
Nostalgia di futuro
Bisogna evitare la ridotta identitaria oppure la semplice cerimonia istituzionale: cinque tesi per un antifascismo trasformativo
Non considero il salvataggio in mare come un’azione umanitaria, ma come parte di una lotta antifascista.
Pia Klemp, capitana della nave Louise Michel, al Guardian
La festa della Liberazione del 25 aprile 2023 assume un significato inedito. Per la prima volta dopo la fine della Seconda guerra mondiale, infatti, un partito legato geneticamente al neofascismo si trova a guidare il governo del Paese e a occupare alcune delle più importanti cariche dello Stato repubblicano, nato proprio dalla Resistenza al Fascismo. Mi riferisco, ovviamente, a Fratelli d’Italia nel cui simbolo arde orgogliosamente la fiamma tricolore, già appartenente al Movimento sociale italiano. Un partito, quest’ultimo, che – com’è noto – rivendicava un robusto filo di continuità con la Repubblica Sociale Italiana (Rsi).
Gli appassionati di memoria e di politiche della memoria, in realtà, si sfregano le mani già da un pezzo. In effetti, quasi fin dal suo insediamento, il nuovo governo si è impegnato con metodo nell’uso politico della storia del Fascismo e dell’antifascismo. Bastino qui solo due esempi strettamente collegati. La delegittimazione dell’azione partigiana di via Rasella e l’estensione al massacro delle Fosse ardeatine del registro ultra nazionalista impiegato per «inventare» le foibe: tutti crimini contro gli italiani responsabili solo di essere italiani. È del tutto evidente che la posta in gioco non sia il dibattito accademico su quegli eventi, bensì lo svuotamento del fondamento antifascista della Repubblica che consente di andare verso un altro tipo di Costituzione materiale – e probabilmente anche formale – nell’imminente futuro. Se il buongiorno si vede dal mattino, i fratelli italiani e i loro alleati promettono grandi performances nelle prossime settimane. Cosa ha da dire l’antifascismo?
Nonostante alcuni segnali confortanti, come la manifestazione di Firenze del 4 marzo 2023, lo stato di salute dell’antifascismo è molto preoccupante. Affinché esso non sia soltanto un richiamo simbolico sempre più residuale, è necessario un lavoro politico e culturale profondo da svolgere collettivamente sia sul piano delle pratiche concrete di lotta sia su quello della narrazione e ri-semantizzazione nel presente. Tale opera non può che iniziare da una rilettura del passato.
L’antifascismo non è solo una reazione, ma un programma di trasformazione
La nascita del Fascismo – dapprima come movimento durante la crisi del primo dopoguerra, poi come regime con una vocazione totalitaria negli anni seguenti – dischiuse immediatamente la reazione di resistenza e di contrasto di eterogenee aree politiche del paese. Per quasi un ventennio, tuttavia, tali aree – comunisti, socialisti, liberalsocialisti, liberali, cattolici, democratici radicali, giellisti – costituirono un campo diviso internamente su tutto: l’interpretazione di cosa fosse il Fascismo e della sua durata, il modo di abbatterlo, le alleanze necessarie, gli obiettivi di lungo periodo.
Soltanto alla fine degli anni Trenta, quel campo divenne un’alleanza, passando attraverso errori madornali, prove durissime, scontri fratricidi e trasformandosi insieme alle metamorfosi del Fascismo e del contesto internazionale. Al di là di un accordo sui mezzi – la guerra, la lotta armata e l’unione di tutti – la sintesi raggiunta si fondò su un architrave: la democrazia a venire, pur nelle diverse declinazioni del concetto, doveva dimostrare concretamente di essere migliore e più desiderabile dei fascismi. Non bastavano né la propaganda o l’ideologia né la semplice vittoria militare perché il Fascismo era stato – tra l’altro – un progetto politico di integrazione delle masse. Neppure bastava la riproposizione del liberalismo antecedente alla Grande guerra – benché esistesse qualche nostalgico. La ragione era semplice: esso era stato tra le cause della nascita del Fascismo proprio per il suo carattere elitario e non democratico. Bisognava, altrimenti, fondare un sistema politico che garantisse a tutti diritti civili, politici e sociali senza lasciare nessuno fuori.
Fin dalla sua fase matura, quindi, l’antifascismo contenne in sé una tensione permanente, positiva e costituente che lo proiettò nel futuro, sganciandolo dalla semplice identificazione con il Fascismo storico. In questo senso, l’antifascismo fu anche – e soprattutto – un progetto egualitario di trasformazione della società e delle forme di vita che modellò, riempì e diede senso alla nascita della democrazia di massa in Italia, segnando l’orizzonte della sua espansione a venire. Il riscontro empirico di questa constatazione è l’articolo 3, cifra della Costituzione repubblicana. Lo si rilegga con attenzione. Chi può dire che sia consunto o superato?
L’antifascismo è generativo
Nei decenni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, la Guerra fredda aprì dentro l’alleanza antifascista una frattura che coinvolse anche il modo stesso di stabilire cosa fosse l’antifascismo nel nuovo scenario. Ciononostante, la funzione costituente dell’antifascismo e la profondità del suo radicamento nella storia italiana continuarono a renderlo un agente della trasformazione.
Da questo punto di vista, è possibile individuare delle vere e proprie onde di riappropriazione di quella tradizione e di attivazione di circuiti virtuosi tra la società e le istituzioni locali e/o nazionali con un duplice effetto. Per un verso il patrimonio storico dell’antifascismo si è rinnovato nel tempo, incontrando nuovi bisogni, desideri, aspettative, domande politiche dischiuse dal cambiamento sociale. Per altro verso, quelle onde della riappropriazione non sono state astratte operazioni di riscrittura intellettuale. Esse, piuttosto, si sono prodotte all’interno di mobilitazioni, di stagioni di intensa partecipazione e di presa della parola pubblica che hanno agito sulle istituzioni, proteggendo la democrazia nei momenti ricorrenti di crisi più acuta, estendendone continuamente le frontiere.
Si cominciò già il giorno dopo la Liberazione in quei territori dove la presenza della Resistenza era stata più marcata, come l’Emilia. Qui, contro le politiche del Fascismo per l’infanzia – squisitamente eugenetiche – e quelle patriarcali verso le donne, germinarono asili e scuole autogestite per i bambini delle lavoratrici e dei lavoratori. La cifra di quell’onda, in particolare, era garantire alle donne di essere cittadine come gli uomini e ai bambini di essere soggetti di diritti. Quelle case costruite con le mani mattone su mattone diventeranno un modello di educazione pubblica studiato in tutto il mondo. Si proseguì nel cuore del «miracolo economico» quando una parte del paese insorse contemporaneamente contro l’ingresso del Movimento sociale italiano nell’area della maggioranza di governo nel 1960 e contro i profondi squilibri di ricchezza e di prospettive di futuro esistenti. Dopo circa un decennio una nuova onda montò per inceppare i ritmi massacranti del fordismo nelle fabbriche, la riproduzione di classe garantita dal sistema formativo e la «strategia della tensione». Ne derivò la più intensa stagione di riforme (nel significato originario e autentico) che l’Italia abbia mai conosciuto. E poi ancora alla metà degli anni Novanta una nuova onda seppe leggere quali tossine Silvio Berlusconi aveva già introdotto nel paese come modello imprenditoriale e, profeticamente, quali altre avrebbe poi diffuso nelle falde della democrazia da leader politico. In tutti questi momenti, l’antifascismo dimostrò di essere una risorsa polisemica (politica, simbolica, militante) e fu generativo.
L’antifascismo ha bisogno di nuovi attori e di narrazioni non retoriche
La ri-semantizzazione dell’antifascismo e la rivitalizzazione della sua memoria si è sempre mossa dal presente verso il passato grazie alla spinta decisiva di attori ai margini della cittadinanza, intesa come spazio del godimento dei diritti: le donne nell’immediato secondo dopoguerra; i giovani (specie gli apprendisti) nel miracolo economico; gli studenti e gli operai negli anni Settanta; le prime generazioni di precari all’alba degli anni Novanta. Questi attori sono stati il nucleo più attivo della riappropriazione dell’antifascismo e in esso hanno trovato una risorsa che servisse loro – a partire da nuove identità sociali e politiche – per interpretare una realtà profondamente diversa dagli anni Trenta e Quaranta. In nessuna di quelle onde, infatti, la vera posta in gioco fu la ricomparsa del Fascismo storico o l’esclusiva violenza del neofascismo – benchè operante. Al cuore dei loro discorsi e delle loro pratiche politiche ci furono tutti i dispositivi che aggredivano la democrazia e ne ostacolavano il funzionamento. Tra essi, anche il capitalismo, ma l’antifascismo è irriducibile al mero anticapitalismo, così come il Fascismo fu irriducibile al mero capitalismo. Non sarebbe servita, d’altronde, una parola distinta.
È storicamente sbagliato, tuttavia, ricondurre le onde della riappropriazione dell’antifascismo al protagonismo esclusivo di pochi soggetti e/o a spiegazioni monocausali. Esse, piuttosto, furono l’effetto di molteplici condizioni di possibilità e videro il concorso – non sempre armonico – di movimenti, di partiti, in taluni casi di istituzioni locali e/o nazionali, di intellettuali con la schiena dritta. Posizionati dentro le lotte in corso, essi diedero un contributo fondamentale per la rilavorazione dei materiali politici e simbolici che provenivano da quelle lotte e, in definitiva, per la ri-narrazione dell’antifascismo. Tra essi, gli storici – portatori di un sapere specifico che corre incessantemente sulla linea del tempo – seppero trarre, nei casi migliori, suggestioni dal presente per rileggere il passato, muovendo poi da questo verso l’attualità con nuovi strumenti al servizio dell’antifascismo per decostruire i dispositivi che soffocavano la democrazia.
Non tutti i discorsi, però, sono stati sic et simpliciter generatori di nuove onde. Le politiche della memoria degli anni Sessanta e degli anni Ottanta insegnano – al contrario – che la cristallizzazione dell’antifascismo in stanche retoriche e ritualità istituzionali, così come le ossessioni commemorative, determinano effetti contrari.
Senza un orizzonte di trasformazione l’antifascismo soffoca
Il passaggio dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica – sullo sfondo della globalizzazione neoliberista – ha assegnato un colpo micidiale all’antifascismo da cui proviene l’attuale immobilismo di fondo. Sul piano interno, la fine dei partiti che avevano scritto la Costituzione e la nascita di partiti post-costituzionali, come Forza Italia, ha indebolito il legame genetico tra l’antifascismo e il campo politico repubblicano. In particolare, la chiusura del Partito comunista italiano ha avuto un peso incalcolabile sullo sfarinamento dell’antifascismo nelle istituzioni locali, in quelle nazionali e in una parte della società che in esso si riconosceva. Esso, infatti, aveva fondato la sua legittimità nel dopoguerra proprio sulla lotta al Fascismo. Sul piano internazionale, l’implosione dell’Urss e l’accelerazione della globalizzazione neoliberista hanno creato le condizioni per l’affermazione di un’estesa egemonia neoliberale capace di vandalizzare il terreno di coltura di qualsiasi progetto di trasformazione, persino retrospettivamente (viene in mente Walter Benjamin…«neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince»). Dalla rivoluzione francese fino ai movimenti alter globalisti, passando per la Resistenza e il ‘68, ogni anelito di giustizia è stato etichettato come un germe di totalitarismo. Oggi capita di nuovo con l’ambientalismo più radicale. La globalizzazione, infine, ha riversato sull’Italia problemi inediti come l’immigrazione, la crisi ambientale o ne ha riacutizzato di antichi, quale il razzismo.
Menomato del suo riconoscimento istituzionale quale fonte della legittimità politica e smarrita ogni tensione trasformativa, l’antifascismo si è ridotto al patrimonio di innocue minoranze di attivisti e a un ripetitivo discorso di retroguardia sul biennio 1943/1945. Forse il punto più basso è stato toccato all’inizio di febbraio del 2018 quando la tentata strage razzista del neofascista Luca Traini a Macerata è stata derubricata dal governo Gentiloni e dai partiti politici rappresentati in Parlamento (eccezion fatta per il cartello elettorale Liberi e uguali) come il gesto di un «folle» o un «criminale».
Per una nuova narrazione. Antifascismo e mondo postcoloniale
Il quadro descritto aiuta a comprendere le radici profonde della crisi dell’antifascismo, ma, al tempo stesso, delinea una possibile breccia. Mentre nel febbraio del 2018 le istituzioni nazionali lasciavano deperire l’antifascismo, a Macerata veniva convocata una manifestazione – il 10 – che segna uno spartiacque. Lungi dal riprodurre una reducistica resistenza di fronte a uno zeitgeist fatalmente avverso, in quella circostanza furono allineate alcune delle condizioni più propizie per una rigenerazione dell’antifascismo: una partecipazione politica di massa, la tematizzazione esplicita dell’antirazzismo, una riflessione sul rapporto tra le migrazioni, il passato coloniale e il presente postcoloniale dell’Italia. Attorno a quell’evento, in altri termini, c’erano alcuni tentativi per traghettare la tradizione storica dell’antifascismo in uno scenario inedito.
La crisi ambientale, le nuove forme dell’imperialismo e della guerra, l’incontro tra neoliberalismo e nazionalismo, la comprensione del fenomeno delle migrazioni che chiamano in causa un rapporto di potere diverso tra «occidente» e resto del mondo al di là del solidarismo, la recrudescenza del razzismo che l’Italia conosce bene, la ridefinizione della cittadinanza globale, le nuove e vecchie diseguaglianze, la persistenza di rapporti di dominazione di genere, la laicizzazione dello spazio pubblico: è con questa costellazione di problemi che l’antifascismo deve misurarsi. Come abbiamo visto, però, non parte da zero. Sappiamo che l’antifascismo ha nella sua storia tutte le risorse per potersi rigenerare, ma non basta certo restare semplicemente in attesa dell’onda. Occorre fuggire le retoriche, andare in cerca degli attori, inserire le urgenti pratiche dentro discorsi sapienti e ri-narrazioni all’altezza dei tempi, osare misurarsi con il nodo dell’egemonia e, soprattutto, recuperare un orizzonte di trasformazione, tenendo presente una lezione di fondo: se la democrazia non dimostra concretamente di essere migliore, chi resta ai margini fa saltare il banco!
Infine, bisogna sapere che quella breccia è stretta e per di più posta su un crinale: da una parte c’è il rischio di condannare l’antifascismo alla scala di micro comunità di militanti/attivisti tanto eroici quanto inoffensivi per mutare i rapporti di potere, dall’altra, a una residuale e anodina ritualità istituzionale che non impedisce di smantellare la democrazia prefigurata dall’antifascismo. Nell’uno e nell’altro caso, avremmo perso.
*Andrea Rapini è professore di Storia contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia. Si è occupato di storia e memoria dell’antifascismo, stato sociale, storia dell’impresa e del lavoro. È autore del recente A Social History of Administrative Science in Italy. Planning a State of Happiness from Liberalism to Fascism (Palgrave, 2022).
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