Organizzare il lavoro ai margini
Una classe operaia composita e multietnica si mobilita nell'indotto di Monfalcone. Qualcosa di nuovo dal fronte navalmeccanico
Nel quadro di un dibattito pubblico che frequentemente mette in secondo piano le condizioni lavorative, le gravi forme di sfruttamento vengono spesso alla luce solo nelle circostanze più drammatiche, come nel caso della morte del bracciante Satnam Singh o del crollo del cantiere Esselunga di Firenze. Non di rado la lente attraverso cui si guarda a questi fenomeni è di matrice liberale. Il rischio di questa cornice interpretativa è di porre attenzione soltanto sulla criminalità dei singoli imprenditori o intermediari (caporali), perdendo di vista una molteplicità di fattori strutturali che innervano il capitalismo contemporaneo (ricattabilità istituzionalizzata del lavoro migrante, esternalizzazioni, liberalizzazione del mercato del lavoro ecc.).
Non mancano, d’altro canto, contributi controcorrente. Meritorio, da questo punto di vista, è stato l’intervento – ospitato da Il Manifesto – di Sergio Bologna, che ha puntato il dito verso il funzionamento strutturale e ordinario di intere filiere, segnato dalla compressione estrema dei costi e dei diritti. Da queste colonne ci siamo più volte occupati del comparto della navalmeccanica, dominato dal ruolo leader di una multinazionale di Stato (Fincantieri). Abbiamo raccontato di un’organizzazione del lavoro fondata su una catena complessa di appalti e subappalti, nonché la storia di alcune vertenze che hanno provato a tutelare i lavoratori immigrati. Abbiamo dato spazio al «caso Monfalcone», la piccola città-fabbrica in provincia di Gorizia che ospita il più grande stabilimento navalmeccanico nazionale e venuta all’onore delle cronache per le misure punitive che la sindaca leghista Anna Cisint (neo-eletta al Parlamento Europeo nella circoscrizione Nord-Est) ha adottato nei confronti dei residenti di origine bengalese e di fede musulmana.
Fuori dalla ribalta mediatica, il mondo degli appalti di Fincantieri continua a essere attraversato da criticità e, talvolta, da sporadici episodi di mobilitazione collettiva. A Monfalcone, ad esempio, è in corso una vertenza, seguita da Uiltucs, che ha al centro un’azienda esterna di pulizia industriale, parte di un consorzio più grande. L’oggetto del contendere è il Ccnl applicato: la ditta utilizza un accordo della vigilanza privata, mentre la Uiltucs rivendica – in base alle mansioni effettivamente svolte dai lavoratori – i più alti minimi tabellari del comparto multiservizi o del commercio. Nei giorni scorsi, Islam Miah, un operaio bengalese di una ditta appaltatrice, è morto in ospedale a seguito di un infortunio occorso nel cantiere navale di Marghera. Islam è caduto da un trabatello e ha battuto la testa. Le Rsu Fim, Fiom e Uilm del cantiere hanno convocato uno sciopero. Significativamente uno sciopero di solidarietà c’è stato anche nel cantiere di Monfalcone. Protagonisti sono stati i lavoratori italiani e immigrati (prevalentemente bengalesi) che lavorano per la stessa ditta esterna da cui era assunto Ismail. L’azienda, infatti, opera anche nel cantiere navale isontino. A organizzare i lavoratori è stato il sindacato di base Usb, che ha convocato uno sciopero di due ore per lo scorso 27 giugno. La mobilitazione ha visto una significativa partecipazione, motivo per cui abbiamo deciso di parlare con Alessandro Perrone, esponente locale di Usb.
Come opera il vostro sindacato nel contesto monfalconese?
Usb ha diversi iscritti tra le aziende dell’indotto del cantiere navale di Monfalcone. Nel corso del tempo abbiamo agito in due modi: quello della tutela basilare dei diritti dei lavoratori, perlopiù di origine straniera e provenienti dalle regioni del Meridione, ma anche con volantinaggi di massa e dichiarazioni di sciopero. La nostra ambizione è quella di unire gli interessi di una classe composita, che vengono quotidianamente lesi dentro lo stabilimento. Questo avviene sia sul piano della sicurezza sia per quanto riguarda il trattamento economico discriminatorio tra lavoratori indiretti dell’appalto e i dipendenti diretti di Fincantieri. Il nostro obiettivo, insomma, è l’unificazione della classe.
Per il resto proviamo a muoverci a 360 gradi, oltre la dinamica strettamente lavorativa. Il 28 febbraio scorso abbiamo organizzato un presidio assieme ad altre realtà associative del territorio, forze pacifiste e antimilitariste, davanti al varco d’entrata al porto di Monfalcone. Lo abbiamo fatto per denunciare i traffici di armi delle navi che trasportano materiale militare nei teatri di guerra, in Ucraina come in Israele. Qualche giorno prima, nell’ambito dello sciopero generale nazionale del sindacalismo di base indetto in solidarietà con la Palestina sotto assedio da parte delle forze militari israeliane, avevamo organizzato un presidio unitario davanti a Fincantieri.
Puoi raccontare le ultime iniziative sul grave sfruttamento lavorativo che avete portato avanti negli ultimi tempi?
Unitamente allo Slai Prol Cobas, abbiamo indetto uno sciopero di protesta per un grave infortunio avvenuto a fine gennaio ai danni di un giovane operaio bengalese, al quale è crollata addosso – da una quindicina di metri – una rampa d’accesso alla nave in allestimento, che non era stata fissata a dovere. Solo pochi giorni fa abbiamo indetto due ore di sciopero in solidarietà e di protesta dei dipendenti operanti a Monfalcone di una ditta del napoletano, la Sait Spa. Questa ditta ha in appalto la coibentazione delle navi e opera anche a Marghera, dove è morto sul lavoro un loro giovane dipendente, anch’egli di origine bengalese. Abbiamo organizzato un’assemblea spontanea dei lavoratori di Sait davanti alla portineria di Fincantieri.
Da quanto osservato durante la mia ricerca, avete tentato un percorso di alfabetizzazione sindacale dei lavoratori migranti. Ha dato frutti?
Sì, abbiamo fatto una prima esperienza di formazione e alfabetizzazione sindacale, con l’appoggio della Rete Iside Onlus per l’intervento sociale e l’iniziativa democratica, promossa dall’Usb nazionale. Siamo riusciti a coinvolgere un gruppetto di operai bengalesi e ci siamo soffermati anche sugli aspetti legati alla sicurezza sul lavoro. Purtroppo non siamo riusciti a dare continuità all’iniziativa. Devo dire che abbiamo registrato anche diversi condizionamenti nei confronti dei «corsisti». Questi condizionamenti sono provenuti dalla stessa comunità, preoccupata per eventuali ritorsioni delle ditte nei confronti di questi lavoratori. In questo senso, è necessario un supplemento di analisi delle dinamiche interne alla composita comunità bengalese, al fine di trovare nuove forme di approccio. Un passo avanti è stato comunque fatto con l’inserimento di un’operatrice di origine bengalese nella struttura locale del nostro sindacato, che svolge una funzione di mediazione culturale.
Quali contatti avete con associazioni del territorio? Come li attivate per intercettare il lavoro migrante?
Con l’Associazione Monfalcone Interetnica [Ami], che agisce attraverso il volontariato sociale per agevolare l’inclusione delle e degli immigrati, abbiamo sostenuto un’azione contro la volontà dell’amministrazione comunale di Monfalcone che a più riprese ha tentato – senza mai riuscirvi in maniera definitiva – di promuovere politiche discriminatorie contro i residenti immigrati. Tutto questo attraverso pretesti insostenibili, richiedendo un surplus di documentazione aggiuntiva a esclusivo carico delle famiglie di origine non comunitaria per accedere al cosiddetto bando affitti sostenuto dalla regione Friuli Venezia Giulia. Questo bando, secondo criteri proporzionali, concede dei contributi agli affittuari che nell’anno precedente risultano in regola con il pagamento delle quote mensili.
La sindaca di Monfalcone ha recentemente vietato la preghiera nei centri culturali islamici [il provvedimento è stato in seguito bocciato dal Tar]. Da questo divieto è nato un forte movimento di protesta, che ha portato 8.000 persone in piazza lo scorso 23 dicembre. Come lo giudica Usb e quali insegnamenti ne trae?
La sindaca di Monfalcone ha agito nel quadro di un’escalation di provvedimenti e atti amministrativi di stampo xenofobo, col preciso obiettivo di dividere la comunità cittadina e additare la componente immigrata come responsabile dei problemi della città, usando anche elementi di islamofobia che sono serviti per la propria affermazione politica. Noi siamo stati solidali con la componente islamica cittadina, che è di fatto uno dei volti principali della nuova classe operaia monfalconese. La nostra solidarietà ha riguardato il tema della libertà di preghiera in quanto diritto costituzionalmente riconosciuto, pur partendo – come Usb – da un approccio sindacale di classe di impostazione laica. A ogni modo, guardiamo alla dimensione sociale delle contraddizioni che si aprono nella società e ai diritti universali che ormai vengono quotidianamente meno in un contesto sempre più autoritario com’è quello del post-fascismo imperante. Questo contesto fa venir meno qualsiasi tutela sociale generale.
Come nasce lo sciopero dei giorni scorsi e quali sono i prossimi step che avete in mente?
Lo sciopero per la morte – avvenuta a Marghera – del lavoratore di Sait, Islam Miah, è nato dalla volontà della base operaia di questa azienda, che in buona parte si è iscritta a Usb, riconoscendo il lavoro che da tempo svolgiamo a tutela dei diritti basilari dei lavoratori. In particolare, mi piace sottolineare il ruolo di servizio del nostro coordinatore locale Mario Ferrucci, che si è sempre adoperato e messo a disposizione di tutti. In sostanza c’è stato un passaparola tra lavoratori italiani prima e bengalesi poi, che ci ha portato a nominare i rappresentanti sindacali della Rsa (italiani e bengalesi) e quelli Rls (sicurezza), che in futuro potranno essere eletti direttamente dalla base operaia dell’azienda.
Le prossime mosse che riguardano questa azienda saranno legate all’elaborazione di una piattaforma integrativa che vada a cogliere l’interezza delle problematiche aperte in azienda, questioni relative al corretto inquadramento delle categorie professionali, all’orario di lavoro, al riconoscimento del tempo tuta. Un aspetto centrale riguarderà in particolare la tutela della sicurezza e la prevenzione in materia di salute della manodopera. Parliamo infatti di lavoratori che, oltre a operare in ambiente industriale, hanno il compito di coibentare gli ambienti interni delle navi prodotte da Fincantieri. Parliamo quindi dell’utilizzo di materiale potenzialmente pericoloso per la salute degli operai. Andando sul piano generale, penso che questa vertenza possa essere un importante esempio della giustezza delle rivendicazioni complessive di Usb. Abbiamo attivato una campagna di lotta sul salario che punta a incrementi in paga base di almeno 300 euro, come mezzo per recuperare il carovita di questi anni. Servono aumenti dei prossimi rinnovi contrattuali che tengano conto dei forti profitti accumulati dalle imprese in questa fase. Va ripristinato un meccanismo di indicizzazione automatica dei salari e va introdotto un salario minimo legale, per quanto riguarda i minimi tabellari, di almeno 10 euro l’ora. Inoltre, come Usb, rivendichiamo una forte riduzione dell’orario di lavoro, prevedendo una settimana lavorativa di 4 giorni e un orario giornaliero di non oltre 7 ore e mezza. Questo per garantire la salvaguardia dei livelli occupazionali e per il diritto a una vita non più soggiogata alle esigenze delle aziende.
*Nicola Quondamatteo è assegnista di ricerca in Sociologia del Lavoro presso l’Università di Padova. Si è occupato, in particolare, di lotte dei lavoratori delle piattaforme; di esternalizzazioni e processi di etnicizzazione del lavoro nella cantieristica navale; di salario minimo. È autore di Non per noi ma per tutti. La lotta dei riders e il futuro del mondo del lavoro (Asterios 2019).
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