
Nuovo Obama cercasi per fermare Bernie
Chi sfiderà Trump tra due anni? Il partito che non è più di Clinton ma non è ancora di Sanders cerca un candidato accattivante ma trasversale
Com’è ormai tradizione, circa due anni prima delle elezioni presidenziali (previste per il 3 novembre 2020), inizia la gara delle primarie. Nel campo democratico c’è forte attesa per la selezione del candidato in grado di battere Donald Trump dopo un solo mandato. A differenza di quattro anni fa, quando Hillary Clinton era già la candidata in pectore, ad oggi non esiste un vero e proprio frontrunner. L’establishment liberal sembra essere ancora frastornato dalla batosta del 2016, quando con Clinton fu sconfitto un intero sistema di potere e consenso, quello del “neoliberismo progressista”, per usare la felice espressione di Nancy Fraser, che domina il centrosinistra americano da oltre trent’anni.
Ad oggi solo due persone sono in doppia cifra nei sondaggi: Joe Biden, l’ex vicepresidente di Obama, e Bernie Sanders, il socialista che contese fino all’ultimo la nomination a Hillary Clinton nel 2018. Due over-75, nessuno dei quali, finora, ufficialmente candidato. In attesa, stanno fioccando una serie di candidature: Elisabeth Warren, Julian Castro, Kamala Harris, Kirsten Gillibrand, Tulsi Gabbard, l’outsider Richard Ojeda, oltre all’attesa discesa in campo della giovane stella liberal Beto O’Rourke e del senatore afroamericano Cory Booker.
L’impressione, in generale, è che l’elettorato democratico, negli anni della crisi economica, si sia significativamente spostato a sinistra, e che nella fase di forte polarizzazione della presidenza Trump sia impossibile competere senza una candidatura dalla forte carica populista. Non a caso, l’establishment liberal, non volendo cedere a sinistra sul piano della linea politica, prova a recuperare questa carica populista appellandosi a candidati i cui tratti biografici (donne, minoranze etniche, giovani, personalità carismatiche) possano permettere di raccontare una storia di “insorgenza” in grado di mobilitare un elettorato giovanile sempre più insofferente al “neoliberismo progressista” stile Clinton.
In tutto questo, la possibile e a questo punto probabile candidatura di Sanders apre scenari senza precedenti nella politica statunitense: mai, a memoria d’uomo, si era visto un candidato radicalmente di sinistra arrivare alle primarie in testa ai sondaggi. Quindici anni fa, alle primarie che incoronarono John Kerry come antagonista di George W. Bush, un ambientalista come Denis Kucinich si fermava all’1%, e il liberal Howard Dean faceva la figura dell’estremista per la sua aperta opposizione alla guerra in Iraq. Oggi, un candidato esplicitamente socialista ha possibilità realistiche, seppur non maggioritarie, di sfidare Trump per la Casa Bianca, e di giocarsela per vincere. Un’occasione talmente inedita da convincere gran parte dei commentatori e dei militanti della sinistra americana a chiudere un occhio su dettagli non irrilevanti come l’età avanzata di Bernie Sanders e schierarsi apertamente per una nuova candidatura presidenziale del senatore del Vermont.
Il declino del neoliberismo progressista
Manca poco più di un anno all’inizio delle primarie di democratici e repubblicani per la scelta dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti: le danze inizieranno il 3 febbraio 2020 con i caucus dell’Iowa, seguiti l’11 febbraio delle prime vere e proprie primarie, quelle del New Hampshire. Una competizione particolarmente interessante, nel campo democratico, vista la crisi di consenso attraversata dai repubblicani, come testimoniato dalla vittoria del partito di centrosinistra alle elezioni di midterm dello scorso novembre.
L’affluenza record alle elezioni di novembre, in particolare tra i giovani, segnala che la polarizzazione imposta dalla presidenza Trump sta producendo un effetto di fortissima ripoliticizzazione. Dopo l’ondata di delusione provocata dal grigio secondo mandato di Barack Obama e dall’ancora più grigia candidatura di Hillary Clinton, emblemi del centrismo tecnocratico, avere un presidente degli Stati uniti esplicitamente razzista, misogino, guerrafondaio, corrotto e disposto senza battere ciglio a smantellare l’assistenza sanitaria per finanziare un gigantesco regalo fiscale ai più ricchi, significa recuperare la sensazione che la politica possa effettivamente fare la differenza, nel bene e nel male.
Il Partito democratico che ha vinto le elezioni a novembre non è più quello di Hillary Clinton, ma non è ancora quello di Bernie Sanders. Lo spostamento a sinistra nella composizione e nelle posizioni iniziato nella campagna elettorale per le scorse presidenziali è risultato evidente quando, in settembre, durante un comizio a sostegno dei candidati democratici alla camera, l’ex presidente Barack Obama ha definito «una buona idea» il progetto Medicare for all, cioè l’introduzione di un servizio sanitario nazionale pubblico per tutti negli Stati uniti. Si tratta della proposta che in assoluto identifica di più Bernie Sanders e la sinistra americana, ben lontana dal sistema di garanzia pubblica delle assicurazioni private messo in piedi da Obama quando era alla Casa Bianca. Un terzo dei senatori democratici ha dichiarato il proprio appoggio alla proposta di legge di Sanders, a cui si aggiungono metà dei deputati dello stesso partito e buona parte dei candidati in pectore alle primarie presidenziali: non solo la progressista Elizabeth Warren, ma anche centristi come Cory Booker, Kirsten Gillibrand e Kamala Harris. Sembrano passati anni da quando, a gennaio 2016, l’allora candidata alla presidenza Hillary Clinton liquidò la proposta come «un dibattito teorico su un’idea che non passerà mai e poi mai».
Non c’è elemento più simbolico, per capire la sconfitta storica di Hillary Clinton: la sua candidatura era costruita intorno all’idea dell’esperienza politica, del pragmatismo tecnocratico e della ricerca ossessiva del compromesso. Questa, del resto, era la narrazione dominante nel Partito democratico da oltre un trentennio, quella grazie alla quale Bill Clinton aveva vinto due mandati: egualitarismo ed emancipazione collettiva come principi ideali, da custodire nel privato e compromettere in pubblico in nome del pragmatismo e della concretezza. Gli unici progressi ammessi erano quelli sul piano delle politiche di riconoscimento in termini di razza e genere, purché chiaramente moderati, addomesticati e mai minacciosi rispetto al consenso bipartisan.
Due eventi hanno fatto saltare questo meccanismo alla fine degli anni 2000: da una parte, la crisi economica ha messo una fetta significativa degli americani di fronte alla necessità concreta e materiale di una tutela pubblica, in termini di occupazione, sanità, educazione, abitare, che il consenso neoliberista non era in grado di offrire. Bisogni incomprimibili, che non possono essere mediati in un interminabile negoziato con la destra e i lobbisti, perché solo la loro completa e radicale soddisfazione è sufficiente. Quando un’intera generazione non è in grado di pagare i debiti accumulati per studiare o i premi dell’assicurazione sanitaria, c’è poco spazio per il gradualismo: o si risponde a questo problema, o continuerà a essere posto. Dall’altra parte, la radicalizzazione della destra americana, già in atto dagli anni Novanta, ha subito con la crisi un’accelerazione senza precedenti, spostando il partito repubblicano su posizioni più simili a quelle di una destra radicale europea alla Salvini o alla Le Pen che a quelle di un partito liberal-conservatore mainstream. Ciò ha comportato la sconfitta sistematica di ogni tentativo di negoziato bipartisan tra democratici e repubblicani. Lo shutdown (il blocco dell’attività del governo federale dovuto alla mancata approvazione del bilancio) di queste settimane è l’ennesimo esempio di questo stallo. Di fatto, i sostenitori del consenso centrista e dell’arte del compromesso, da ormai parecchi anni, non riescono a costruire alcun consenso né a portare a casa alcun compromesso.
L’urgenza e la concretezza dei temi sollevati da parlamentari di sinistra come Alexandria Ocasio-Cortez (pensiamo al cambiamento climatico) è tale da far passare le soluzioni negoziali, presuntamente pragmatiche, come palliativi inefficaci. Il pragmatismo richiede radicalità, in quella che Martin Luther King chiamava «la feroce urgenza dell’adesso». E quindi l’obiettivo dei democratici, più che negoziare con i repubblicani, diventa batterli. Contando su un senso comune che sembra spostarsi sempre più a sinistra: una serie di sondaggi pubblicati a gennaio hanno segnalato che il circa il 60% degli americani concorda con la proposta di alzare l’aliquota fiscale più alta al 70%, inclusi il 45% degli elettori repubblicani.
Con questi numeri, è difficile che un candidato liberal tradizionale possa conquistare il consenso della base democratica, che tende a essere molto più giovane, arrabbiata e di sinistra di quanto fosse qualche anno fa.
Alla ricerca del “nuovo Obama”
L’establishment democratico, d’altra parte, è ben conscio della situazione. Non è un caso se, ad oggi, nessuno dei candidati di cui si parla corrisponde al classico identikit (maschio, bianco, di mezza età, governatore di uno stato, preferibilmente del sud, sostenuto da generosi finanziatori) del candidato presidenziale democratico. La leadership liberal sa leggere i sondaggi, e i numeri in doppia cifra sistematicamente associati al nome di Bernie Sanders sono estremamente preoccupanti per i guardiani del consenso neoliberista. Per batterlo, a detta di tutti gli esperti, serve un nuovo Obama. Un candidato che sappia parlare ai millennial, sappia mobilitare le minoranze etniche, sappia suscitare quell’aura di insorgenza popolare che caratterizza spesso le campagne presidenziali americane, ma allo stesso tempo tenga i piedi ben piantati nel consenso neoliberista, senza mettere pericolosamente in discussione gli assi fondamentali della politica interna ed estera statunitense.
L’operazione Obama sembra però difficilmente replicabile: non solo perché il carisma straordinario, il fascino innegabile e l’abilità oratoria dell’ex presidente sono doti piuttosto rare da scovare in un candidato, o perché la portata storica dell’elezione del primo afroamericano alla Casa Bianca è irripetibile. Ma anche e soprattutto perché Obama c’è già stato, e ha già deluso. Le radici dello spostamento a sinistra di una parte importante (seppur non maggioritaria) dell’elettorato democratico, in particolare nelle sue fasce giovanili, stanno proprio nella vicenda Obama. Non c’è sostenitore di Sanders che non racconti una biografia simile. Una parte importante di una generazione di americani progressisti, politicizzata nell’opposizione alla guerra in Iraq e nella crisi economica, ha creduto nella speranza di cambiamento incarnata da Obama, attraverso la straordinaria mobilitazione della sua campagna elettorale ha iniziato a fare politica, e di fronte alla delusione di una presidenza che non ha toccato i privilegi di Wall Street, ha divorziato con il liberalismo e si è spostata a sinistra.
È possibile ricucire questa traumatica separazione? Si può ricreare per il 2020 una coalizione progressista trasversale, come fu quella di Obama nel 2008 e nel 2012? Come abbiamo visto, è difficile, ma la scommessa dell’establishment democratico è esattamente questa. Non è un caso se l’unico altro candidato ad andare in doppia cifra nei sondaggi per le primarie, oltre a Bernie Sanders, sia Joe Biden, cioè il settantaseienne ex vicepresidente di Obama. Senatore di lungo corso, Biden può contare sulla fama e visibilità di otto anni alla Casa Bianca, oltre che sulla simpatia riflessa ereditata da Obama. Al di là dell’età, su di lui pesa il sospetto di non essere prettamente sensibile ai temi femministi, e in molti sospettano che la sua candidatura (ad oggi, sulla carta, la più forte, anche se tuttora non dichiarata) si sgonfierà presto: diciamo che se i liberal vogliono smontare Sanders in quanto maschio, bianco, anziano e senatore di lungo corso, è difficile farlo con un candidato che condivide le stesse caratteristiche.
Chi sono gli altri possibili candidati al ruolo di “nuovo Obama”? È già ufficialmente in campo Julian Castro, 44 anni, già sindaco di San Antonio e membro dell’amministrazione Obama: punta a essere il primo latino in lizza per la Casa Bianca. Un’altra minoranza etnica, quella samoana, è rappresentata da Tulsi Gabbard, 37 anni, deputata delle Hawaii, nota per essere piuttosto a sinistra sui temi socio-economici ma anche per l’opposizione al matrimonio gay e bizzarre posizioni in politica estera. Più seria sembra essere la candidatura di Kirsten Gillibrand, 52 anni, senatrice di New York dal solido curriculum femminista e pro-sanità pubblica, per quanto mai particolarmente arrembante nei confronti di Wall Street. Ma le due candidate più forti, tra quelle oggi in campo sono sicuramente Kamala Harris ed Elizabeth Warren.
Kamala Harris, 54 anni, senatrice della California, figlia di padre afrogiamaicano e madre indiana, è forse una delle voci più forti e agguerrite dell’opposizione a Trump. Una donna nera, figlia di immigrati, che fronteggia i repubblicani con il piglio determinato ereditato da una lunga carriera di pubblico ministero, rappresenterebbe la nemesi del presidente miliardario e una riedizione aggiornata della vicenda di Obama. L’analista elettorale Nate Silver la considera la candidata più forte alle primarie democratiche. Ma, come si diceva prima, una parte dell’elettorato democratico ha ormai standard politici più netti. «Può una pubblico ministero diventare presidente nell’era di Black Lives Matter?» si chiedeva qualche giorno fa il sito di sinistra The Intercept, segnalando l’incoerenza tra le parole d’ordine progressiste della campagna di Harris e la sua fama da “dura” nel sistema giudiziario. La sua recente conversione alla sanità pubblica è considerata da molti una svolta opportunista per conquistare l’elettorato di sinistra, mantenendo un impianto di policy sostanzialmente pro-business.
È impossibile, invece, mettere in discussione le credenziali progressiste di Elizabeth Warren. 69 anni, senatrice del Massachusetts, Warren è una delle voci più credibili a sinistra all’interno del partito democratico, avendo guidato storiche battaglie per la tutela dei consumatori e contro Wall Street. Non si tratta di una socialista come Sanders, ma di un liberaldemocratica progressista, concentrata più sull’attenta regolazione del mercato che sulla limitazione del suo ruolo. È davvero difficile calcolare le sue chance di successo: sulla carta, Warren avrebbe tutte le caratteristiche per unire liberal e sinistra in una nuova coalizione, più radicalmente progressista di quella di Obama; di fatto, rischia di essere troppo a sinistra per l’establishment democratico e troppo liberal per la sinistra.
Sullo sfondo, aleggiano i nomi di altri possibili “nuovi Obama”, come Cory Booker, 49 anni, senatore afroamericano del New Jersey, e Beto O’Rourke, 46 anni, deputato texano. O’Rourke, in particolare, è stato protagonista in autunno di un’appassionante campagna contro il repubblicano di ultra-destra Ted Cruz per un seggio da senatore, poi mantenuto da Cruz. Pare difficile che un giovane deputato reduce da una sconfitta abbia chance serie, eppure O’Rourke è stato ripetutamente segnalato come il “nuovo Obama” che l’establishment democratico cerca. In effetti l’identikit è quello che cercano: un candidato giovane, carismatico, innovativo ma saldamente ancorato al consenso centrista, in grado di contendere a Sanders l’elettorato giovanile.
La chance di Sanders
E poi, c’è Bernie Sanders. A Elizabeth Warren e all’outsider veterano populista Richard Ojeda, potrebbe presto aggiungersi un terzo candidato di sinistra, a contendere ai candidati mainstream di cui sopra la nomination democratica alla Casa Bianca. Non c’è ancora stato alcun annuncio ma tutto suggerisce che, a 77 anni, il senatore del Vermont ci stia pensando seriamente.
Del resto, perché non dovrebbe? Quattro anni fa, da poco più che illustre sconosciuto, impensierì seriamente Hillary Clinton alle primarie. Ora che è stato incoronato dai sondaggi politico più popolare d’America, chi può dire dove può arrivare? Se ci fosse un frontrunner centrista già affermato, le sue chance sarebbero scarse. Ma in un panorama frammentato, senza figure dirompenti, il frontrunner rischia di essere proprio lui.
Nella sinistra americana, il dibattito sulla sua candidatura è aperto. Contro di lui giocano fondamentalmente tre fattori: la concorrenza di Elizabeth Warren, più giovane, donna e vicina a Sanders in termini di collocazione; l’antipatia fortissima che Sanders si è conquistato nella parte più centrista del partito democratico, base compresa, durante la sfida del 2016 con Hillary Clinton; e l’età avanzata.
Quest’ultimo fattore è sicuramente il più pesante: se dovesse essere eletto, a 78 anni, Sanders sarebbe il presidente più anziano della storia americana. Possibile, si sono chiesti in molti, che non si trovi qualcuno più giovane, nella sua area? In realtà quella della sinistra statunitense sembra un’alleanza tra nonni e nipoti, popolata da millennial come Alexandria Ocasio-Cortez e vecchietti come Bernie, ma priva della generazione di mezzo, quella politicizzata negli anni del neoliberismo progressista e della scomparsa totale dell’opzione socialista dal campo politico americano. L’unica altra candidata credibile a sinistra è Elizabeth Warren, ma le differenze tra i due, secondo alcuni, sono abbastanza significative da giustificare la discesa in campo del senatore del Vermont. D’altra parte, il percorso delle primarie è lungo e niente vieta che i due, in una fase successiva, si accordino sul nome che nel frattempo ha prevalso nel voto popolare.
In ogni caso, e con tutti i caveat elencati, la candidatura di Bernie Sanders oggi sarebbe obiettivamente in grado di giocarsi la vittoria alle primarie democratiche. Un fatto senza precedenti nella storia politica americana, trattandosi di un socialista. Ovviamente si tratta di una possibilità ancora minoritaria. La soluzione più probabile resta quella dell’emersione di un “nuovo Obama”, che si tratti di Joe Biden o Kamala Harris, di Cory Booker o Beto O’Rourke. Ma i rischi di questo scenario non vanno sottovalutati. Un’altra candidatura che suscita speranza ed entusiasmo per poi non allontanarsi dai paletti del consenso centrista sarebbe un altro colpo alla fiducia degli americani nella politica come strumento di cambiamento. Se, come si è detto, la piccola ondata socialista nel centrosinistra americano è figlia della delusione nei confronti di Obama, anche la vittoria di Trump in parte lo è, come ha mostrato Michael Moore nel suo documentario Fahrenheit 11/9. Il rischio è che un’altra delusione generi ulteriore sconfitta, con un ulteriore deragliamento, in parte verso una destra sempre più estrema, in parte verso l’astensione.
A questo, in fondo, è servita la campagna di Sanders, e a questo dovrebbe servire una sua riedizione: indicare una strada di partecipazione, mobilitazione e lotta senza quartiere per il cambiamento a una generazione. Quella che non può permettersi di aspettare ancora.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.