Oltre la catastrofe
Il disastro della Marmolada è il segno che il cambiamento climatico non è una crisi da affrontare: siamo al di là di quella fase. Bisogna limitare i danni: ridisegnare i territori, fare spazio all’acqua, riprogettare boschi, coltivare foreste
La Marmolada fa notizia. Il 3 luglio come tutti sappiamo un settore intero del ghiacciaio della grande montagna si stacca e travolge un numero ancora imprecisato di alpinisti. Non è possibile trovare responsabili diretti dell’accaduto: si trattava di persone formate, condotte da guide esperte e giudiziose, molto note e molto amate in tutto il territorio del Nord-Est. E non si possono certo incolpare meteorologi o gestori dei sentieri: era completamente imprevedibile un crollo di quella entità.
A volte cercare una catena breve di responsabili non è solo difficile, è proprio fuorviante. Certo, la Marmolada fa notizia, come sempre fanno notizia diversi morti che cadono assieme. Però è altrettanto certo che la Marmolada che perde il suo ghiacciaio è un piccolo evento in una catena unitaria di fenomeni estremi. La foto del ghiacciaio della Marmolada va messa accanto alla foto della siccità del Po e dei grandi fiumi italiani. Accanto alla foto della Marmolada vediamo i video del vento che spezza quotidianamente gli alberi nelle nostre città, o dei torrenti che si formano sulle nostre strade, o ancora delle distese di chicchi di grandine grossi come pesche. Sono le foto di un clima che è già cambiato, e che si ripercuote su di noi con una violenza che ci sembra estrema, ma che è solo l’inizio di un processo di peggioramento ormai ineludibile.
Il cambiamento climatico è un processo ormai noto, ma è in corso un grave fraintendimento di quello che significa per il mondo e per i territori italiani. Il cambiamento climatico oggi è raccontato, affrontato, avversato, come una crisi. Il matematico francese René Thom definiva crisi un inasprimento di un aspetto proprio di un sistema, qualcosa però che non cambia il sistema stesso. Una crisi può essere risolta con risorse aggiuntive. Il cambiamento climatico non è una crisi, non è qualcosa che risolveremo. Abbiamo avuto tempo per affrontarlo come crisi, dagli anni Settanta agli anni Duemila, erano disponibili i documenti, gli studi e le tecnologie, ma si è scelto di non farlo. Il cambiamento climatico è invece una catastrofe, ossia una rottura insanabile di un sistema precedente, che porterà un giorno a un nuovo sistema stabile, ma non sappiamo né tra quanto, né se quel sistema sarà vivibile dalle società umane organizzate.
Questo non significa però che non abbiamo strumenti per affrontare questa catastrofe. Ci sono due famiglie di strumenti necessari e ormai diffusi nella teoria: la mitigazione e l’adattamento. Il ruolo della mitigazione è ridurre le emissioni di gas climalteranti, cioè responsabili del cambiamento climatico. Si tratta di uno strumento fortemente misurabile, su cui si può agire a ogni scala, e che ha l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale.
L’altro grande strumento, l’adattamento, è l’insieme dei cambiamenti che dobbiamo apportare per impedire che gli eventi estremi diventino disastri. I pericoli da affrontare sono molto chiari: alte temperature, gelate, siccità, vento intenso, precipitazioni intense. Gli obiettivi dei piani sono per questo molto semplici da definire: raffrescare gli spazi antropizzati, mantenere le temperature più costanti nelle coltivazioni, conservare l’acqua evitandone il rapido ruscellamento, evitare distacchi e crolli causati dalle raffiche di vento, permettere alle piene e alle piogge intense di allagare zone dedicate senza fare danni.
A oggi però i territori si stanno muovendo in ordine sparso, senza programmi integrati, con un piano nazionale e piani regionali, tutti inefficaci ed estremamente blandi. Inoltre, più del 99% dei comuni italiani ha meno di 60.000 abitanti, e ciò significa non avere gli strumenti tecnici per produrre piani di questo tipo autonomamente. La disomogeneità degli strumenti e l’assenza di politiche integrate rende molto poco efficace la protezione dei nostri territori.
Per fare tutto ciò servirebbe ridisegnare i territori, fare spazio all’acqua, riprogettare i boschi e le colline per facilitare la raccolta e l’assorbimento, coltivare foreste di pianura. Non basta più pensare di smettere di consumare suolo, cosa che ancora pare un miraggio. Bisogna progettare un nuovo paese, un sistema che concepisca le reti verdi e blu come vere e proprie infrastrutture per la vita, coordinate in grandi infrastrutture di valore continentale e medie e piccole infrastrutture locali. Per farlo inevitabilmente si toccheranno grandi interessi, si romperanno catene produttive e cambieranno i poli economicamente attrattivi. L’alternativa però è che gli eventi estremi diventino così frequenti che un crollo come quello della Marmolada diventi una notizia locale.
La necessità di riprogettare il territorio su vasta scala per evitare catastrofi future però non è un processo nuovo. Non è la prima volta che diventa necessario trasformare intere regioni per garantire stabilità alle società umane. Un buon esempio è l’operazione di difesa attuata da Venezia nel corso della prima modernità. A metà del Cinquecento la Repubblica di Venezia constatò che la Laguna si stava interrando e che in qualche secolo l’acqua sarebbe stata sostituita da terra ferma accumulata dai fiumi. La Serenissima cominciò dunque un’enorme opera infrastrutturale, durata secoli, per asportare i grandi fiumi dalla Laguna, spostando Adige, Brenta, Dese, Sile, Piave e Livenza dai propri corsi. Fu una trasformazione immensa, sia per costi, sia per complessità, sia per interessi toccati. I fiumi erano le uniche arterie di traffico di merci e di distribuzione della ricchezza nell’entroterra veneziano, e la presenza o l’assenza di un asse blu faceva la differenza tra benessere e miseria per intere popolazioni. L’alternativa all’intervento però sarebbe stata la scomparsa della civiltà veneziana. La Serenissima agì quindi progettando una trasformazione completa del bacino scolante della Laguna e riuscì a proteggere la città e il suo modello sociale ed economico. Allo stesso modo, la maggior parte dei paesaggi che oggi percepiamo come naturali sono in realtà artificiali, frutto dell’interazione tra umanità e sistemi verdi e blu. L’errore contemporaneo è stato pensare di agire nel progetto di territorio solo attraverso strumenti grigi, di cemento e asfalto, e che i bisogni umani avrebbero tratto risposta da quel tipo di tecnologia.
Eventi che fanno notizia come il crollo in Marmolada, ma anche come la siccità straordinaria di questi mesi, o come gli importanti eventi temporaleschi che sicuramente subiremo alla fine di questa estate, devono agire da attivatore. La trasformazione di cui abbiamo bisogno però non si può misurare in piccoli interventi di giardinaggio diffuso. Abbiamo bisogno urgente di un cambiamento totale del progetto di territorio in Italia, dei principi che guidano i piani e le economie. Abbiamo bisogno di un territorio adatto a portarci oltre la catastrofe, per evitare di rendere completamente inabitabile questo paese.
*Mattia Bertin è ricercatore presso lo Iuav di Venezia e si occupa di strumenti per il governo e la pianificazione dei grandi rischi in uno scenario di cambiamenti climatici.
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