
Panico da crisi di egemonia
Il governo più anziano della storia della repubblica criminalizza i rave perché odia la società: percepisce l'estraneità del potere alle forme culturali, aggregative e politiche
Persino nel dibattito pubblico italiano, spesso sconfortante, ci si è accorti che la vicenda delle cosiddette norme anti-rave proposte da Giorgia Meloni e dal suo governo suona grottesca come le campagne contro i capelloni di cinquant’anni fa, gli allarmi per la diffusione del grammofono o lo scandalo per le prime minigonne.
Questa storia rivela il carattere reazionario di una destra che rivendica la concretezza del realismo rappresentandosi con i piedi ben piantati nel mezzo delle sfide contemporanee, ma nei fatti è arroccata su posizioni anti-moderne, oscurantiste e profondamente ideologiche. In poche parole: emerge ancora una volta la debolezza e al tempo stesso l’aggressività del potere. Questo attacco fa leva sulle crociate degli ultimi anni (i Daspo urbani, le campagne per il decoro, l’uso eccessivo delle sorveglianze speciali, l’odio per gli spazi pubblici e per quelli liberati, il diritto assoluto alla proprietà privata) e le esaspera ulteriormente. In questo senso, dipinge il quadro del futuro prossimo e dell’attacco ai diritti che ci ritroveremo ad affrontare. Siamo di fronte ad un passaggio di scala che ha implicazioni politiche, giuridiche e culturali: se prima si invocava la sicurezza, adesso si richiama all’ordine.
Un grimaldello per reprimere i movimenti
Lo sostengono i giuristi e lo confermano gli stessi esponenti della destra: la norma è solo un escamotage, una scusa per reprimere altri reati, un grimaldello giuridico per ampliare la repressione ai movimenti sociali. Tuttavia, vale la pena di sottolineare che con questa sconclusionata produzione legislativa il governo Meloni a suo modo intuisce che cercare di reprimere i rave significa per forza di cose allungare il manganello aldilà dei rave stessi. Per disegnare una nuova fattispecie di reato attorno ai free party bisogna attraversare uno spettro complesso di soggettività e linguaggi, incrociare le diverse influenze e pratiche controculturali e politiche che si addensano in un fenomeno che si pone tra produzione, autoproduzione e riproduzione sociale. Bisogna far saltare quella linea di divisione posticcia, che certa sinistra ha assorbito inconsapevolmente dalla destra, tra diritti sociali e diritti civili. I diritti sono diritti: riguardano l’esistenza degli individui in quanto produttori di valore e in quanto cittadini, attraversano la sfera economica e quella esistenziale.
La cultura e i parrucconi
Premessa: se Meloni avesse avuto una sensibilità per il settore probabilmente non avrebbe scelto come ministro alla cultura un funzionario di partito prestato al giornalismo e divenuto direttore di una delle principali testate del servizio pubblico grazie alla spartizione e al manuale Cencelli. Ma la vicenda dei rave conferma come la premier e i suoi non abbiano idea di come funzionino i processi culturali. Si parla tanto di gramscismo di destra (sic), della capacità della destra postfascista di costruire senso comune, ma qui è evidente che queste persone non sanno da dove nascono le innovazioni, ignorano che qualsiasi forma di sperimentazione artistica e di linguaggio arriva dai fuori dal recinto dell’Accademia. Così come la conquista di nuovi diritti proviene dalle forme di disobbedienza alle leggi ingiuste, la produzione culturale si sviluppa nel cuore della cooperazione sociale, in quelli che chi si trova nei palazzi spesso considera margini. L’industria culturale innesca processi virtuosi solo quando trova il coraggio di ingaggiare una relazione dialettica con questi nuovi linguaggi. Sono convergenze dagli esiti imprevisti e imprevedibili, che non trovano sintesi e che spesso avvengono in forme conflittuali. Per dirla in breve: senza il mondo che ormai da un trentennio ruota attorno direi ai free party, difficilmente avremmo conosciuto le forme artistiche – narrative, teatrali, musicali e linguistiche – che caratterizzano la contemporaneità. Illudersi di risolvere tutto ciò semplicemente mettendo mano al codice penale oltre che un errore marchiano rappresenta l’ennesimo tentativo di relegare la cultura alle formule stantie e ai parrucconi. Non è un caso che il ministro della cultura di Meloni, Gennaro Sangiuliano, abbia sostenuto nei giorni scorsi che garantire il libero accesso ai musei significhi togliere «valore» all’arte.
L’analfabetismo legislativo
Infine, ma solo all’ultimo, due note sull’aspetto giuridico. Il ministro della giustizia del governo Meloni è Carlo Nordio, magistrato che da anni cerca di ritagliarsi il ruolo ossimorico di «garantista di destra». Per limitarsi ai giorni scorsi, subito dopo il giuramento al Quirinale aveva annunciato di voler ridurre i tempi della giustizia attraverso la «riduzione dei reati». «La velocizzazione avviene con la depenalizzazione – ha scandito – Quindi va eliminato il pregiudizio secondo cui la sicurezza, o la buona amministrazione, siano tutelate dalle leggi penali». Ebbene, sono bastati pochi giorni perché la sua presidente del consiglio sferrasse il primo attacco ai diritti. «O è una presa in giro o è assoluto analfabetismo legislativo – sentenzia a proposito del testo del decreto anti-rave Tullio Padovani, docente emerito di diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, interpellato dal Foglio – Siamo di fronte a concetti che non sono definiti da nessuna parte, a fattispecie che saranno riempiti ex post dall’interprete». Oltre al danno peraltro c’è la beffa: la norma che vorrebbe impedire i free party non è solo ingiusta e goffa dal punto di vista costituzionale: è anche scritta male, porta la firma di un questurino più che di un giurista, rivela le pulsioni reazionarie tipiche di una minoranza che teme i comportamenti della maggioranza e che non è in grado di interpretarne i linguaggi.
La nuova classe lavoratrice
Dal fenomeno globale e ormai longevo dei rave possiamo trarre alcune indicazioni su come lavora, come vive e come si diverte la nuova classe lavoratrice. Osservando negli anni Settanta skinhead, mod e rocker, ad esempio, anch’essi trasformati in folk devil, vittime di crociate mediatiche volte a generare il «panico morale», il sociologo Dick Hebdidge vi riconosceva codici e pratiche che consentivano agli esponenti della working class di costruirsi un altro mondo. Circuiti commerciali paralleli, eventi musicali sotterranei e raduni spontanei consentono ai subalterni di ritagliarsi rifugi esistenziali, di dar vita, seppure con tempi episodici e spazi limitati, a un mondo in cui valgono altre regole, funzionano altre gerarchie sociali, vigono altre unità di misura del valore economico, circolano differenti valori etici. «Come ha osservato Gramsci, quando si parla di una ‘crisi dell’autorità’, ‘è sostanzialmente una crisi dell’egemonia o una crisi generale dello Stato’» notavano John Clarke, Stuart Hall, Toni Jefferson e Brian Roberts, nel loro saggio su Subculture, culture e classe contenuto in Resistance Through Rituals.
Va detto che ogni sottocultura rielabora tatticamente codici che già esistevano e che erano tutt’altro che «ribelli». Le discoteche degli anni Ottanta e Novanta diventano i free-party come il rock’n’roll dei genitori aveva fornito i riff del punk o il rito della domenica allo stadio dei nonni è diventata la curva degli ultrà del calcio. Di solito, queste genealogie contraddittorie vengono depurate e rivendicate: come ogni cultura sotterranea che si rispetti, anche i tekno-raver inventano tradizioni. Da questo punto di vista, la sottocultura dei free party remixa e rielabora quelle precedenti: c’è lo stato modificato degli hippie e l’autoproduzione dei punk, l’amore per la natura dei fricchettoni e l’attrazione per la tecnologia che innerva i corpi dei cyberpunk. Nel suo Muro di Casse (Laterza, 2015) Vanni Santoni tentò una prima operazione analitico-narrativa volta anche a «storicizzare» il fenomeno, facendo notare che ai rave si balla musica senza parole e senza melodia, fatta solo di ritmo: come uno sfondo senza figure. Ecco: si va ai rave per ritrovare uno «sfondo» comune, per ritualizzare l’angoscia ed evitare che la crisi della generazione precaria si risolva solo nello spazio individuale e si trasformi in «isteria».
Il contrario della giovinezza al potere
Questa è una vicenda che parte dal mondo giovanile: dalle sue abitudini, dalle sue forme di vita e di aggregazione. Nel suo discorso programmatico a Montecitorio Giorgia Meloni ha millantato una storia di vita vissuta che evidentemente le appartiene sono nelle fantasie dei suoi spin doctor. Ostenta un passato da attivista che nulla ha a che vedere con la biografia di una precocissima politica di professione, una funzionaria di partito che si è quasi subito messa sulla scia dell’epoca berlusconiana e che fin da giovanissima è entrata nelle istituzioni. Il fatto che nel primo consiglio dei ministri realmente operativo decida di attaccare proprio i giovani tradisce la sua estraneità a quel mondo, rivela quanto le destre postfasciste transitate dal ghetto delle sezioni ai palazzi del potere senza passare dalle piazze (e dalle libere feste, i free party) disprezzino e temano le culture giovanili. Questa attitudine è riconoscibile anche nella composizione anagrafica del governo Meloni: trattasi dell’esecutivo politico più anziano della storia repubblicana, secondo i dati elaborati da Openpolis.
Dietro il paravento della donna poco più che quarantenne si nascondono le facce consunte delle fasi politiche precedenti i volti di quel centrodestra che alle ultime elezioni ha avuto l’unico merito di confermarsi in quanto coalizione in mezzo allo sfacelo del sistema politico post-Tangentopoli. Una forma nuova, e con nuovi equilibri e rapporti di forza interni, di quel blocco di potere che ha guidato il passaggio alla cosiddetta Seconda repubblica. Sono quelli di Genova 2001 e di Gianfranco Fini nella centrale di comando della polizia, della riforma Gelmini che ha finito di devastare l’università, della legge Bossi-Fini che espone al ricatto e alla clandestinità migliaia di uomini e donne. Altro che empatia per chi manifesta e giovinezza al potere: al governo ci sono quelli che hanno rovinato la vita a più di una generazione, quelli contro i quali i movimenti lottano da trent’anni.
*Giuliano Santoro, giornalista, lavora al Manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo).
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