
Perché il giacobino nero?
Quando i dannati della terra strappano i valori dell’illuminismo dalle mani degli ipocriti che li sbandierano, possono farne un progetto radicale di emancipazione umana
Quando ho proposto alla redazione statunitense di Jacobin il logo del giacobino nero, c’è stata un po’ di apprensione. Preoccupava l’idea di usare come “portafortuna” il profilo di una persona nera. C’era il rischio di risultare offensivi. La storia delle rappresentazioni visive dei neri è ricca di esempi negativi. Io stesso, immigrato nero giamaicano, ho avuto momenti di esitazione.
Eppure proprio quelle preoccupazioni dimostravano che l’utilizzo aveva senso. La perversione stava nel presentare un volto nero come soggetto universale, onore sempre e solo accordato a volti bianchi. E non si trattava nemmeno di un banale tentativo di sovversione, di creare una contro-mitologia per mezzo di facili sostituzioni, come in quei dipinti dove Gesù ha i dreadlock.
Benché sia una storia troppo spesso ignorata, è difficile trovare un migliore significante di universalismo della rivoluzione haitiana. Gli eventi che si svolsero sull’isola di Saint Domingue durante un’epopea lunga tredici anni hanno influenzato la storia mondiale.
La rivolta degli schiavi colpì l’illuminismo occidentale al cuore delle sue contraddizioni. Prendendo il mantello dell’illuminismo e facendo di quest’ultimo un autentico progetto di emancipazione umana, quei rivoltosi spiazzarono, spaventarono e sconfissero ogni impero presente in quell’area. Un furibondo Napoleone Bonaparte cercò di eliminare ogni nero che avesse portato le spalline da ufficiale. I proprietari terrieri del sud degli Stati Uniti imposero al loro governo di non riconoscere il nuovo stato indipendente.
Di contro, dando prova di profondo internazionalismo, i rivoluzionari haitiani ispirarono tanta gente quanta ne fecero arrabbiare, dai repubblicani radicali francesi, che sostennero la libertà dei neri, al rivoluzionario latinoamericano Simon Bolívar, che ad Haiti trovò rifugio. E immaginate la confusione dei soldati napoleonici nel sentire le truppe haitiane cantare la Marsigliese.
«Libertà, uguaglianza, fraternità – o morte» era la giusta rivendicazione di quelle truppe. E sul quarto termine non scherzavano: prima della rivoluzione, gli schiavi avevano adottato la politica di avvelenare, finché loro fossero rimasti in catene, quasi tutto quello che respirava. Avvelenarono se stessi, i propri figli, il padrone, la padrona e tutta la famigliola della fottuta piantagione. E quando conquistarono la libertà, non c’era forza al mondo che potesse farli tornare indietro. Così, quando dopo l’ascesa al potere di Napoleone circolarono voci di un ritorno della schiavitù, si misero ad appiccare incendi.
Reason in revolt
La rivoluzione haitiana racchiude in sintesi la missione storica della sinistra: la vera realizzazione dell’illuminismo. Quando i dannati della terra strappano i valori dell’illuminismo dalle mani degli ipocriti che li sbandierano, possono farne un progetto radicale di emancipazione umana. Marx colse bene la contraddizione: nel suo pensiero c’è sia la critica dell’illuminismo sia il progetto di espanderne gli ideali di emancipazione politica in un progetto di emancipazione umana. Ed è questo a risuonare lungo la storia della sinistra: la richiesta che i princìpi formalizzati nelle nostre istituzioni politiche si allarghino all’intera nostra esistenza – alla nostra vita sociale ed economica, nelle nostre case e nelle strade.
La storia della rivoluzione haitiana dovrebbe sempre ricordare alla sinistra che rinunciando al pensiero critico non è immaginabile altra risposta alle contraddizioni dell’illuminismo se non la totale negazione dell’illuminismo stesso. Ricordiamo quel verso dell’Internazionale: «for reason in revolt now thunders». Poiché ora tuona la ragione in rivolta. Non è, non è mai stato un grido di rivolta contro la ragione, ma l’annuncio della rivolta della ragione.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.