergenerazionale di queste disuguaglianze – o, in altri termini, che cali la mobilità sociale. Qui il rapporto si avvale di stime recentissime, come quelle di Francesco Bloise (Inapp) sulla ricchezza, e quelle di Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio (Banca d’Italia) relative anche a reddito e istruzione. La probabilità di appartenere al 20% più povero in termini di ricchezza, calcola Bloise, è del 32% per i figli dei poveri, e solo il 12% per chi viene dal 20% più ricco. Come scriveva nel 1906, pochi anni dopo Rignano, lo statistico Rodolfo Benini:
Nelle classi più umili della società, mancando un patrimonio sufficiente per accedere a professioni assai remunerative, ma richiedenti un lungo e costoso tirocinio, le forze di lavoro vengono utilizzate già nell’adolescenza; l’individuo si guadagna presto la vita, ma guadagna poco, il poco necessario. Nelle classi relativamente agiate, si guadagna tardi, ma si guadagna più che in proporzione. I diversi gruppi sociali, per il fatto stesso della ricchezza maggiore o minore di cui dispongono, costituiscono, in quanto concerne la scelta delle professioni, dei gruppi non concorrenti, o tali almeno che la concorrenza riesce facile da strati superiori a inferiori, difficili invece nel senso inverso.
Sembrerebbe che ben poco sia cambiato in un secolo – se non che, almeno ai tempi di Benini, le imposte sulle eredità erano progressive! Il cognome giusto in Italia serve oramai persino per giocare a calcio, verrebbe da dire guardando la lista di “figli di” che esordiscono nella nostra Serie A. E non deve ingannare che, tra i Chiesa e i Di Francesco, figurino anche i Kluivert e i Simeone: se le disuguaglianze crescenti sono un fenomeno largamente globale, nella classifica della mobilità l’Italia è andata peggio che ai Mondiali. In un grafico dell’economista canadese Miles Corak, che contrappone disuguaglianza di reddito a immobilità sociale (efficacemente soprannominato «la curva del Grande Gatsby» dal recentemente scomparso Alan Krueger), l’Italia spicca tra i più immobili Paesi avanzati, in linea coi paesi anglosassoni.
Come è radicale la socialdemocrazia?
Eppure, dati come questi non sembrano destare scandalo – e se ai tempi di Rignano, qualche liberale poteva ancora indignarsi per le disuguaglianze, a queste latitudini sembra preoccupare piuttosto che un ex steward possa assumere ruoli governativi, o che persone in povertà assoluta riescano ad arrivare a fine mese grazie alla fiscalità generale. Ancor più che ai tempi di Mill, il socialismo non pare certo all’orizzonte, e la risposta alla «dinamica autoritaria» è spesso un arroccamento neo-elitista e meritocratico. In questo contesto, persino una riforma “moderata” come quella proposta dal Forum sembra andare contro il vento della storia. Mentre in Europa Piketty e Varoufakis dibattono di imposte sui ricchi, e persino negli Stati Uniti, i principali candidati Democrat si sfidano a colpi di imposte patrimoniali (Warren) o sull’eredità (Sanders), in Italia, di fronte a una destra che propone di riportare la progressività fiscale a un secolo fa, il centrosinistra sa rispondere solo che «non ci sono i soldi» (che è pur sempre meglio di «l’abbiamo già fatta noi»). Certamente, la destra italiana, liberale e non, ha una lunga storia di ritrosia a questa imposta, potendo vantarne addirittura due abolizioni (caso a quanto ci risulta assolutamente unico nel panorama internazionale): ben prima di Berlusconi, proprio dopo che la Grande Guerra aveva imposto ovunque il tema della “coscrizione del capitale” e portato alla ribalta la proposta Rignano, il fascista liberista Alberto De’ Stefani, ministro delle finanze dal 1922 al 1925, aboliva l’imposta di successione nel pieno della lotta per il pareggio di bilancio. In un articolo postumo, il “principe” degli economisti liberisti, Maffeo Pantaleoni, avrebbe rivendicato la paternità dell’iniziativa, sulla base di un esplicito rifiuto dell’eguaglianza dei punti di partenza (anche per influenza delle idee del suo amico e collega Vilfredo Pareto) che anticipava di oltre mezzo secolo von Hayek.
E tuttavia, se rinunciamo alla facile tentazione di leggere l’Italia come un’eterna idiosincrasia, non sembrano mancare motivazioni pragmatiche oggi per l’opposizione diffusa degli italiani a nuove tasse, dopo tre decenni di stagnazione e avanzi primari di bilancio shackerati, in cui i governi di centrosinistra e tecnici hanno falcidiato, in nome della disciplina di bilancio, i redditi da lavoro dipendente, le partite Iva e i lavoratori autonomi onesti, aumentato un’imposta regressiva come l’Iva e prelevato forzosamente dai conti correnti, spolverando appena le grandi ricchezze, rendite e privilegi (come si è visto, eredità incluse). Il pregio della proposta del Forum, e persino di quelle soglie di esenzione decisamente alte (altro che “ceto medio”!), sta proprio nel cercare di invertire questa dinamica, ripartendo dal principio per cui con le tasse, chi più ha più contribuisce al soddisfacimento dei bisogni collettivi e alla sicurezza sociale. Se sembra ineludibile, per una sinistra che ambisca a uscire dall’irrilevanza, affrontare il tema di una vera, radicale, complessiva riforma fiscale, misure come l’imposta sui vantaggi ricevuti hanno il merito di iniziare a levare argomenti a chi dipinge la fiscalità (e non le sue distorsioni) come un’ingiustizia (e, allo stesso tempo, qualsiasi spesa pubblica come uno spreco).
La dote di cittadinanza: un nodo… Capitale
L’imposta non è, tuttavia, l’unica proposta del Forum in termini di mobilità intergenerazionale. Come menzionato, la parte terza include anche una «dote di cittadinanza» di 15 mila euro, incondizionata e universale, da ricevere al compimento del diciottesimo anno di età. L’intervento, il cui costo viene stimato in 8,8 miliardi di euro, livellerebbe le opportunità non solo in negativo, ma anche in positivo, permettendo a ogni diciottenne di impiegare quella cifra nel modo in cui meglio crede – studiare, metter su un’attività, viaggiare. Al tempo di un “reddito di cittadinanza” che sembra più il famigerato Hartz IV tedesco, una difesa così accorata dell’universalità e della non condizionalità, e individuare nei singoli (e non nelle famiglie) i soggetti beneficiari, è una boccata d’aria fresca. Eppure, i promotori non nascondono come questa sia la proposta più “debole”, per via dell’idea di fare «parti uguali tra disuguali», come raccontano di essersi sentiti dire in giro per l’Italia. Morniroli riporta a riguardo un aneddoto, relativo al dibattito sull’introduzione del Servizio Sanitario Nazionale: a Cesare Romiti – allora amministratore delegato della Fiat – che gli chiedeva se davvero lo si voleva far curare gratis, un operaio rispose: «Ingegnere, ci lasci almeno questa soddisfazione!». Di questi tempi, di “soddisfazioni” l’Ssn ne regala sempre meno, soprattutto al Sud e nelle aree interne; e i recenti disegni in merito di secessione fiscale rischiano di mettere ulteriormente in pericolo quel poco di stato sociale universale che abbiamo. Sembrerebbe dunque tatticamente preferibile indirizzare alla difesa e al rafforzamento di sanità, scuola e diritto allo studio, edilizia popolare, le maggiori risorse ottenibili aggredendo i privilegi, ribaltando lo schema che vorrebbe “regioni povere contro regioni ricche”, e rimettendo sotto i riflettori lo scontro tra i Romiti (e gli Agnelli) e chi per vivere ha ancora bisogno di lavorare.
Ciò detto, strategicamente la proposta di una «eredità universale» ha un grande valore, che merita di essere ripresa e sviscerata con attenzione. Nel libro di Atkinson, questa misura trova posto all’interno di un capitolo che tratta, significativamente, di condivisione del capitale. Nonostante la maggior parte della sua ricerca abbia cambiato il modo in cui guardiamo alla disuguaglianza tra le persone (quella misurata da indici come il Gini, o la quota dell’1% più ricco), Atkinson ha dedicato alcuni dei suoi ultimi contributi a riaffermare l’importanza di un concetto distributivo più “classico”, come quello delle quote salario e capitale. Dagli anni Ottanta, assieme al peso della ricchezza, è aumentata anche la quota di reddito nazionale che va a remunerare proprio il capitale. Il trend è comune a tutte le economie avanzate, anche se in questo caso l’Italia farebbe eccezione (forse, come argomentano Enrico D’Elia e Stefania Gabriele in un recente contributo, per un problema di fonti statistiche). Proprio nei redditi da capitale Atkinson vedeva una delle cause del crescere della disuguaglianza, e per questo sosteneva la necessità di ridiscutere gli equilibri proprietari. In questo contesto trova posto l’antica proposta di Thomas Paine, ma anche la ricostituzione di una ricchezza pubblica, per mezzo di fondi nazionali d’investimento. Se la scelta di assegnarla alla maggiore età risponde alla questione della giustizia intergenerazionale, la misura va inserita all’interno del tentativo di “democratizzare” la proprietà del capitale, senza il quale è difficile perseguire un riequilibrio degli attuali rapporti di forza. Aldilà della sua concreta attuabilità nell’Italia di oggi, una discussione sulla dote di cittadinanza apre la possibilità di discutere di cambiamenti più radicali, che (un po’ come l’antica proposta Rignano da cui siamo partiti) rimettano in discussione l’attuale assetto dell’economia. Se anche si accettasse la visione di chi, come Nick Srnicek e Alex Williams, vede alle porte un futuro di “piena automazione”, passare da reddito a “dote” di cittadinanza equivale a chiedersi non più «chi gode dei frutti della piena automazione», ma «a chi spetta la proprietà delle macchine»; e cioè «chi ha potere di decidere chi ne gode i frutti». Sembra un tema, dunque, da approfondire anche alla luce delle proposte avanzate sul riequilibrio del potere contrattuale del lavoro, e sull’orientamento dell’innovazione, avanzate nelle altre parti del Piano.
Per combattere le disuguaglianze bisogna fare politica
Senza voler certo introdurre il socialismo per legge, le proposte lanciate dal Forum hanno il grande merito di scuotere il dibattito pubblico italiano, lanciando, assieme a idee di “facile” realizzazione, proposte più ambiziose e controverse, come quella sull’eredità universale.
Le proposte aprono diversi fronti, e in particolare, hanno il merito di rappresentare il primo tentativo di risposta alla crescente immobilità generazionale in Italia, combinando un rafforzamento dell’imposta sui lasciti ereditari, con un’innovativa «dote di cittadinanza». Il passaggio da una vaga denuncia dell’“aumento delle diseguaglianze”, all’individuazione delle cause anche politiche, e soprattutto, proposte con nome e numeri, renderà inevitabile le prese di posizione, e in qualche misura la rottura della melassa ambigua per cui si dichiara contro le disuguaglianze anche chi le ha attivamente promosse. Il successo andrà valutato nel tempo, ma certamente il lavoro di ricerca e di ascolto fatto fin qui lascia in dote a chiunque voglia cambiare lo stato di cose presenti, una messe di analisi, elaborazione, proposte. Rispetto a iniziative più o meno simili del passato, colpisce la qualità e la serietà del lavoro, ma anche la fruibilità dei testi, e l’efficacia comunicativa. Nel merito, una larga alleanza di organizzazioni tutt’altro che estremiste, di accademici, ed ex “tecnici”, ha elaborato proposte serie, per certi versi più radicali di quelle di tanta politica (e di tanta sinistra che, troppo spesso, proposte vere, radicali, sembra non averle più).
Se alzare il livello del dibattito è importante, non possiamo illuderci che basti vincere la battaglia delle idee – a Rignano seguì il fascismo, che affrontò energicamente, ma in tutt’altro modo, le disuguaglianze. Da uno stato di mero riconoscimento di un dato di fatto, siamo ora in grado di discutere azioni e proposte concrete per invertire la rotta. Ma combattere le disuguaglianze richiede di fare politica, unire un mondo del lavoro (e del non lavoro) diviso, costruire gambe su cui far camminare proposte radicali. Pure su questo, per fortuna o purtroppo, sembra che il Forum sia un pezzo avanti a molti.
*Giacomo Gabbuti è dottorando di storia economica all’Università di Oxford.
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