
Nothing really matters
Negli ultimi mesi al cinema e in tv sono passate tre storie. Parlano di musica in modi diversi ma le accomuna un tema: la capacità della merce di assorbire le dimensioni umane. Anche le più inafferrabili, come l’utopia e l'arte
Negli ultimi mesi sono usciti tre film di grande successo dedicati alla musica. Due di questi sono biopic, biografie reali di artisti, Bohemian Rhapsody (su Freddy Mercury) e Io sono Mia (su Mia Martini). Il terzo, A Star is born, con Lady Gaga, è una storia inventata, remake del film È nata una stella del 1937.
Bohemian Rapsody e A Star is born sono successi planetari (Lady Gaga e il regista Bradley Cooper hanno appena vinto l’Oscar per la miglior canzone originale), mentre Io sono Mia una fiction Rai, ha fatto otto milioni di ascolti in Tv e suscitato un nuovo interesse per la figura di Mia Martini. Un Oscar se l’è aggiudicato anche l’attore protagonista di Bohemian Rhapsody.
Il successo dei tre prodotti si deve alla capacità di suscitare reazioni emotive forti e identificazione negli spettatori. Cosa consente questa partecipazione emotiva? In cosa si identifica lo spettatore? E soprattutto, cosa ci vogliono dire questi tre film, e cosa ci dice la loro musica?
Al centro di ognuno c’è una canzone. Una sola: Shallow in a A Star is born, Bohemian Rhapsody nel film omonimo, Almeno tu nell’Universo in Io sono Mia. Ciascuno dei tre film è identificato con la canzone più rappresentativa del protagonista. Di più: il film è questa canzone. E ancora di più: il film è tutto nel momento centrale della canzone, il momento in cui la voce si alza, l’estensione vocale arriva all’apice, la canzone smette di essere solo una canzone e diventa qualcos’altro, conduce lo spettatore altrove. Fa rimpiangere e immaginare una dimensione che non è reale, non è qui, non è il mondo, era esistita, forse esisterà di nuovo.
L’artista è lì, in quel punto, in quel momento, ed è solo lì, per questo è un artista. Gli spettatori lo raggiungono lì, o sognano di raggiungerlo.
La storia di A Star is born è una storia tipica da sogno americano. Per questo ne esistono quattro versioni. La protagonista è una cameriera che conosce uno dei musicisti più famosi d’America. Il musicista famoso è umano, sensibile e abbastanza ‘alternativo’. Comunque è autentico, capace di far musica davvero, musica vera non (solo) commerciale. Naturalmente, essendo un film americano, il protagonista è alcolizzato. E naturalmente è alcolizzato perché anche suo padre a sua volta era alcolizzato e lo picchiava, mentre sua madre non c’era (può essere anche il contrario). È alcolizzato anche perché cerca qualcos’altro, il mondo non gli basta, fatica a stare nella realtà, si muove come un estraneo sul suo palco, nel suo personaggio e in tutto ciò che li circonda. La realtà sta vincendo su di lui: è stanco, demotivato, ha poca ispirazione, nessun sogno. Qui incontra lei, mentre canta divinamente, in un locale per drag queen, La Vie en Rose. Lei sa di avere una bellissima voce, sa di essere brava, è orgogliosa, ma ha fallito troppe volte, pensa che non diventerà più una cantante, come suo padre che «aveva una voce più bella di Sinatra» ma fa l’autista, ed è stanca, sfiduciata, senza sogni. Tratta lui da pari a pari, parlano tutta la notte e lei improvvisa per strada la composizione di una canzone che parla di lui: Shallow.
Si separano. Il giorno dopo una grande macchina con autista va a casa di lei, è l’autista del musicista famoso che vuole che lei vada al suo concerto. Lei, combattuta, non vuole andare, va, ma non sa cosa lui abbia in mente. Lui la fa arrivare vicino al palco, poi la annuncia al pubblico dicendo: «Ieri una mia amica ha scritto una canzone. Ora è qui. Vieni a cantarla con me?». Lui comincia a cantare, lei non vuole salire sul palco, ha paura, il pubblico è immenso, oceanico, e lì siamo al centro della scena, nel centro dello spettacolo: uno dei musicisti più famosi d’America, un palco immenso, un pubblico adorante, lei piccola, anonima e incerta. Ma ci va, sale sul palco e inizia a cantare Shallow, canzone che allude al conflitto tra artista e mondo (ma, più in generale, al conflitto tra chiunque e questo mondo), all’insufficienza e alla limitatezza della realtà, alla necessità di immergersi in luoghi nascosti e lontani per cercarne un’altra, e poi riemergere:
Tell me somethin’, girl
Are you happy in this modern world?
Or do you need more?
Is there somethin’ else you’re searchin’ for?
Questo momento è il film. È il film perché è il momento in cui il Sogno si realizza: la cameriera diventa star, alle prime note il pubblico – qui era l’incertezza, il mostro del verdetto su di sé: il gradimento del pubblico – si entusiasma per il suo ingresso. Lei ce l’ha fatta, non sarà più cameriera, sarà star, ma soprattutto sarà sé stessa, ciò che è sempre stata e finalmente può diventare. La sua musica, quella che aveva dentro e che il mondo e la vita le stavano negando, fino a relegarla in uno squallido locale drag, adesso è mondo. Ciò che c’è nella persona, le sue inclinazioni profonde, le sue verità, i suoi sentimenti autentici, ciò che in ciascuno di noi è qualcosa più di noi, di diverso da noi, può emergere e diventare figura pubblica, ciò che si vede di sé.
Mondo interno e mondo esterno finalmente comunicano: allora la protagonista nasce. Non nasce solo la star, nasce la persona, che finalmente è persona e riscatta tutti gli anni della propria sofferenza e della propria estraneità a sé stessa. È per questo che chi guarda il film in quel momento ci entra, e comincia a guardarlo con gli occhi di Lady Gaga, la protagonista: perché questo è ciò che si vorrebbe. Non solo vincere, o farcela, ma veder riconosciuta la propria natura, vederla materializzarsi nel mondo come entità oggettiva, poterla esprimere pienamente diventando, così, liberi.
Questa è la forza del sogno (capitalistico): vincere e farcela diventano sinonimi di essere autentici, di nascere come persone, di non vedere la propria identità, la propria anima, schiacciata nel fango della vita quotidiana, della fatica e dei rimpianti. Emanciparsi da tutto questo, andare altrove. Ma comunque da soli, o al massimo in coppia (anche se il successo e il mercato metteranno in tensione anche la coppia), seguiti dalla compagnia del like del pubblico.
Ma c’è di più. Oltre al successo e al riconoscimento, il momento in cui Lady Gaga sale sulla scala delle ottave, apre tutta l’estensione della sua voce ed entra nel vivo della canzone (e del film), rappresenta il momento del sublime che dà alla canzone, alla musica e all’arte la sua dimensione di trascendenza, la capacità di alludere a qualcosa che non è il mondo, che fu mondo all’origine (del mondo, nostra) e sarà alla fine, quando tutto sarà compiuto, quando la natura del mondo e di noi stessi avrà acquisito i suoi caratteri reali, e potrà riemergere dopo essere rimasto avviluppato alla necessità, alla realtà e alla Storia. Il prodotto-canzone, il prodotto-film e il prodotto-star contengono anche questo: la trascendenza artistica.
È l’arte che diventa «nostalgia dell’assoluto», come Platone definiva l’amore. Infatti questo è un film di musica e d’amore. È questa nostalgia che fa emozionare il pubblico mentre Lady Gaga fa esplodere la voce. Ed è in questa emozione che ogni spettatore può identificarsi, perché il bisogno di trascendenza è proprio di tutti gli esseri umani, indipendentemente da condizione sociale e livello culturale, è innato, fa parte della nostra natura di animali incompiuti, che devono immaginare per poter agire.
Il pop, anche nelle sue versioni più commerciali, racchiude queste dimensioni, le lega: farcela, vincere (il successo), essere riconosciuti, emozionarsi per qualcosa che (in questo caso nel canto e nella voce) allude alla trascendenza. Il pop schiaccia questa trascendenza nella dimensione del commercio, nella forma di merce, ma tuttavia la contiene, e qui risiedono la sua forza e la sua capacità espansiva.
Per il resto, non sappiamo nulla di perché, nel film, Lady Gaga e Bradley Cooper siano musicisti, non sappiamo nulla dei significati che associano al loro essere artisti, né di ciò che il musicista già famoso (Cooper) abbia di così urgente da dire nella sua musica ‘alternativa’. Cantano e basta. Tutta la trascendenza è nella voce, nella sua potenza (e riproducibilità?) tecnica. E Cooper è un alternativo che, come succede a tutti gli alternativi dei film americani, fa molti compromessi, quindi è un alternativo abbastanza ipocrita, o comunque incompiuto. Tutti gli alternativi, prima o poi, cadono o si trasformano in conformisti. O magari in radical chic. L’emancipazione è solo individuale – diventare da cameriera a star – e se prendi le distanze dalle major e dallo Spettacolo, come Cooper fa nel film, o se semplicemente mostri la tua non piena integrazione, puoi solo perdere, perché fuori non c’è niente. Il Sublime dell’arte è evocato, poi schiacciato in questa sentenza. Ne resta la potenza tecnica, l’esecuzione, la bellezza della voce come performance riproducibile.
La stessa cosa succede in Bohemian Rhapsody. Anche qui l’artista è tutto nella sua musica, e la sua musica è tutta rappresentata da una canzone, e la canzone è tutta in un momento.
Freddy Mercury ha alle spalle una storia interessante e perfino esotica di emigrazione. Genitori originari del Gujarat e di religione zoroastriana, Mercury nasce e passa la prima infanzia a Zanzibar, poi a sette anni si trasferisce a vivere in India con la nonna. Arriva in Inghilterra solo a 18 anni. La sua famiglia è di estrazione popolare e resterà tale fino al successo di Mercury. Di tutto questo nel film non c’è nulla. Non c’era nulla nemmeno nella vita di Mercury, che nel momento in cui mette piede in Inghilterra rimuove la sua vita precedente, non ne parla, si cambia il nome (in realtà si chiamava Farrokh Bulsara).
Nel film Mercury non fa altro che cantare. Le parti musicali del film sono belle, ma ci sono solo quelle. Il Mercury del film è un grande cantante, un performer come pochi altri, ma non un artista. Sappiamo che cantare è tutto ciò che vuole fare, capiamo che i Queen degli anni Settanta, grazie a lui, sono una band molto creativa e originale, ma dell’arte di Mercury, di ciò che con la musica vuole fare e vuole dire, del perché abbia per lui questa importanza vitale, di quale sia la differenza tra l’artista e il mondo, dove stiano l’attrito e la tensione che gli rendono necessario il ‘rifugio totale’ nella canzone come patria alternativa al mondo, non lo sappiamo. Insomma, cosa voleva dirci Mercury? Il film non ne parla. Lo mostra quasi esclusivamente in forma di voce, in una performance perenne.
Come per molti artisti, la storia di Mercury è una storia di riscatto-caduta-risalita (rinascita). La caduta in questo caso è quella che avviene per eccesso di successo. È il Mercury dei primi anni Ottanta, quello di cui si mitizzano (non nel film, perché anche questa parte problematica è rimossa per volere dei Queen) continue orge omosessuali nel suo villone con nani che portano vassoi di cocaina. Un Mercury allo sbando, gaudente, piegato alla droga e all’alcol, sfacciatamente ricco e molto interessato a diventare più ricco, privo di ispirazione, in rotta con la sua band-famiglia. E soprattutto, un Mercury la cui immagine pubblica è degradata dopo che i Queen accettano di andare a cantare, nel 1985, nel Sudafrica dell’apartheid, a Sun City, la città bianca che più di ogni altra rappresenta l’apartheid, il divertimentificio dei bianchi in cui, proprio per questo, la gran parte delle rock band si rifiutava di suonare. Mercury no, ci suona, come d’altra parte i suoi amici Elton John e Rod Stewart, perché «mi sono divertito e mi hanno pagato bene», dirà.
Dopo il punto più basso, la rinascita. La rinascita è la scena topica del film: la partecipazione dei Queen al Live Aid del 1985, considerata una delle migliori performance musicali di sempre. Mercury arriva a quella sera dall’inferno della propria caduta e degradazione. Gli altri membri della band sono timorosi e incerti su come andrà, visto il pessimo momento del leader e dei rapporti tra loro. I suoi affetti più stretti lo guardano dalle quinte altrettanto timorosi. C’è il rischio che la caduta sia rovinosa e definitiva, e che avvenga in diretta mondiale.
Appena Mercury sale sul palco, però, si trasforma. Magnetizza il pubblico come ha sempre fatto, più di come abbia mai fatto, padrone assoluto della scena dalle prime note, dal momento in cui comincia a cantare Bohemian Rhapsody, e cantandone solo la parte che rappresenta il sublime, in cui la voce di Mercury si innalza a prendere la nota più alta e canta «Mama, oh oh, I don’t want to die», la parte in cui la voce diventa arte, testo e trascendenza. In quel momento Mercury torna a essere artista, e resterà dentro a quel momento fino alla fine, così suggerisce il film, fino a quando morirà di Aids nel 1994.
Il testo di Bohemian Rhapsody è un testo poetico, oscuro, metaforico, che Mercury si è sempre rifiutato di spiegare. Secondo il suo biografo più accreditato, è il testo in cui Mercury grida alla madre (e al mondo) di essere omosessuale. Per questo il protagonista della canzone è dannato, ha ucciso un uomo e deve essere condannato e lapidato, ha una colpa inestinguibile che deve pagare. Ma è un testo, soprattutto, sul rapporto tra realtà e fantasia, tra questo e l’altro mondo, tra la realtà e i mondi utopici in cui si può fuggire. Una realtà trascendente in cui «nothing really matters». Il mondo lo trattiene, ma il protagonista vuole andare “là”:
Is this the real life?
Is this just fantasy?
Caught in a landslide
No escape from reality
(…)
Bismillah, we will not let you go,
let him go Bismillah,
we will not let you go,
let me go
Cosa resta alla fine della visione del film? Emozione per la potenza tecnica della voce, attrazione per la trascendenza intravista, identificazione per la risalita del protagonista dopo la caduta, commozione per la sua fine. Tecnica ed emozioni, ma nessun contenuto.
Il film su Mia Martini è il più realista, il più ruvido dei tre. Più materialista, quasi, per come è accusatorio verso il mondo delle major e dello show business. A questo Mia Martini, si oppone, resiste, e per questo cade.
Anche la sua storia è una storia di riscatto (la ragazza che arriva dal Sud dopo un’infanzia di violenza domestica)-caduta-rinascita, ma in questo caso è anche una storia di vera ribellione alle major, pagata consapevolmente in prima persona fino a essere costretta a ritirarsi dalle scene per sette anni, dal 1982 al 1989, a cadere in povertà, rinunciare a tutto, cantare nelle sagre di paese per pagare l’affitto, dopo essere stata una delle cantanti italiane più popolari. Questo per essersi rifiutata di cantare pezzi che non le piacevano, allegri, divertenti e commerciali, e di vestirsi in modo altrettanto allegro e divertente («una minigonna, magari»), come le chiedeva la sua casa discografica per sfatare le voci sul fatto che Mia portasse sfortuna, voci che iniziavano a diffondersi nell’ambiente fino a costituire la sua tragedia personale, probabilmente la causa principale della sua morte.
Mia alla fine degli anni Settanta è all’apice del successo («è una delle pochissime interpreti di cui i musicisti comprano i dischi», dirà Ivano Fossati, ‘amore tragico’ della sua vita), ma a causa di queste voci inizia a non essere più chiamata in Tv, sempre meno persone dell’ambiente vogliono avere a che fare con lei, quando entra nei locali vede con la coda dell’occhio, dirà, «la gente che si tocca», intorno le si fa il vuoto. Allora la casa discografica le chiede di cambiare il proprio personaggio, cambiare immagine e rinascere ‘come merce’, lasciando da parte ciò che per lei significa cantare in quanto modo di essere irrinunciabile («se non canto muoio»).
Mia rifiuta, rompe con la major e il proprio agente, per coerenza e fedeltà a se stessa, sapendo che sarebbe stata una catastrofe. È sommersa dalle penali e dai debiti, si ritira a vivere isolata.
Sette anni di caduta e di silenzio. Poi arriva la rinascita, come negli altri due film. Nel 1989 Bruno Lauzi le propone un testo per Sanremo. Lei è titubante, ha paura di tornare, dice di no, poi accetta. E la vediamo nella scena topica, e anche in questo caso finale, del film. Nel momento sublime. Il suo passo incerto si avvicina al microfono dell’Ariston, iniziano le prime note, esplode la voce, nel frattempo diventata più roca per un tumore alle corde vocali, più bella. È la canzone-film, la canzone-biografia, il momento in cui la trascendenza compare, quando si alzano le ottave di «Tu che sei diverso, almeno tu nell’universo». Una canzone-manifesto, in cui il Tu a cui l’artista si rivolge è l’utopia, è un altro mondo:
Sai, la gente è matta
Forse è troppo insoddisfatta
Segue il mondo ciecamente
Quando la moda cambia
Lei pure cambia
Continuamente, scioccamente
Tu, tu che sei diverso
Almeno tu nell’universo
Un punto sei, che non ruota mai intorno a me
Un sole che splende per me soltanto
Come un diamante in mezzo al cuore
Tre film diversi che hanno in comune molte cose. Parlano di musica, di arte, ma anche, indirettamente, del loro rapporto con la capacità della merce di assorbire tutte le dimensioni dell’umano, anche le più lontane, le più inafferrabili, come l’utopia, lo scontro tra arte e mondo, il sublime, la trascendenza, la possibilità di diventare autentici ed essere riconosciuti nella propria autenticità (e così nascere o rinascere).
Tre film in cui tutto dell’arte, però, perfino nel film su Mia Martini, è riassunto nel suo aspetto tecnico, nella bellezza e nella potenza della voce, mentre nulla viene raccontato su cosa l’artista voglia dire, sui contenuti della sua musica, e quindi sul perché gli sia irrinunciabile essere artista,su quale senso abbia oggi essere artisti, e se questo senso possa essere almeno in parte autonomo dal mercato.
Sono film cui la merce-spettacolo cerca ostinatamente, ossessivamente, il consenso del pubblico (e il consenso è sempre un fenomeno politico, e c’è sempre da imparare da chi lo sa raccogliere). La merce vive di questo consenso, e per ottenerlo scende e sale sempre di più, scende alla radice dei sogni, degli incubi e delle identità individuali, sale fino a far intravedere promesse di trascendenza, facendo propria la funzione dell’arte, e promesse di utopia: tutti e tre i testi delle canzoni contengono una dimensione utopica, richiamano il weberiano ‘rifiuto del mondo’.
Così la merce ottiene la propria trascendenza, la propria capacità di costituire il senso: gli oggetti e i personaggi artistici diventano merci, ma è anche vero che le merci diventano oggetti e personaggi artistici. Lo diventeranno sempre di più: questa insistenza dei tre film sull’aspetto tecnico della performance vocale allude alla possibile sostituibilità dell’umano in campo artistico. Già esistono, e funzionano, software che compongono autonomamente sinfonie. Quanto ci vorrà per farli cantare meglio di Lady Gaga?
In questi film si vede il populismo della merce: il suo essere ‘pigliatutti’, rivolta a tutti e nello stesso tempo a ciascuno, la sua necessità vitale di avere consenso, attenzione e identificazione, contenendo la grammatica del riscatto, promettendo che ce la puoi fare, inseguendo come in una caccia aspirazioni materiali e immateriali. In una fase in cui si parla ininterrottamente di populismo politico, è utile ricordare che c’è un istituto sociale che è populista da sei secoli: il mercato. La forma di merce abbatte, come sta succedendo nella musica e nell’arte, tutto ciò che non le corrisponda e non possieda le sue caratteristiche, quindi ogni cosa che non sia mainstream. Questo processo ha raggiunto la politica. La politica è ora una merce che, come una canzone delle major, o è mainstream (magari fingendo di essere anti-mainstream, un prodotto originale e alternativo), fatta per essere fruibile al consumo, o diventa nicchia, e quindi sparisce.
Eppure, il successo di questi tre film dice anche che, per avere consenso, la merce deve spingersi oltre sé stessa, e parlare delle cose che la merce non è: autenticità, trascendenza, utopia, riscatto. Dimensioni incomprimibili dell’umano, che lasciano sempre aperta la possibilità di un altro mondo.
*Loris Caruso, è ricercatore in sociologia politica alla Scuola Normale Superiore. Si occupa di teoria politica, movimenti sociali e trasformazioni del lavoro.
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