Quegli alieni sul terreno di gioco
Il calcio è ormai un prodotto finanziario. Lo sport che è sempre stato campo di lotta è ancora una volta lo specchio del mondo contemporaneo
Mercoledì 27 ottobre del 1954 allo stadio Artemio Franchi di Firenze si disputa una partita che resterà negli annali della storia del calcio. In campo ci sono la Fiorentina che milita in Seria A e la Pistoiese che gioca nei campionati interregionali. È una partita amichevole ma è anche un derby per questo sugli spalti ci sono circa diecimila persone. Nel primo tempo la Pistoiese ha dato del filo da torcere agli avversari e quando le squadre vanno negli spogliatoi il risultato è di 2 a 2. Il risultato è a sorpresa ma non è nulla rispetto a quello che accade pochi minuti dopo l’inizio del secondo tempo. Intorno al quinto minuto il pubblico invece di guardare il campo inizia a guardare verso l’alto. In cielo ci sono due strani oggetti oblunghi, a forma di sigaro cubano dicono i testimoni. Anche i giocatori li vedono e si fermano a guardare il cielo. Cadono degli strani filamenti luminescenti, la Nazione il giorno dopo li chiamerà «capelli d’angelo». All’inizio l’arbitro non sa cosa fare poi si decide a fermare la partita fino a quando il fenomeno scompare. Dopo alcuni minuti la partita infatti riprende e il risultato finale sarà di 6 a 2 per la Fiorentina, come da pronostico, ma il risultato non è importante: quella è l’unica partita della storia del calcio a essere interrotta a causa di un Ufo.
In quegli anni a giocare come extraterrestri erano invece gli ungheresi di Ferenc Puskás. L’allenatore Gusztáv Sebes ha introdotto una nuova tattica di gioco, arretrando il centravanti e facendo in modo che tutti i calciatori possano giocare nelle diverse posizioni del campo, uno schema di gioco che anticipa di vent’anni il calcio totale olandese. Con questo modulo «socialista», l’Aranycsapat, la «squadra d’oro», aveva vinto le olimpiadi del 1952, la Coppa Internazionale Europea nel 1953 ed era arrivata in finale contro la Germania Ovest ai mondiali di Svizzera del 1954 dopo aver battuto il Brasile e l’Uruguay. Nella fase a gironi l’Ungheria aveva schiacciato la Germania per 8 a 3, ma il giorno della finale i tedeschi erano scesi in campo imbottiti di metanfetamine e anche grazie alla complicità dell’arbitro avevano portata a casa il più inatteso dei risultati vincendo per 3 a 2. Una squadra del blocco socialista non poteva vincere quella competizione perchè la storia del calcio è da sempre una storia in cui si intrecciano schemi di gioco, economia e ideologia. È una storia di conflitti. Ce lo racconta, con la precisione di un bomber in area di rigore, Luca Pisapia nel libro Fare goal non serve a niente (add editore, 18 euro).
Il pallone non è mai stato innocente. Ha perso la verginità appena nato, sulle navi mercantili britanniche che lo trasportavano insieme ai prodotti tessili e siderurgici per espandere la gloria e il profitto dell’impero. Si è imposto come dispositivo disciplinare e di controllo durante le peggiori dittature e democrazie del secolo breve, e verso la fine è diventato un formidabile strumento di accumulazione di capitale.
Quando appare l’Ufo sullo stadio di Firenze il calcio è a metà della sua storia sociale e inizia a diventare spettacolo, una merce che produce valore. In quel 1954 sulla Rai va in onda la prima puntata della Domenica Sportiva, qualche mese dopo compaiono le prime sponsorizzazioni sulle maglie di calcio.
Una delle figure chiave si chiama Italo Allodi, ex-partigiano, ex-giocatore, diventa il primo general manager italiano, e guida la squadra del Mantova e in quattro anni la porta dall’Interregionale alla Serie A. Qui nasce la prima sponsorizzazione della storia del calcio italiano, i colori delle maglie della squadra passano dall’azzurro al bianco-rosso per allinearli a quelli della Ozo, una locale raffineria petrolifera. Sarà sempre lui nella Juventus degli anni Settanta ha realizzare un piccolo capolavoro di disciplinamento del pubblico allestendo una squadra con i calciatori provenienti dalle regioni più povere del bel paese in modo che ogni operaio della Fiat possa trovare un conterraneo su cui proiettare la propria aspirazione sociale. A questo servono i siciliani Furino e Anastasi, i pugliesi Causio e Brio, i sardi Cuccureddu e Virdis e il calabrese Longobucco, solo per citare alcuni dei più famosi: «Ogni singolo individuo si può così riconoscere e identificare nella merce calciatore a lui più prossima per questioni geografiche e famigliari. Il corpo collettivo dell’operaio può rivedersi e immedesimarsi nella merce collettiva dello Juventus Football Club».
Ma il terreno del campo di calcio è sempre stato una spazio in cui si giocavano partite più importanti di quelle che si vedevano sul terreno di gioco. Le regole le stabiliscono l’aristocrazia e la borghesia inglesi nel 1863, al Freemasons’ Tavern di Londra. Ma quello sport diventa rapidamente un territorio del conflitto di classe quando le prime squadre della working class, nate come dopo lavoro nelle fabbriche tessili e siderurgiche, iniziano a competere con le squadre dei college e presto riescono a vincere come fa il Blackburn nel 1883. Le contraddizioni esplodono subito quando sono i borghesi che dispongono di un’infinita quantità di tempo, lamentano la presenza dei primi giocatori pagati per giocare nelle squadre operaie. Lo racconta bene anche la serie The English Game, su Netflix.
Quello delle questioni legate al professionismo è uno dei fili rossi di Fare gol non serve a niente. Luca Pisapia lo percorre con meticolosa precisione, passando dal divismo progressivamente aggiornato da Giuseppe Meazza a David Beckham, fino alla Sentenza Bosman, che nel 1995 liberalizza i trasferimenti dei calciatori. Uno snodo cruciale grazie a cui il calcio professionistico raggiunge la sua fase neoliberale, ogni giocatore diventa imprenditore di sé stesso, con tanto di agenti e procuratori. È il suggello del calcio come prosecuzione dell’impresa capitalista con altri mezzi. Lo aveva inaugurato Silvio Berlusconi pochi anni prima con l’acquisizione del Milan, poi erano arrivati Tanzi al Parma, Cecchi Gori alla Fiorentina, Cragnotti alla Lazio e Moratti all’Inter. È proprio grazie alla sentenza Bosman che possono arrivare le quotazioni in borsa di pochi anni dopo.
I diritti televisivi delle partite di calcio decuplicano il loro valore. Se per i Mondiali di Francia 1998, la Fifa incassa 135 milioni di franchi per i diritti tv, nel 2002 per quelli di Corea e Giappone quegli stessi diritti vengono pagati 1,5 miliardi di franchi. I biglietti staccati allo stadio diventano una parte sempre minore nei bilanci delle squadre di calcio, i tifosi delle curve non servono più a niente per l’industria del calcio.
Nel 2003 Rupert Murdoch fonda Sky Italia e acquisisce Stream e Tele+ che fino all’anno prima si dividevano le dirette satellitari delle squadre di Serie A. Nella terza giornata di campionato di quell’anno accade qualcosa di imprevisto. Un gruppo di attivisti romani del mondo delle tele-street hackera il segnale criptato di Sky e lo ritrasmette in chiaro nel quartiere di San Lorenzo come fosse una tv di quartiere. La partita che viene trasmessa è Juventus-Roma, attraverso un solo abbonamento migliaia di persone vedono quella partita gratuitamente. Il management di Sky non la prende molto bene e dal palco del Maurizio Costanzo Show promette un’immediata denuncia verso i responsabili. Massimo Gramellini sulla prima pagina de La Stampa, titola il suo editoriale «Spranghe e parabole»: «Alla lunga il vero pericolo per l’equilibrio del sistema non verrà dai teppisti, odiatissimi dai tifosi veri, ma dalle frange dei disobbedienti che per far male non usano le spranghe ma le parabole».
Le controculture avevano messo il dito nella piaga del meccanismo di più importante di valorizzazione della merce calcio: le immagini. Quella partita tra Juventus e Roma finirà 2 a 2 con il gol del pareggio della Roma che arriva a tre minuti dalla fine con un tiro da fuori area dal difensore Jonathan Zebina. È l’unico gol della sua carriera, che conta oltre 300 presenze in gare di massimo livello tra Francia e Italia. Ma come spiega Luca Pisapia nel suo libro, fare goal non serve a niente.
Un decennio dopo le società degli industriali del calcio che avevano puntato sui diritti televisivi, strapagando i calciatori come star di Hollywood, iniziano a fallire una dopo l’altra. Cedono quote di maggioranza oppure vengono salvate dalle banche. Salta la Lazio con la Cirio di Cragnotti, salta il Parma di Callisto Tanzi insieme alla sua Parmalat e la Fiorentina segue le sfortunate storti della Cecchi Gori Group. Il Milan si inventa una fantasiosa operazione di compravendita e nel resto d’Europa la situazione è sostanzialmente la stessa.
Il calcio è arrivato nella sua epoca finanziaria. I giocatori sono titoli che vengono scambiati inventando valutazioni creative, il debito diventa la leva finanziaria intorno a cui costruire nuovi modelli di valorizzazione, tutti i club di calcio finisco in mano ai più importanti fondi di investimento anonimi del pianeta terra con presidenti invisibili o prestanome, completamente alieni al gioco del pallone.
Di questo forse ci volevano avvisare quegli strani oggetti volanti non identificati che avevano lanciato capelli d’angelo sullo stadio Artemio Franchi di Firenze. Era una metafora del denaro lanciato incessantemente sugli stadi come gli elicotteri di Apocalypse Now: «Buttate la bomba, uccideteli tutti».
*Andrea Natella è sociologo, pubblicitario e design fiction artist. Ha attraversato le controculture degli anni Novanta dal cyberpunk al Luther Blissett Project e creato guerrigliamarketing.it. È stato consulente per la comunicazione istituzionale del ministro della salute.
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