
«Qualcuno di ancora puro e intero»
Centinaia di migliaia di persone ostacolarono il progetto di sterminio degli ebrei. Ma, nonostante incalcolabili ricerche, una coltre di oblio avvolge molte delle loro storie. Come quella di Lorenzo Perrone, il muratore che salvò Primo Levi
Sono 28.217 quelli riconosciuti all’ultimo aggiornamento reso pubblico (1 gennaio 2022). I più numerosi fra i «Giusti tra le nazioni», i non ebrei che salvarono ebrei a noi noti e la cui azione è documentata, erano polacchi – 7.232 – mentre gli italiani che hanno ottenuto questa onorificenza sono 766 e i tedeschi 651; ci sono anche un vietnamita e due brasiliani (una è Aracy De Carvalho, oggi celebre per la miniserie tv Passaporto per la libertà), all’interno di una storia corale, polifonica, in diversi casi comunitaria.
Un disclaimer presente sotto la tabella di Yad Vashem – il museo della Shoah di Gerusalemme –, che dà conto delle nazionalità dei quasi trentamila Giusti a oggi censiti, fa presente fin da subito che «il titolo di Giusto [tra le nazioni] viene assegnato a singoli individui, non a gruppi», portando come esempio il più celebre, quello del mirabolante salvataggio di massa nella Danimarca del 1943, raccontato dieci anni fa da Bo Lidegaard ne Il popolo che disse no (Garzanti 2014). Lì uomini e donne di diverse età ed estrazione sociale improvvisarono una gigantesca operazione di salvataggio via mare, facendo scappare in Svezia attraverso lo stretto di Øresund, su pescherecci e imbarcazioni di ogni tipo, oltre seimila persone considerate «di razza ebraica». «I membri della resistenza danese – leggiamo sempre sul sito del museo – consideravano l’operazione di salvataggio come un atto collettivo e quindi chiesero a Yad Vashem di non riconoscere i membri della resistenza individualmente. Yad Vashem ha rispettato la loro richiesta e di conseguenza il numero di Giusti danesi è relativamente basso. Sul Monte della Memoria è stato piantato un albero per commemorare la resistenza danese». Questo non è l’unico episodio in cui fu eclatante la partecipazione di una comunità al soccorso di uomini, donne e bambini braccati: nei primi anni Quaranta i villaggi francesi protestanti di Le Chambon e Dieulefit accolsero centinaia e centinaia di perseguitati, dinamiche simili si possono rintracciare persino nella Germania nazista e sulla penisola italiana, a Nonantola, a partire da luglio del 1942 e poi a cavallo dell’8 settembre 1943 l’intera collettività fece lo stesso.
In un convegno dedicato alla lettura di questo straordinario processo che salvò circa ottanta tra bambini e adolescenti riuscendo a farli espatriare in Svizzera dopo varie peripezie – il sacerdote, don Arrigo Beccàri, e il medico condotto del paese, Giuseppe Monreali, sono «Giusti tra le nazioni» –, questa vicenda diversi anni fa mi portò a ipotizzare che si possa parlare anche di un «contagio» del bene, speculare e opposto a quello del male di cui parlava Primo Levi, mutuandolo da Alessandro Manzoni: grazie alla rete di una trentina di famiglie del posto, i bambini e i ragazzi si salvarono infatti tutti tranne uno, Salomon Papo, catturato e deportato ad Auschwitz. E molti abitanti di una dozzina di località cuneesi, in quel fatidico settembre del 1943 che spianò la strada alla stagione delle scelte, offrirono rifugio e protezione a chi, tra gli ebrei in fuga attraverso le Alpi a valle del Colle delle Finestre e del vicino Colle Ciriegia, non era riuscito a proseguire il cammino verso la Svizzera o verso le zone già liberate dagli Alleati, permettendo a circa due terzi di loro di scampare al massacro; nel 2015 questi occhi hanno visto discendenti dei salvatori e dei salvati abbracciarsi nella marcia commemorativa Attraverso la memoria che considera i confini per quello che sono: luoghi di passaggio, di umanità, di incontro.
Il giudice del bene
Nel neonato Stato d’Israele fu il giurista Moshe Bejski, nato in Polonia nel dicembre del 1920 e scampato alla Shoah, ad avere l’intuizione che avrebbe portato al riconoscimento di migliaia e migliaia di Giusti e Giuste. Dopo aver testimoniato al processo Eichmann, l’1 maggio del 1961, Bejski decise infatti che bisognava rendere omaggio all’uomo che lo aveva salvato, l’imprenditore tedesco-sudeta Oskar Schindler, e lo cercò. Arrivato in Israele l’anno successivo, l’imprenditore tedesco venne accolto trionfalmente da centinaia di salvati (il libro Schindler’s Ark di Thomas Keneally [1982] e il film Schindler’s List di Steven Spielberg [1993] si sarebbero basati su un nucleo primigenio di appunti dello stesso Bejski che registrò in presa diretta le prime testimonianze) ma anche da alcune critiche. Grazie al libro, e soprattutto al lungometraggio, ormai è nota al grande pubblico la sfacciata e stupefacente azione clandestina di Schindler, che per ben quattro anni non permise alla morsa dello sterminio di stringersi sui «suoi» operai, arrivando a trasferirli a Brinnlitz, in Cecoslovacchia, dopo averne aggiunti altri settecento ai primi cinquecento, bluffando come un giocatore di poker con la sua presunta fabbrica di armamenti e i suoi operai e le sue operaie, tutti e tutte necessari allo sforzo bellico del Terzo Reich secondo quanto ripeteva incessantemente a chi li voleva deportare. Bejski era uno di loro: era uno tra i 1.200 ebrei della «lista». Meno note sono le zone d’ombra della figura dell’imprenditore tedesco.
Negli anni Sessanta questi divenne il simbolo concreto della complessità del criterio con il quale definire il «bene» all’interno del buco nero del Novecento che era stata la Shoah. Schindler era infatti un uomo complesso, che aveva dovuto trattare con i suoi compagni di partito e che aveva atteggiamenti anche non condivisibili, e aiutò Moshe Bejski a capire un dato fondamentale degli esseri umani. Così lo racconta Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, la foresta dei Giusti, ne Il tribunale del bene (2003): «Moshe rispondeva sempre allo stesso modo, quasi avesse un disco impresso nella memoria […]: “Accettate Schindler per quello che è, se non fosse stato un ubriacone, un donnaiolo, uno spendaccione, il più disordinato e trasgressivo degli uomini, non ci avrebbe potuto salvare. Solo lui poteva escogitare l’azzardo della fabbrica fantasma e reggere il gioco fino alla fine”».
Fu il clamore suscitato dal «caso» Schindler, che fece discutere per mesi – e poi per anni – la società israeliana sulla quantità di «macchie» tollerate nella vita di un salvatore e nel suo comportamento prima, durante e dopo la guerra e il genocidio, a indurre il giudice Moshe Landau a chiamare Bejski a lavorare per la Commissione dei Giusti, ai quali sarebbe stato dedicato un viale con un albero per ricordare ciascuno di loro. Per decenni la Commissione guidata da Bejski discusse su quali fossero appunto i criteri da seguire per insignire una persona di quell’importante onorificenza. Gli esempi di casi difficili da giudicare sono molteplici, basta pensare a chi aveva lavorato addirittura all’interno della macchina di sterminio nazionalsocialista cercando di sabotarla, ma forzatamente diventandone anche complice, o a chi agiva in maniera ambigua e ambivalente, magari salvando qualcuno e ignorando altre richieste di aiuto; mi è capitato personalmente di studiare a lungo uno di questi casi, quello di un umile brigadiere della Repubblica sociale italiana, Antonio M., un «uomo in grigio» che con una mano salvava perseguitati – e per questo è informalmente riconosciuto come Giusto, in Piemonte – e con l’altra partecipava alle cacce all’uomo, condannandone altri. Non ne sono venuto a capo: a volte gli esseri umani e i loro atteggiamenti, semplicemente, oscillano.
Una stima destinata a crescere
La procedura complessa, inaugurata nel 1963 – dopo che Eichmann fu giustiziato –, prevede oggi un’ampia documentazione a supporto e risente com’è fisiologico delle intenzioni dell’ente che la promuove e la conduce: bisogna in primis dimostrare tramite documentazione, come illustra la sezione del sito dedicata alle caratteristiche necessarie, che la persona candidata» abbia rischiato «la sua vita, la sua libertà o la sicurezza per salvare uno o più ebrei dalla minaccia di morte o deportazione senza esigere un compenso monetario o altre ricompense. Questo vale anche per i soccorritori che sono poi deceduti».
Non per tutti i Giusti e le Giuste, che tali furono all’epoca dello sterminio degli ebrei d’Europa, si è chiaramente avviata – o è stato possibile avviare – tale procedura. E negli ultimi decenni sono state portate avanti, e portate a termine con successo, molte pratiche; tra le ultime in ordine di tempo c’è la stupefacente vicenda della biellese Delfina Levis, riconosciuta a dicembre del 2021, che protesse per venti mesi, salvandola, tutta la famiglia Jona. Le storie che conosciamo sono dunque, forzatamente, destinate ad aumentare.
Si stima che per circa quattrocentomila persone – metà delle quali tedesche – in Europa la morte di massa fosse un lavoro. Per ragionare in termini di ordini di grandezza, possiamo dunque ipotizzare che al di là delle parabole umane ora da noi conosciute se ne nascondano, nell’oblio, almeno altrettante che, saltuariamente o sistematicamente, aiutarono gli ebrei d’Europa in trappola a nascondersi, a sopravvivere, a trovare vie di fuga in un continente, nel primo scorcio di anni Quaranta, praticamente del tutto in mano alle forze dell’Asse e schiacciato nella morsa dello sterminio. Se alla conferenza di Wannsee, con la Shoah già in corso da oltre sei mesi, vennero individuate undici milioni di potenziali vittime ancora presenti sul suolo europeo e relative compagini, noi sappiamo che l’operazione di annientamento degli ebrei d’Europa riuscì solo, ad adagiarsi su una brutale contabilità dello sterminio, per metà. E se questo piano mostruoso non fu portato a termine – al di là della controffensiva alleata che restrinse i confini dell’Europa nera, fino alla Liberazione – è dovuto al fatto che questa prodigiosa rete di centinaia di migliaia, e più probabilmente milioni, di europei ed europee permise a uomini, donne e bambini braccati di avere rifugi, sostentamento, percorsi sicuri. I salvati ebbero il sostegno – o per lo meno poterono contare sul silenzio – di famiglie, di comunità di vicinato, di quartieri, di villaggi.
È innegabile però che siano le storie dei singoli salvatori, che abbiano avuto o no la possibilità di contare su una dinamica di rete spesso centrale – come ha osservato opportunamente Sergio Luzzatto – o che abbiano agito fondamentalmente in solitudine, abbiano una particolare forza simbolica.
I primi della fila
Penso naturalmente a De Carvalho, a Schindler, o al «nostro» Giorgio Perlasca, fascista pentito (mai antifascista, però) che si finse console spagnolo per mettere in atto un’operazione strabiliante di salvataggio nell’Ungheria sulla quale era scesa la notte – quasi mezzo milione di ebrei deportati ad Auschwitz in poche settimane da tutto il paese, prima che l’oscurità calasse su Budapest –, reso celebre dal bestseller di Enrico Deaglio La banalità del bene (1991), diventato a sua volta un prodotto audiovisivo, la miniserie Perlasca. Un eroe italiano di Alberto Negrin (2002). Più di recente Jan Brokken, nel suo I giusti (2018; 2020 in traduzione italiana), saggio ad alto tasso narrativo frutto di una ricerca ponderosa, ha portato definitivamente alla ribalta le biografie del console olandese a Kaunas, Jan Zwartendijk, e del suo omologo giapponese Chiune Sugihara, noto già da tempo, e con loro – in parallelo e in seguito – di molti altri diplomatici come il conte polacco Tadeusz Romer, i quali nell’Europa orientale permisero a diverse migliaia di ebrei in fuga di intraprendere un’odissea che avrebbe portato la maggior parte di loro in salvo a Shanghai.
Le storie di queste persone – uomini in divisa, diplomatici, industriali, in genere persone istruite e con una buona «posizione» – sono da tempo sotto i riflettori: come si è visto a loro sono dedicati libri e film, anche di immenso successo, che hanno abbondantemente tracimato oltre i confini della loro nazione di appartenenza. Sono diventati, oltre che attori della storia, anche personaggi di narrazioni per così dire edificanti. E sebbene a volte abbiano distrutto in parte le prove del loro operato per tutelare le persone da loro salvate – penso proprio a Zwartendijk che diede letteralmente alle fiamme la lista dei 2.139 ebrei ai quali aveva lasciato uno «pseudo visto», assicurandosi «che andasse in cenere fino all’ultimo pezzetto di carta», come racconta Brokken –, non di rado ne hanno scritto persino loro stessi (è il caso di Perlasca, che tenne addirittura un diario, lo rielaborò e poi si assicurò che finisse nelle mani di chi avrebbe potuto raccontare la sua storia: avrebbe dovuto aspettare comunque oltre quarant’anni perché questa venisse alla luce), o comunque l’hanno fatto persone a loro vicine, come la moglie del console giapponese Yukiko Sugihara, che pubblicò le sue memorie dopo la morte del marito Chiune, o Emilie Schindler, che fece lo stesso un ventennio più tardi, dopo l’uscita del film di Spielberg.
Su Ian Karski, il militare polacco che con determinazione impressionante denunciò agli Alleati lo sterminio in corso rimanendo fondamentalmente un testimone inascoltato, sarebbe fiorita un’ampia letteratura, e lui stesso pubblicò addirittura un libro nell’ultimo anno di guerra, a dicembre del 1944, con l’incredibile tiratura di 360.000 copie.
Un uomo di poche parole
In Italia, fin dal dopoguerra «di quello che fecero i vinti, gli anonimi, o gli isolati, non ci fu particolare interesse a mantenere traccia» – ha osservato Deaglio –, ed è lampante il caso di uno in particolare tra loro, di cui ho appena scritto la biografia, Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo (in uscita per Editori Laterza il 3 marzo). Lorenzo Perrone, un muradur quasi analfabeta e proveniente dal Borgo Vecchio di Fossano, si trovò a vivere fuori dal reticolato di Auschwitz III-Monowitz. Lì per sei mesi, portò al prigioniero 174 517, Primo Levi, una gavetta di zuppa che lo aiutò a compensare la malnutrizione del lager. E non si limitò ad assisterlo nei suoi bisogni più concreti: andò ben oltre, rischiando la vita anche per permettergli di comunicare con la famiglia. Si occupò del suo giovane amico come solo un padre avrebbe potuto fare. La loro fu un’amicizia straordinaria che, nata all’inferno, sopravvisse alla guerra e proseguì in Italia fino alla morte struggente di Lorenzo nel 1952, piegato dall’alcol e dalla tubercolosi perché non riusciva a liberarsi di quel che aveva visto ad Auschwitz e perché non aveva più nessuno da aiutare. Primo non lo dimenticò mai: parlò spesso di lui e chiamò i suoi figli Lisa Lorenza e Renzo, in onore del suo amico..
Ora, tra il Giorno della Memoria, la cui legge istitutiva invita peraltro a ricordare anche coloro che «si sono opposti al progetto di sterminio» e la Giornata dei Giusti dell’umanità – che si celebra il 6 marzo, in ricordo della scomparsa di Bejski – credo sia giunta l’ora di celebrare quest’uomo semplice, quest’umile Giusto che seppe farsi controcanto del male, senza alcuna ambiguità, e del quale probabilmente nulla sapremmo se non avesse incontrato Primo Levi. Tra le pagine che gli ha dedicato – una quindicina tra il 1947 e il 1986, esclusi vari altri riferimenti che fece in diverse interviste – risuonano quelle che si affrettò a scrivere già nel suo primo libro, Se questo è un uomo: «Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo».
E poi, quelle che racchiudono forse il senso dell’intero suo percorso di testimone:
Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi.
*Carlo Greppi, storico e scrittore, è curatore della serie Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti di Editori Laterza, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020). Tra le sue più recenti pubblicazioni, 25 aprile 1945 (Laterza 2018), La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore (Utet 2020) e Il buon tedesco (Laterza 2021, Premio FiuggiStoria 2021). È inoltre autore di un manuale per il triennio della scuola secondaria superiore di secondo grado (Trame del tempo, di C. Ciccopiedi, V. Colombi, C. Greppi, M. Meotto [Laterza 2022]), del quale firma il terzo volume: Guerra e pace. Dal Novecento a oggi.
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