
Politiche indigene e coalizioni sociali
Le tradizionali pratiche indigene nella costruzione di mediazioni interne alle comunità ci sono utili oggi per provare a costruire alleanze intersezionali
L’esperienza di cui ho narrato nell’articolo Alleanze intersezionali nel carcere di Soledad richiama le forme organizzative dei popoli Haudenosaunee (chiamati anche Iroquois), culture indigene che hanno sempre concettualizzato comunità e natura come non separate. Queste società – molto prima della invasione coloniale di Abya Yala, l’antico nome dell’America del nord oggi impiegato in una prospettiva decoloniale – hanno inventato un modello duraturo di convivenza pacifica tra gruppi diversi, che erano in competizione e persino ostili. Le nazioni coinvolte in quella che è passata alla storia come la Lega o Confederazione dei Popoli Iroquois usavano una tecnologia di coesistenza (sia a livello micro che macro) chiamata Longhouse. Una «casa lunga» dove ogni famiglia ha la sua abitazione tra le due accanto – come una lunga serie di anelli che formano una collana – e che funge anche da schema per alleanze territoriali con gruppi diversi: nello stesso modo ogni nazione di un territorio è collegata, inanellata alle altre – pur mantenendo il proprio spazio, le proprie relazioni vicinali e la propria autonomia – facendo così parte di una grande Confederazione sul piano sociale, economico, culturale e nell’autodifesa.
Una premessa: è inconfutabile che l’invasione dei bianchi abbia prodotto il genocidio delle società originarie oltreoceano, in quel grande continente che venne considerato dai colonialisti terra nullius – terra di nessuno – coloro che fino a quel momento le avevano abitate avevano uno status di non-umani o meno-umani. Furono secoli di resistenza delle società native, che cercarono di sopravvivere a uno sterminio senza esclusione di colpi, fucili contro frecce, attacchi militari anche notturni, massacri di donne e bambini. Una guerra dei bianchi contro le civiltà che vivevano in Abya Yala, arrivando quasi a eliminare la presenza nativa-americana: nel territorio che oggi è degli Stati uniti è censita al 5% della popolazione. Poi la schiavitù, l’allontanamento dai mezzi di sussistenza, la segregazione, e l’etnocidio culturale lento ma inesorabile, accompagnato da diverse forme di decimazione fisica: pensiamo ai lavori forzati, ai tassi di incarcerazione, ai fiumi di alcol, al cibo e stile di vita imposti dall’uomo bianco nelle cosiddette riserve. Queste sono ancora oggetto di land grabbing in varie forme, alcune spacciate come «valorizzazione del territorio indigeno»: dai setting di film alle case da gioco/prostituzione, da miniere e trivellazioni a discariche tossiche e nucleari, fino ai campi da golf che i bianchi e i loro governi sponsorizzano.
«Esseri incomprensibili e rapaci» li definì lo sciamano Alce Nero, uomo di medicina presso la comunità Oglala (letteralmente Arcobaleno Fiammeggiante, del ceppo Sioux) prima della conversione al cristianesimo, religione alla quale vennero forzate le popolazioni di Abya Yala, violentemente sradicate dai culti animisti e politeisti così come dalla terra che avevano da sempre custodito con saggezza. È altrettanto inconfutabile che l’invasione europea di Abya Yala ruppe le amicizie fra le comunità, i patti di scambio e solidarietà fra gruppi diversi – i bianchi li misero gli uni contro gli altri, garantendo privilegi temporanei ai collaborazionisti, e sterminando chi si opponeva, cancellando gran parte della storia di quelle antiche civiltà. Ciò che resta, meglio sottolinearlo, ha un grande valore.
La Longhouse come politica estesa di coesistenza pacifica nasce in un periodo in cui, nonostante i legami di sangue, le cinque nazioni principali nel nord di Abya Yala, in particolare nella costa est, sono devastate da una guerra fratricida. Dalle rovine emerge un uomo, ricordato nella storia nativa-americana come il Peace-Maker, che opera per ricostruire le relazioni feconde di un tempo e porterà una parola, un messaggio di pace a nome del «Maestro della Vita». Ma prima di iniziare il viaggio cerca la casa di una donna – che nel racconto resta senza nome – la quale afferma che «la parola è buona» ma gli ricorda: «una parola è nulla fino a quando non le viene data una forma, e messa al lavoro nel mondo» (John Brown Child, Transcommunality, 2003). La forma decisa sarà quella della Longhouse e il Peace-Maker andrà a parlarne da villaggio a villaggio, da nazione a nazione e scoprirà che i popoli non vogliono solo la fine delle ostilità, la cessazione delle violenze e dei cicli di vendetta, ma desiderano interazioni positive che costruiscano un mondo migliore a vantaggio di tutte le persone.
Descrizioni importanti della «Great Law of Peace» che verrà scritta in seguito, riferiscono di mani che si intrecciano, braccia che si inanellano, parola e ascolto pieni di rispetto, comunicazione onesta delle proprie idee e sentimenti. Il contesto legale Iroquois si basa su diritti e obblighi condivisi, non solo per autodifesa ma per «reciproche relazioni di scambio, amicizia e buona volontà». La Grande Legge della Pace si fonda fermamente sul principio di unità nella diversità, che diede grande forza alla Confederazione. In altre parole: ogni famiglia il suo fuoco, ogni villaggio il suo albero, ogni nazione le sue istituzioni, ma l’appartenenza a una «Lunga Casa» dove le regole sono chiare è la garanzia del funzionamento dei rapporti sociali, in sicurezza e prosperità.
La Longhouse può allungarsi, aggiungendo abitazioni, villaggi, gruppi, e le diverse nazioni possono inanellarsi seguendo lo stesso principio. Una serie di meccanismi sociali di accountability – ovvero assunzione di responsabilità anche individuale – norme di condotta, protocolli condivisi per il contenimento di rabbia e violenza, fanno sì che accordi e disaccordi possano esprimersi evitando la distruzione delle relazioni e delle alleanze. Cerimonie che si ripetono onorando l’incontro tra diversità, con la recitazione della Legge della Pace nelle varie lingue originali, sono fra i rituali che «sacralizzano» l’amicizia anche nella divergenza. I disaccordi sono preziosi, non vengono stigmatizzati, occultati o mistificati ma discussi in profondità fino alla soluzione.
Un elemento che può interessarci molto riguarda le qualità necessarie in chi è deputato a compiti di coordinamento o leadership, chi gestisce la Grande Legge della Pace, garantendo il corretto funzionamento delle transazioni sociali e dei processi decisionali. Le qualità di chi guida sono riassunte così: «Quando amministri la Legge, la tua pelle deve essere spessa 7 pollici […] Non portare rabbia e non trattenere il rancore. Non pensare a te». Questa citazione è tratta da un importante lavoro di Matthew Dennis (Cultivating a Landscape of Peace, 1993) che, quasi trent’anni fa, scriveva sul confronto in atto nel Settecento nel nord-est di Abya Yala tra le culture Iroquis e gli invasori europei. Trecento anni fa, durante il cosiddetto «secolo dei lumi», quando nel nostro continente si bruciavano migliaia di donne/streghe nei roghi, le culture native avevano già messo a punto un sistema per garantire la pace all’interno delle comunità.
Secondo la Legge, il rispetto va attribuito a ogni persona in maniera equa – la fermezza deve sempre essere temperata con la tenerezza. L’enfasi è posta sulle generazioni future, sul bene dei nipoti e di coloro che nasceranno nella convinzione che la pace non sia una questione ideologica ma si fondi sull’esperienza. Nel contesto Iroquois il rispetto per le donne è molto alto – il loro comando e la loro autorità infondono l’armonia domestica. Owachira è ciò che è sotto il controllo delle donne, cruciale nella relazione con gli uomini: si tratta della matrilinearità, dei diritti delle madri, del dominio sulle terre che includono i cimiteri; è prevista l’elezione delle Chief (le leader della comunità) con funzioni di rappresentanza per il Grande Consiglio della Lega Iroquois. Appannaggio delle donne sono le decisioni importanti tra cui le adozioni e la sorte dei prigionieri. Inoltre, come in altre culture native-americane, le donne mantengono il diritto di veto sulle azioni militari, una prerogativa di cui ho sentito parlare anche tra i popoli Maya del Chiapas dopo l’insurrezione del 1994.
In Abya Yala, il rapporto con ciò che noi chiamiamo «tradizione» è stato spesso elemento di attrito tra l’area militante (di stampo marxista, leninista e anarchico – comunque basata su idee nate nel vecchio continente) e le forze indigene che si definivano «conservatrici» rispetto alla natura, e si opponevano alle forze «progressiste» e «sviluppiste» del capitale neoliberista mostrando un immaginario politico che non poteva collocarsi nello spettro europeo-centrico di ciò che è destra e ciò che è sinistra.
Ciò è stato evidente anche tra i primi gruppi di europei arrivati in Chiapas per «aiutare» la rivoluzione indigena, ovvero agli inizi di movimenti di solidarietà che si sono trovati talvolta a rappresentare uno zapatismo di superficie, legato all’icona del Subcomandante Marcos e sedotto dall’idea di masse coi fucili (come si trattasse di un altro movimento guevarista), e con l’idea della Selva Lacandona come un paradiso dove fumare erba e fare il bagno nudi e nude nel fiume – in aperta violazione alle regole del villaggio, alle «tradizioni», appunto. Ma la cosa più problematica è che parte dell’attivismo bianco attribuiva alle sollevazioni del Chiapas una formazione politica di tipo marxista, non cogliendo ad esempio che nelle realtà indigene coesiste una varietà di posizionamenti, e soprattutto ignorando che non c’è alcuna dicotomia tra la sfera della spiritualità (che include l’etica, il rapporto con la natura, l’anima collettiva ecc.) e quella della politica. Ma venticinque anni non sono passati invano e oggi l’esperienza zapatista è compresa in maniera più aderente alla realtà.
Nella Confederazione Iroquois ogni persona godeva di un alto grado di libertà e autonomia – nessuna élite, nessuna decisione dall’alto ma una «democrazia partecipativa» che consente a tutte e ognuno di esprimersi a ogni livello di decisione, avendo la propria voce ascoltata e tenuta in conto fino al raggiungimento del consenso. Grazie anche al contributo delle comunità curde nel nostro vecchio continente, oggi è stata risignificata in senso positivo la dimensione spirituale, l’età anziana e attribuito alla parola «tradizione» un contenuto non retrogrado. Persino le dinamiche legate alle gerarchie generazionali hanno visto qualche spostamento da un contesto «rivoluzionario» prima maschile e gerontocratico, poi fortemente caratterizzato in senso giovanilistico, oggi ribilanciato da una nuova enfasi sulla eldership, sul ruolo di compagne e compagni anziani riconoscendo loro esperienza, saggezza, capacità di mediare in conflitti interni. Il passato non è un peso morto da scaricare in favore di ciò che è new; e non è mitologia.
Ho sottolineato altrove l’importanza del luogo nelle epistemologie indigene, quanto il luogo sia centrale in ciò che conosciamo, in come lo conosciamo e come scambiamo le nostre conoscenze, non solo nelle place-based cultures – chiamate così in termini neo-coloniali, perché tutte le culture sono basate sul luogo in cui si manifestano, e sono l’espressione delle conoscenze situate in senso intersezionale (di classe, razza/etnia, genere, posizione geopolitica ecc.), anche le culture dominanti che si auto-rappresentano come «teorie generali» (Raewyn Connell e Laura Corradi, Il silenzio della terra. Sociologia postcoloniale, realtà aborigene e l’importanza del luogo Mimesis 2014). L’importanza del luogo è tangibile anche nelle forme della politica e nell’attivismo sociale, poiché infonde lo spirito delle genti che ne fanno parte. Nelle prospettive native il luogo come «spaziotempo» è considerato cruciale e lo è nelle alleanze «trans-community».
Nonostante l’importanza del luogo, della terra, dell’identità, e il legame verso famiglia, clan e nazione, le società indigene di Abya Yala non creavano pratiche sociali escludenti verso persone appartenenti ad altri gruppi o esterne, anche durante il colonialismo. Ad esempio nel 1722 entra nella Confederazione delle cinque nazioni, quello che viene chiamato «il sesto compartimento»: un popolo transfuga che i bianchi avevano cacciato da quello che oggi è il North-Carolina. Si tratta delle genti Tuscarora che accettano la Grande Legge della Pace e vengono accolte dal popolo Oneida – la Longhouse si allunga. Tra loro c’è anche un’antenata di John Brown Childs, che sottolinea come la purezza razziale, grande ossessione degli occidentali, non contasse alcunché prima del colonialismo e anche per molto tempo durante l’invasione di Abya Yala le società native non si sono divise attraverso linee di consanguineità. Solo in tempi recenti talvolta vantare un’appartenenza genetica indigena «integrale» («I am Apache 100%») piuttosto che parziale può entrare nelle pratiche discorsive di vanto giovanile tra pari nelle riserve.
La metodologia di «parola e ascolto pieni di rispetto» è talvolta garantita dalla presenza di un talking stick – un bastoncino allungato che porta i simboli della comunità (un certo tipo di incisione, una piuma, una pietra curativa come il turchese, un cristallo, o un corallo) e ne incorpora le intenzioni: viene dato a chi chiede la parola ed è sia un impegno a dire la verità, sia un segnale che le altre persone devono dare un’attenzione indivisa – perché la parola è sacra e il silenzio le rende onore. Un’altra tecnica indigena, detta della «disputa costruttiva» viene utilizzata nel contesto sociale Iroquois delle Longhouse ove si riconosce come una società conviviale debba legittimare la presenza di interessi diversi che possono entrare in frizione. La «disputa costruttiva» elimina la competizione dalla discussione, inserendo meccanismi di «assorbimento dei colpi» – racconta sempre John Brown Child in Transcommunality – tenendo conto delle diverse posizioni con una mediazione sensibile che infonde calma e pace, per il bene comune, che è interesse di tutti e tutte. Famose e utili sono le parole della poetessa afro-americana bell hooks, sullo sviluppo della comprensione reciproca:
La paura di uno scontro doloroso spesso conduce le donne e gli uomini attivi nel movimento femminista a evitare incontri critici rigorosi, eppure se non possiamo confrontarci dialetticamente in modo impegnato, rigoroso e umanizzante, non possiamo sperare di cambiare il mondo (bell hooks, Talking Back. Thinking Feminist, Thinking Black, South EnPress, 1989).
Certo anche la tecnica della «disputa costruttiva» può fallire, ma i conflitti «corrosivi» vanno arginati e risolti: ci deve essere la volontà organizzativa di avvicinare le posizioni che tendono a scontrarsi, e di creare fluidità al fine di raggiungere il consensus all’interno del gruppo. Mentre si smussano le frizioni e si evita che persone prepotenti assumano l’egemonia, o il monopolio dei processi decisionali, in certi frangenti non bisogna nemmeno lasciare che si crei un clima di «armonia artificiale», nel nome dell’unità. Ciò implica una buona qualità delle relazioni interpersonali, sincerità, fiducia reciproca e una certa predicibilità degli atteggiamenti – anche con persone non-indigene con cui si hanno rapporti e che vogliono «sostenere le comunità». Ma i bianchi, secondo le fonti citate da John Brown Child, «non possono dirci quello che dobbiamo fare e come lo dobbiamo fare». Questo non significa scartare il contributo teorico e pratico che arriva da persone di altre comunità o dall’Europa, anzi è bene creare confronti con ciò che è distante, quando ci parla da vicino, come quando Simone Weil raccomanda che, per una «cooperazione fondamentale», le relazioni non debbano solo essere buone ma «calde, genuinamente amichevoli e intime». Tali requisiti chiamano in causa la necessità di trasformazioni personali che, nel mantenere le proprie affiliazioni, avvengono anche a causa di tali interazioni. Nel creare la tregua fra le gang di Los Angeles, dopo il riot del 1992, gli attivisti trans-community ebbero un ruolo cruciale – anche se talvolta si trovarono in situazioni spiacevoli.
Come la filosofia sociale classica delle popolazioni Iroquois può esserci utile oggi, nelle lotte globali per l’ambiente, la libertà, la giustizia economica e sociale? John Brown Child auspica la creazione di «costellazioni di forme cooperative» basate sul rispetto delle diverse posizioni e la volontà di innescare processi di auto-trasformazione collettiva, basati sull’accountability, sulla responsabilità reciproca. È ciò che sottolinea anche Patricia Hill Collins in Black Feminist Thought (1990): «Ognuno ha una voce ma ognuno deve rispondere alle altre voci per poter avere il permesso di rimanere nella comunità». Quindi, violare tali regole, senza la volontà di rettificare il proprio comportamento (penso a uso di alcol o droghe non ammesse, mancanza di rispetto verso le donne, comportamento sleale o aggressivo) può significare perdere il proprio posto nella comunità per un periodo o per sempre.
Non si tratta di decidere, in una alleanza fra gruppi o in una coalizione, quale posizione politica rispecchi meglio delle altre la situazione attuale: si tratta invece di sopraggiungere a una sintesi tra le varie posizioni che tenga conto di tutte, che sia soddisfacente per ognuna, che rappresenti quello che ho chiamato il minimo comune denominatore tra le varie posture politiche, tra i vari metodi con cui operare e nella scelta degli obiettivi. Tale espressione matematica a mio avviso è politicamente utile per aiutarci a trovare basi solide in accordi tattici e intese strategiche, in coalizioni sociali e alleanze intersezionali. Ed è un lavoro preliminare utile nella ricerca di mediane femministe, essenziale nel funzionamento delle nuove forme di democrazia diretta, di genere, inter-etnica, inter-religiosa.
*Laura Corradi è una ricercatrice eco-femminista, antirazzista e queer, impegnata nei movimenti per la salute e per le culture indigene e nomadi. Ex- operaia e Traveller, Docente di Studi di Genere e Metodo Intersezionale è autrice di numerosi libri e articoli (vedi bodypolitics.noblog.org).
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