
Per un latino del terzo millennio
Valditara vuole reintrodurre il latino in chiave sovranista. Ma immaginarlo come una prerogativa esclusivamente italiana è una forzatura ideologica
Che il governo italiano, in linea con le altre destre nazionali, da qualche tempo cavalchi l’onda delle guerre culturali per raccogliere facili consensi e distrarre da un progetto politico pesantemente repressivo non è certo una novità, e la polemica legata alla reintroduzione del latino a scuola ne è un esempio eloquente. Mentre sulle piattaforme mediatiche dilaga il dibattito sul valore da accordare all’insegnamento della materia (quando nella pratica si tratterebbe di un’ora facoltativa alle medie), con tanto di grottesche chiamate alle armi in difesa del Castiglioni-Mariotti, il vocabolario della lingua latina minacciato dall’avanzata della schwa nella propaganda di FdI (che la Loescher ha ben intimato di rimuovere per violazione dei diritti d’immagine), questioni ben più urgenti rischiano di passare inosservate: la protezione di un trafficante di esseri umani, lo spettro del Ddl Sicurezza, i tagli incontrastati alla ricerca e alla sanità, l’oligarchia tecnofascista di stampo americano.
Eppure, in mezzo a questo scenario, la battaglia sul latino gode ancora di ottima salute. In apparente contrasto col dominio delle competenze, nuova parola chiave dell’aziendalismo scolastico, la riforma Valditara sembra sbilanciarsi in modo imprevedibile verso il campo dei saperi inutili. Ma un fine, come sempre, deve esserci, ed è chiaramente il consolidamento simbolico dell’identità nazionale, minacciata dagli invisibili fantasmi del multiculturalismo. L’idea che un ragazzino di dodici anni, a prescindere dalle sue origini, arrivi a sentirsi più italiano declinando rosa rosae o leggendo dello sbarco di Enea – uno straniero insediato in Italia proprio come i nostri nuovi «nemici» – suona quantomeno buffa e poco realistica. Allora, per giustificare la mobilitazione, si ricorre come al solito alla vecchia storiella del «latino che insegna a pensare», come se lo studio di una lingua e della sua cultura possa davvero ridursi a una sorta di astratto gioco cognitivo in cui si è chiamati a districarsi tra morfologia e sintassi.
Paola Mastrocola, ultimamente, ha affermato che il latino aumenterebbe le capacità di problem-solving (e il finlandese, allora, con i suoi quindici casi?), favorendo addirittura l’integrazione dei giovani migranti, «soprattutto se vogliamo che in futuro diventino professori, avvocati, architetti». Ecco che il cavallo di Troia schiude l’inganno della sua pancia: dietro la professione di inclusività si rivela la distorsione elitaria di un latino che esclude, che separa ciò che è già separato e – ancora peggio – assegna pericolose «patenti di classe» su base culturale.
Anche qui niente di nuovo: era proprio questo, infatti, l’epicentro del dibattito che, soprattutto dalle pagine della rivista del Pci Riforma della scuola, mobilitò le forze intellettuali italiane alle soglie del ’62, quando la riforma Gui-Codignola attivò l’insegnamento semi-facoltativo del latino nella nuova scuola media unificata, tra l’indignazione del fronte comunista che nelle ombre gentiliane di quel «falso umanesimo» ravvisava il principale ostacolo per il passaggio da una scuola elitaria a una scuola «di massa» (e sul fronte abolizionista, seppur con delle riserve «spirituali», c’era pure Concetto Marchesi). L’esperimento, di fatto, si rivelò fallimentare: l’insegnamento del latino, obbligatorio solo all’ultimo anno delle medie, non favorì in alcun modo la sperata ascensione sociale degli studenti poveri, esclusi come prima dai percorsi formativi delle future classi dirigenti.
Dopo la sua abolizione nel ’77 il latino scomparve quindi dalla scuola dell’obbligo, ma quella parentesi riformista si rivelò cruciale nel passaggio dalla battaglia simbolico-identitaria di stampo gentiliano a una strumentalizzazione capitalistico-professionale che ancora oggi alimenta la cantilena di una presunta (e finora irrealizzata) mobilità di classe. Senza voler tracciare inutili analogie, la proposta di Giuseppe Valditara appare allora come la perfetta figlia maggiore di una tradizione che, dal panlatinismo di Giovanni Gentile alla promessa «ascensionale» del boom economico, mira ad appropriarsi dell’egemonia sul terreno del latino riformato: la carica simbolica del primo momento incontra qui la declinazione economica del secondo, nella sintesi tra eredità e capitale auspicata dalla scuola del nuovo millennio. Ci si chiede soltanto, sul piano pratico, quanti tra i 900.000 studenti e studentesse non italiani o futuri allievi degli istituti tecnici (ora ridotti a quattro anni di scuola pubblica più un biennio di specializzazione con le imprese private delle Its Academy) sceglieranno di beneficiare dell’ora di latino.
E ammesso pure che succeda, di quale latino parliamo? Il latino dell’identità italiana, del problem solving, della dirigenza d’impresa? Dove sarebbe questo latino che risolve, che forma, che unisce? Tutti ne parlano ma nessuno lo vede. Forse perché, semplicemente, un latino così non è mai esistito, soprattutto in rapporto all’italiano. Immaginare il latino come una prerogativa esclusivamente italiana è una forzatura ideologica: lo stesso Dante, che pure aveva strategicamente celebrato la latinità (e quindi la romanità) dell’italiano nell’affidare le ultime speranze della pace alla grande utopia imperiale, credeva che il latino avesse sempre convissuto con i volgari, modellando addirittura la propria gramatica sugli idiomi romanzi. Una funzione unificatrice il latino l’ha di certo ricoperta come lingua del potere, ieroglossia dell’Impero o della Chiesa divenuta poi lingua veicolare dei colonizzati – per adottare una prospettiva recentemente valorizzata dagli studi. E allora, almeno nel campo delle forze linguistiche medievali, ha senso piuttosto parlare dei diversi latini – il latino d’Africa, d’Italia, d’Irlanda, di Germania – che si opponevano a una (nostra) idea posticcia di latino come entità monolitica e inscalfibile.
Così si esprime la poetessa keniana Shailja Patel nei suoi versi sulla «migritudine»: «Listen: / my father speaks Urdu / language of dancing peacocks / rosewater fountains / even its curses are beautiful. / He speaks Hindi / suave and melodic / earthy Punjabi / salty rich as saag paneer / coastal Kiswahili / laced with Arabic, / he speaks Gujarati / solid ancestral pride. / Five languages / five different worlds / yet English / shrinks / him / down / before white men / who think their flat cold spiky words / make the only reality» [«Ascolta: / mio padre parla l’urdu / lingua dei pavoni danzanti / delle fontane di acqua di rose / anche le sue maledizioni sono belle. / Parla l’hindi / soave e melodico / Punjabi terroso / salato e ricco come il saag paneer / Kiswahili litoraneo / impregnato di arabo, / parla il Gujarati / solido orgoglio ancestrale. / Cinque lingue / cinque mondi diversi / eppure l’inglese / lo rimpicciolisce / davanti agli uomini bianchi / che pensano che le loro fredde piatte irte parole / siano l’unica realtà»).
A dispetto dunque di chi spera di fare del latino la chiave legittimante di un nazionalismo linguistico che si imponga come only reality del nostro tempo, occorre smantellarne la narrazione egemonica sul piano della prassi: non ripudiarlo, ma liberarlo dalle sovrastrutture ideologiche che antepongono la grammatica alla lingua per annientarne la storia. Il peso dell’eredità implica sempre uno squilibrio di forze, uno sbilanciamento tra chi ne riceve di più e chi meno. Sbarazzarsi della paradossale eredità paterna della lingua madre significa anche rinunciare al capitale in nome del dono, per svincolare i saperi dall’arbitrio imposto della successione. Nella scuola dei nostri anni Venti Cicerone deve far posto ai traduttori latini dei filosofi arabi, alla lingua incolta dei primi martiri cristiani, al sermo humilis di Auerbach. Ripensare l’idea di latino non significa rimpiazzare la nostra cultura, ma ridistribuirla.
*Sofia Santosuosso è dottoranda in Latino Medievale all’Università di Venezia e all’EHESS di Parigi. Si occupa di costruzione del linguaggio politico nella curia papale nel Basso Medioevo. SI è occupata anche di scuola e di insegnamento.
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