
Oltre la periferia
La tragedia di Colleferro impone la necessità di trovare chiavi di lettura di pezzi del paese, oltre la tenaglia retorica che contrappone la metropoli infernale alla provincia bucolica
La morte atroce di Willy Monteiro Duarte ha riaperto l’eterna riflessione sulla territorializzazione delle problematiche sociali in Italia. Come comunità organizzate, come attiviste e attivisti del campo popolare sui territori, facciamo fatica a portare a dama un ragionamento unitario su quelle aree del paese dove noi stessi viviamo e agiamo con l’obiettivo di renderli luoghi più giusti. Sui media mainstream abbiamo assistito al solito dibattito deformante riguardo lo spazio geografico e socio-culturale dove Willy ha vissuto e dove è stato ucciso, che riporta la narrazione su un dualismo Metropoli/Provincia totalmente falsato, attraverso una lente urbanocentrica che riduce la Provincia ad un unicum rurale, indistinto, a volte bucolico e romantico, altre volte pericolosa terra di briganti. Quel che manca è sempre la voce dei territori, delle persone che conoscono gli spazi intermedi, le intersezioni appositamente create dal sistema economico dove si generano fragilità e contraddizioni.
La stessa incapacità di identificare con una parola lo spazio del nostro attivismo politico e sociale è al tempo stesso sintomo di quanto alcuni luoghi, quelli che non sono né le grandi metropoli né le aree interne del nostro paese, siano totalmente assenti dal dibattito pubblico. Ci imbattiamo sovente in saggi sulle disuguaglianze, dove l’indagine delle marginalità si concentra sulle periferie – feticcio sbandierato ogni volta che si sente parlare di «ritorno ai territori» – oppure, più di recente, sulle «aree interne», Comuni rurali lontani dai centri di offerta dei servizi, caratterizzati da fenomeni di spopolamento. Nello spazio tra questi, ci sono parole confuse. Periurbano, rururbano, submetropoli, hinterland. Nello spazio tra questi, ci sono distese di Comuni e frazioni: storici borghi divenuti città, con praterie di cemento laddove c’erano cinture di campagna; nuovi agglomerati urbani che prendono il posto di toponimi prima dimenticati.
Quali dinamiche socio-economiche caratterizzano questi luoghi? Da quali conflitti sono attraversati? Quale vitalità politica sono in grado di esprimere?
Noi siamo qui
Il luogo da cui scriviamo si chiama Ciampino, nome che in tutta la penisola evoca lo scalo aeroportuale dei voli di stato e da cui i romani partono per viaggiare low-cost. L’aeroporto vive sull’attività di multinazionali come Ryanair, che estraggono valore dalla posizione strategica di questo vecchio scalo militare sorto vicinissimo alla capitale, ignorando e sbeffeggiando le preoccupazioni dei residenti per la propria salute, con la complicità di scelte politiche precise. La pista è a ridosso di uno dei comuni più densamente popolati dell’Italia centrale: circa 40 mila anime in 13 chilometri quadrati di territorio. Dagli anni Venti in cui sorsero i primi nuclei abitativi, fino agli anni Sessanta, Ciampino è stata solo una frazione di campagna, casa di vignaroli, bottegai e artigiani. Uno dei tanti sobborghi di provincia del Novecento, popolare ma decisamente lontano dalle tradizioni secolari dei borghi medievali su in collina. Terra di immigrazione, nata dai progetti di vita di tanti poveri dalle regioni circostanti, che costruivano la propria baracca attorno a una stazione ferroviaria di campagna da dove potevano andare a Roma per cercare lavoro.
L’espansione edilizia e demografica, qui come altrove, ha mutato profondamente l’assetto del luogo. I nuovi cittadini degli anni Settanta non erano più contadini e artigiani, ma professionisti, operai specializzati, impiegati, insegnanti. L’iniezione demografica andava di pari passo con la cementificazione, come risposta alla domanda di una casa per tutti, bandiera delle prime amministrazioni socialiste e comuniste. La città nasceva, ma il nucleo sociale originario non veniva espulso, anzi, i bottegai si trasformavano in commercianti, i vignaroli che avevano comprato un fazzoletto di terra si trasformavano in imprenditori edili. Per tutti gli altri c’era una casa popolare e un impiego nei servizi, nel commercio, nelle fabbriche vicine. Il progetto delle prime giunte progressiste ha significato la coesistenza tra lavoratori di diverse fasce di reddito. Purtroppo ciò rimase solo un modello urbanistico privo di una prospettiva di trasformazione sociale, incagliato sull’assenza di una reale partecipazione popolare ai processi di integrazione urbana. In questi contesti oggi si inaspriscono i conflitti tra bisogni sociali differenti, trova spazio la narrazione xenofoba che etnicizza e sposta verso il basso la rabbia sociale, trovano terreno i fenomeni di corruzione e le clientele politiche. Pensiamo inoltre al narcotraffico, che in questi sobborghi trova domanda e offerta senza dover nemmeno cambiare quartiere.
Capitalismi sulla frontiera urbana
Le successive politiche neoliberiste si sono abbattute violentemente sull’hinterland, trovandovi terreno fertile per estrarre ricchezza, produrre profitto ed elevare la rendita fondiaria a modello. Qui il potere privato sperimenta nuove forme di assoggettamento del potere pubblico, dove i rapporti economici si ridefiniscono verso la privatizzazione di beni e servizi. La provincia è spesso il laboratorio del processo di svendita della città pubblica e di erosione della partecipazione sociale e politica. La nostra esperienza, infatti, ci suggerisce che il sobborgo esterno non può essere visto solo come una sorta di terra di conquista del capitalismo metropolitano. Questi luoghi non sono una semplice estensione della città e dei suoi rapporti economici; non possono essere considerati come una mera propaggine della periferia urbana. Nell’hinterland c’è un capitalismo autoctono, che spesso entra in concorrenza con il più visibile Capitale multinazionale, con il platform-capitalism che si propaga dalla grande città, costretto però a fare i conti con i poteri economici locali.
La politica, il settore pubblico che è sempre più funzionale all’espansione del potere privato nelle città, non viene risparmiato da questa contrapposizione. Così assistiamo al passaggio da una vecchia classe politica, portatrice degli interessi di piccoli monopoli locali nel mattone o nella gestione privata dei servizi, verso nuovi assetti di potere orientati ad abbandonare i precedenti paradigmi feudali per rivolgersi a un modello di penetrazione degli interessi di soggetti globali. Multinazionali, Grande Distribuzione Organizzata, colossi del trasporto privato, del commercio, della ristorazione. Naturalmente esistono sovrapposizioni e zone grigie tra i due modelli, e il colore politico conta ben poco: centrosinistra e centrodestra possono farsi indistintamente promotori della penetrazione di capitali finanziari e della brandizzazione globale dei territori.
Difficoltà e insorgenze
In questa concorrenza tra capitalismi sulla pelle della provincia, spesso quello che manca è l’alternativa. Sperimentare la controffensiva come nelle grandi metropoli sembra estremamente difficile una volta usciti fuori dalla periferia. Esistono eccezioni che confermano la difficoltà generale, ma in gran parte del mondo occidentale la fucina di insorgenze cittadine che caratterizza le periferie metropolitane, svanisce una volta varcati i confini esterni, siano essi politici o fisico-sociali, della grande città. Se non altro, ciò accade anche per la tendenza della militanza di provincia, soprattutto giovane e istruita, a dedicarsi ai luoghi dove si lavora o si studia, quindi dentro la metropoli, laddove le istanze popolari sono ben evidenti ma soprattutto vantano una tradizione di lotta e di attivismo preesistente. Al contrario, nell’hinterland, le fragilità vanno indagate con pazienza, scendendo nei bassifondi della città stratificata. Spesso ci si trova davanti alla sfida di essere i primi, con alle spalle decenni di desertificazione sociale e di fronte a un ricambio di popolazione che porta nuove necessità, ben nascoste dal capolavoro antisociale delle «città dormitorio».
Gli stessi spazi dell’agire collettivo vanno rosicchiati pezzo per pezzo, contro una macchina amministrativa ed economica di prossimità, che può contare sulla complicità di una fetta di classe media impaurita e ostile all’idea di far cadere gli argini che lasciano nascosti certi disagi, che tengono lontani gli «scarti». Pensiamo ai confini fisici delle baraccopoli e dei ghetti etnici come quelli riservati da decenni alle popolazioni rom e sinte: spesso si trovano amministrativamente dentro la grande città, ma talmente lontani da questa da confinare fisicamente con i Comuni circostanti. Un confine visibile, fatto anche di muri e filo spinato, pattuglie, telecamere, droni, puntati ossessivamente contro il possibile illecito del lavoratore informale o dell’occupante abusivo, più raramente contro i grandi sistemi criminali come le ecomafie, che hanno trovato il loro habitat di proliferazione proprio nei ghetti a cavallo tra periferia e periurbano.
Queste sono le criticità che sapevamo di incontrare quando abbiamo iniziato a costruire alternative nelle nostre cittadine, assumendoci l’onere di piantare qualcosa nel deserto. Associazioni, movimenti, collettivi, comitati. La lotta per la dignità degli ultimi, contro la ghettizzazione etnica. Le battaglie per la salute, contro l’inquinamento e il consumo di suolo. La contesa per i beni comuni e la città pubblica. Questi spazi conflittuali nascono in autonomia, dentro il territorio. Nascono da esigenze popolari, perché si mettono all’ascolto. Senza pregiudizi, dialogando con i quartieri, in un contesto urbano narrato solo come luogo senza legami né identità. Al contrario: agire una contro-narrazione, scoprire quella identità, co-costruirla insieme agli ultimi del territorio, è una consegna vitale per i movimenti sociali in questi contesti. Dare un nome alle cose, nominare i problemi e le soluzioni con la lingua dei nostri territori, senza scimmiottare quella di altri. Da qui nasce l’esigenza di fare pedagogia popolare, come nell’esperienza di Dopòlis qui a Ciampino, progetto educativo che mette in rete famiglie italiane e migranti con l’obiettivo di combattere la dispersione scolastica delle bambine e dei bambini a rischio. Nascono progetti di mutualismo, come quelli che dai giorni di lockdown stanno affrontando la crisi alimentare attraverso reti di solidarietà vicinale.
È stato interessante notare come proprio durante il lockdown, molti attivisti del territorio, a fronte dell’impossibilità di raggiungere gli spazi abituali a Roma, hanno scoperto l’azione dei nostri movimenti in provincia e hanno iniziato a partecipare, conoscendo aree di disagio e realtà conflittuali prima sconosciute, pur trovandosi sotto casa propria. E’ un dato, quest’ultimo, di un riscoperto impegno sociale «di prossimità» durante il lockdown, che non siamo in grado di interpretare fino in fondo. La visibilizzazione politica di questi territori può diventare propulsione per rinnovare la base sociale della militanza? Quali strategie immaginare affinchè questo attivismo non sia esclusivamente dettato dalle contingenze di una pandemia globale, ma sia costante e radicato nelle submetropoli? Ci poniamo queste domande cui è ancora presto elaborare delle risposte.
Tra movimenti e assetto istituzionale
L’alternativa spesso si fa anche politica elettorale, perché il periurbano dipende fortemente dai rapporti con gli enti locali e dunque i movimenti sentono la necessità di partecipare in quel fronte di battaglia. Spesso con ottimi risultati. Liste civiche, consiglieri comunali, perfino tanti assessori e sindaci sono espressione, in questi luoghi, di istanze politiche rivolte al recupero della città pubblica e partecipata, nella percezione di uno spazio che è ancora possibile sottrarre all’aggressione neoliberista. Tuttavia ogni capacità di azione degli organi di rappresentanza trova il forte limite dell’assenza di coordinamento tra territori limitrofi. Complice un assetto istituzionale modellato sulla percezione della sussidiarietà piuttosto che sulla concreta attenzione alle necessità democratiche dei territori, l’abolizione delle Province e l’incompiuta riforma delle Aree Metropolitane hanno lasciato gli enti locali sprovvisti di strumenti istituzionali idonei ad affrontare peculiarità sociali, economiche, urbanistiche e ambientali di portata sovracomunale. Il demagogico «taglio alla spesa pubblica e ai costi della politica» – che però ha solo sfiorato la elefantiaca macchina delle Regioni – ha portato alla creazione di Enti di Area Vasta di secondo livello che, se nelle intenzioni avrebbe dovuto permettere a sindaci e amministratori comunali di farsi carico anche del governo di prossimità, ha finito per ridurre decisioni politiche ad amministrativismo tecnico, privo di qualunque legittimità democratica. La prima riforma antipolitica liberista si è compiuta, silenziando istanze e alternative. Non stupisce che anche sull’assetto istituzionale degli enti locali il dibattito politico sia assente.
Quello che però non è assente è il dato di fatto che questi territori – per i quali non siamo in grado di fornire una parola in grado di definirli – esistono e sono abitati da migliaia di persone (le fasce esterne dell’area metropolitana di Roma Capitale contano da sole più di un milione di residenti). In queste estese «città negate» si sviluppano dinamiche specifiche di tipo sociale, economico e politico che meriterebbero un’indagine attenta, capace di fornire chiavi di lettura, prospettive, sperimentazioni, strumenti politici operativi. C’è un pezzo d’Italia, oltre la periferia.
*Lorenzo Natella è educatore, insegnante di italiano con adulti migranti, attivista sociale nei movimenti per i beni comuni e nella Rete delle scuole popolari di Roma, co-fondatore delle associazioni Officine civiche e Ciampino Bene Comune. Francesca De Rosa, laureata in giurisprudenza, attivista e assistente legale nell’ambito del diritto dell’immigrazione, è dipendente pubblico presso un ente locale. Co-fondatrice e Presidente dell’associazione Officine civiche
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