
Quel che resta della macronie
La Francia va al voto per le presidenziali. Macron si gioca la conferma, ma il suo progetto di radere al suolo le strutture sociali per costruire una società regolata sul mercato ha incontrato resistenze molto forti
Se non fosse il presidente in carica, sarebbe difficile considerarlo un candidato. In questa campagna elettorale Macron ha brillato per la sua assenza. Insediato al vertice dello Stato, Macron ha sfruttato il suo ruolo istituzionale per proporsi come il garante della continuità e della stabilità. Una rappresentazione della propria figura quasi regale, che punta a imporre la sua rielezione come un dato scontato, ordinario. E così Macron è stato l’ultimo a ufficializzare la sua candidatura e non ha perso occasione, in particolare la sua investitura come Presidente di turno dell’Unione europea, per disertare il dibattito elettorale e porsi al di sopra di esso. Le sue prese di parola televisive non sono state scomputate dal tempo massimo che ogni candidato ha a propria disposizione perché in quelle occasioni, messaggi alla nazione sulla pandemia, messaggi alla nazione sulla guerra, Macron parlava in qualità di presidente-monarca e chef de guerre.
Ovviamente questa strategia comporta anche dei rischi. In primis smobilitare il suo elettorato; in secondo luogo, infastidirlo addirittura, dando per scontata la propria rielezione. In ultimo, lo scandalo appena emerso delle fatture milionarie della società di consulenze McKinsey, accusata di evasione fiscale, che suggerisce l’esistenza di rapporti opachi e il traffico di influenze fra le alte sfere dell’Eliseo e i vertici dell’economia e della finanza. Così, incalzato dagli avversari e pressato dalle inquietudini dei suoi, Macron ha dovuto prendere le necessarie contromisure e ha cominciato a giocare la sua carta favorita: la minaccia di una vittoria di Marine Le Pen. Come nel 2017 l’aut aut è: «o me, o l’estrema destra». Nel 2017 funzionò, ma la solidità del progetto macroniano si è dimostrata ben presto illusoria.
Le due serate elettorali del primo e del secondo turno non furono di euforia, come nel 1981 di François Mitterand, o di sollievo, come nel 2002 di Jacques Chirac vincitore su Le Pen padre. Già la serata del primo turno era stata una notte che in qualche modo anticipava il seguito: un futuro di sicurezza per alcuni, indifferenza per altri, rabbia per altri ancora. La piazza di Macron era convocata di fronte al Palais du Louvre, popolata di vecchi elettori di destra e di giovani cadres della Parigi orléanista, dinamica e benestante, le icone della start-up nation. Clima tiepido, concerto (il sound a un certo punto smise di funzionare) e rompete-le-righe poco dopo l’annuncio dei risultati che portavano a un ballottaggio Macron-Le Pen. Nel frattempo, pochi chilometri a nord-est, nel quartiere popolare (e in via di gentrificazione) di Belleville si radunava la Parigi comunarda che a un duello Macron-Le Pen aveva già dato la sua risposta: cortei selvaggi, fuoco e barricate a cui la polizia reagì con cariche lacrimogeni e interi pullman di arrestati.
Due settimane dopo, Macron si impose su Le Pen, nel nome dell’unità repubblicana: verdi, socialisti, gollisti e sindacati si schierarono con Macron. Jean-Luc Mélénchon, arrivato quarto a poca distanza dagli altri (7 milioni di voti, contro i 7,6 di Le Pen e gli 8,6 di Macron), rifiutò di allinearsi. Macron vinse su Le Pen con 20 milioni di voti a 10, ma con un’astensione record al 26 per cento, una partecipazione in calo rispetto al primo turno, e l’11 per cento di schede bianche o nulle.
Subodorando la spaccatura che covava già nel paese, il quotidiano Le Monde aprì la sua prima pagina, il giorno dopo, con un grafico a torta che mostrava i voti «reali» di Macron pesati sull’astensione e sui voti nulli: il 43% dell’elettorato reale portava al vertice del potere un quarantenne rampante, ex alto funzionario alle finanze, ex banchiere d’affari, ex ministro dell’economia, seguace del filosofo Paul Ricoeur, ex pupillo e poi parricida del presidente socialista François Hollande.
L’arcipelago della Macronie
È difficile fare un bilancio di quello che è stato il macronismo in questi ultimi cinque anni. Esiste davvero un complesso ideologico-politico dietro questa parola? Quasi a rappresentarne l’ineffabilità, in Francia si preferisce parlare di Macronie, toponimo che per assonanza evoca un luogo fantastico, una costellazione inafferrabile. La Macronie è un arcipelago di relazioni innanzitutto. Relazioni costruite nel tempo dal giovane Macron, che nella sua biografia incarna il centro e la trasversalità delle élite francesi: i suoi inizi in politica, alla fine degli anni Novanta, si registrano nelle zone del neo-sovranismo socialista di Jean-Pierre Chevènement, ma già nel 2006, diplomato da poco alla prestigiosissima Ecole Nationale d’Administration, la fucina delle classi dirigenti nazionali, Macron si stabilisce al Partito socialista e viene cooptato nel l’influente Club dei Gracchi, un gruppo informale di industriali e alti funzionari che spingono per una definitiva svolta neoliberale in seno al partito. Tra il 2008 e il 2012 inizia anche una brillante carriera nella finanza e nell’intermediazione bancaria con Rothschild. Dopo aver accumulato un patrimonio milionario e costruito nuove relazioni, Macron ritorna in politica, proprio quando i socialisti si insediano al potere. E qui inizia a delinearsi la Macronie come programma politico-economico neoliberale.
Da ministro dell’economia, durante la seconda parte della presidenza Hollande (2014-2017), Macron si distingue per la sua agenda «riformista» ortodossa: deregolamentazione del mercato del lavoro, estensione del lavoro domenicale, liberalizzazione del trasporto pubblico su gomma a discapito delle ferrovie. Il suo zelo mette più volte in difficoltà il suo padre putativo, il presidente della repubblica, il quale però non immagina che il giovane Macron lavora già per la corsa delle presidenziali. «Non l’ho visto arrivare», dirà Hollande successivamente. Tra il 2014 e il 2017 l’immagine di Hollande si logora rapidamente: il credito fiscale alle imprese, la riforma del mercato del lavoro che facilita i licenziamenti, l’adesione a una politica economica dichiaratamente orientata verso le aziende, solleva un movimento di protesta di massa che viene represso duramente. Il consenso al Partito socialista si erode rapidamente. Nel 2017 Hollande rinuncia a ricandidarsi: la strada per l’Eliseo è aperta per Macron.
La Macronie è un territorio attraversato da banchieri, imprenditori, editori e politici di destra, di sinistra e di centro. Quando Macron si presenta, i socialisti sono logorati dalla permanenza al potere, e i gollisti dalla sua privazione. Macron può riportarvi i secondi ma senza scacciarne i primi. Nella Macronie confluisce prima di tutto l’orleanismo liberal-conservatore, una delle tre tradizioni della destra francese (insieme al legittimismo reazionario e al bonapartismo autoritario), il centro destra cattolico-liberale giscardiano e poi, a seguire, i reduci del gollismo e del naufragio socialista.
Per proporre quest’operazione all’elettorato la Macronie si trasforma in un arcipelago elettorale che cattura alcune parole chiave del discorso emancipazionista della sinistra repubblicana (l’«égalité» che diventa opportunità, la meritocrazia che prende il posto dell’equità, la distruzione del welfare spacciata per autonomia) le svuota di significato e le mescola in una schiuma superficiale che galleggia su un programma sociale, politico ed economico fondamentalmente ultra-liberale, elitista e suprematista («Je traverse la rue, je vous trouve du travail» dirà Macron a un disoccupato; «Une gare, c’est un lieu où on croise les gens qui réussissent et ceux qui ne sont rien» affermerà durante l’inaugurazione di un «incubatore» per start-up; o ancora «Mais le kwassa-kwassa pêche peu, il amène du Comorien», scherzerà durante una visita ufficiale in Bretagna).
Ma al di là delle parole e del programma, il disegno di Macron riposa su un’alleanza di classe. Come ricordano i due economisti Bruno Amable e Stefano Palombarini, la vittoria di Macron si fonda su un «blocco borghese» che «[esclude] programmaticamente l’insieme delle classi popolari dal suo perimetro [e in cui] le classi medie ed alte precedentemente separate dalla divisione tra destra e sinistra si sono trovate unite nel sostegno alla costruzione europea e alle riforme di stampo neoliberista».
Una volta vinte le elezioni la Macronie diventa l’Eliseo, da cui Macron non perde tempo ad applicare la sua agenda. Il primo assalto è, in continuità con Hollande, al mondo del lavoro. Le «ordinanze» del settembre 2017, dei decreti-legge, riducono gli spazi di rappresentanza dei lavoratori, indeboliscono il ruolo dei sindacati, fissano un tetto alle indennità di licenziamento. Il movimento sociale e sindacale che si era mobilitato nel 2016 è ancora esausto e le ordinanze passano senza incontrare forti resistenze di piazza. In materia fiscale viene soppressa la tassa sulle grandi fortune. L’offensiva continua nella primavera del 2018 quando nel mirino delle «riforme» finiscono gli cheminot, i ferrovieri della Sncf, uno dei settori più organizzati e combattivi del mondo del lavoro. Come Margaret Thatcher contro i minatori o Ronald Reagan contro i controllori di volo, l’obiettivo del governo è spezzare quel che rimane dell’aristocrazia operaia. La riforma, che privatizza la forma societaria della Sncf, apre il settore ferroviario ad attori privati, abolisce lo statuto speciale degli cheminot neo-assunti, passa nonostante tre mesi di sciopero. In parlamento la maggioranza presidenziale è schiacciante e nelle piazze i movimenti sono provati da mesi di mobilitazioni infruttuose e da una repressione violenta da parte delle forze dell’ordine. Tutto sembra in ordine, o almeno questa è l’illusione di chi osserva la Francia.
La crisi organica fra i gilets jaunes e la pandemia
È però proprio nell’autunno del 2018 che, inaspettata, arriva la svolta. Accese dall’aumento indiscriminato delle imposte sulla benzina, le proteste spontanee di cittadini, automobilisti, lavoratrici e lavoratori delle periferie e delle zone rurali, si susseguono, crescono di sabato in sabato e incendiano tutto il paese. Le rotonde, gli snodi logistici delle città e dei sobborghi, vengono occupate dai Gilets Jaunes. Una mobilitazione inattesa e di massa, estranea ai linguaggi tradizionali della protesta di strada, esclusa dalla rappresentanza dei corpi intermedi, in qualche modo una nuova «razza pagana» si prende il centro della scena.
Questa prima rivolta post-democratica mette seriamente in difficoltà la polizia organizzativamente, il governo politicamente e le classi dominanti socialmente. Il primo dicembre Macron e alcuni ministri sono costretti a evacuare rapidamente l’Eliseo perché la folla minaccia di fare irruzione. I simboli dell’opulenza di classe, nell’occidente parigino, vengono violati: l’Arco di trionfo e il Trocadéro occupati, il ristorante di lusso Fouquet saccheggiato e incendiato. Ogni sabato le manifestazioni, disorganizzate, imprevedibili, si susseguono a Parigi e nel resto della Francia. Il governo disorientato ritira le misure economiche contestate ma ormai la massa plebea parla di democrazia diretta, destituzione del sovrano, rovesciamento dell’ordine sociale. La risposta, quindi, è quella già collaudata: repressione. La polizia spara ad alzo zero con flash-ball, granate di desencerclement, lacrimogeni. Nei mesi successivi, per far fronte alle manifestazioni non autorizzate vengono ripristinate le unità di polizia motorizzata, le Brav, eredi dei voltigeurs, un corpo creato nel 1968 e sciolto nel 1986 dopo che alcuni agenti avevano assassinato uno studente di 22 anni, Malik Oussekine mentre usciva da un club di jazz, a poca distanza e poche ore dopo lo sgombero della Sorbona occupata.
Messo sulla difensiva dai gilets jaunes il governo deve rallentare nella sua corsa restauratrice. Ciononostante, a dicembre 2019 un nuovo dossier è pronto: la riforma delle pensioni, che include la fine dei regimi previdenziali speciali (per il pubblico impiego, per i ferrovieri e i tramvieri, fra gli altri) e l’allungamento dell’età pensionabile. Una mobilitazione generale si prepara e minaccia di bloccare il paese fra dicembre 2019 e gennaio 2020. È il ritorno dei sindacati, rinfrancati ma, in qualche modo, anch’essi spiazzati dall’esperienza dei gilets jaunes. Le manifestazioni si susseguono, con il solito copione di scontri e ferimenti (sono decine e decine i manifestanti feriti gravemente e mutilati dalla polizia nel quinquennio Macron, secondo il giornalista David Dufresne e il collettivo Desarmons-les, 2.500 manifestanti feriti complessivamente solo nel 2019 per stessa ammissione del governo).
Mentre lo scontro sociale tornava a riaccendersi però la storia ha svoltato di nuovo e l’arrivo della pandemia ha squadernato completamente i piani del governo. Di fronte a un evento globale, di massa, a un’emergenza sanitaria e a un blocco economico inediti, l’agenda neolibrale si è rivelata del tutto superata e inservibile. L’illusione si è infranta definitivamente e ha lasciato spazio all’improvvisazione. La riforma delle pensioni è stata sospesa, di fatto, sine die e Macron ha cominciato a rivendicare la necessità di un intervento dello stato per sostenere lo sforzo sanitario ed economico di fronte alla pandemia. Nel suo primo discorso in cui annunciava il confinamento generalizzato, alla metà di marzo del 2020, Macron ha pronunciato sinistramente le parole «Siamo in guerra». La Macronie si è quindi riorganizzata, ma senza un piano, senza una rotta. L’agenda delle riforme ha subito una battuta d’arresto che neanche la fine della pandemia è riuscita a rilanciare. Gli slogan e le facili equazioni neoliberali, per cui più precarietà porterebbe più occupazione, meno tasse più investimenti, più mercato più efficienza, più liberismo più uguaglianza, sembrano più che mai delle pezze logore. Nelle brevi fasi di tregua dalla pandemia Macron, e soprattutto il suo ministro dell’interno Darminin, hanno provato a coltivare l’elettorato di destra con esternazioni xenofobe (Darmanin ha rinfacciato a Le Pen di essere «più duro di lei» sull’immigrazione). La ministra dell’università Vidal e il ministro dell’istruzione Blanquer hanno alimentato sterili polemiche culturali, islamofobe, sul velo o su una presunta cospirazione «islamogauchista» nel corpo insegnante e nella ricerca universitaria. Di recente, Macron è tornato timidamente a evocare la necessità di una riforma delle pensioni, rimandandola però a un suo eventuale prossimo mandato.
La Macronie fra Europa e Africa
In politica estera la Macronie è stata segnata dalle velleità di protagonismo del presidente della repubblica ma anche da una serie di «scommesse perdute». Il tema del riscaldamento globale, agitato come una bandiera da Macron, soprattutto in una fase di attrito con il trumpismo e il bolsonarismo trionfanti, è stato dismesso dopo i compromessi al ribasso dei vertici di Roma e di Glasgow. In seno all’Ue, Macron si è proposto di rilanciare l’integrazione, paventando forme di cooperazione rafforzata, un’ipotesi accolta sempre con favore in Italia, e infine accontentandosi più prosaicamente di un direttorio franco-tedesco. Anche l’iniziativa di un esercito europeo è rimasta lettera morta. Nel settembre 2021, pochi giorni prima delle elezioni tedesche, il quotidiano conservatore inglese Telegraph, diffuse la notizia, smentita formalmente dall’Eliseo, che la Francia fosse disponibile a condividere il suo seggio al Consiglio di Sicurezza Omu in cambio dell’impegno comunitario a costruire un esercito europeo. Ma l’ipotesi, che aveva una sua razionalità, è stata attaccata duramente dalla destra francese (Le Pen ha accusato Macron di «tradimento»), è rimasta lettera morta anche per il disinteresse tedesco.
Anche i recenti sviluppi della guerra in Ucraina hanno frustrato il progetto di una forza militare sostanzialmente a guida francese e a spese tedesche, visto che la Germania (così come l’Italia e i Paesi Bassi) ha deciso di acquistare gli F-35 statunitensi. «In Francia – riporta Deutsche Welle – la decisione è stata accolta con frustrazione. […] Gli F-35 sono considerati un simbolo del potere Usa nella Nato. Dopo tutti i discorsi fatti a proposito di autonomia e sovranità, ci si sarebbe aspettati una Germania più allineata a una politica di riarmo europea». Una politica che al momento non sembra neanche lontanamente abbozzata. Uno smacco ancora più bruciante, anzi una «pugnalata alle spalle», come la ha definita Parigi, è stato, sempre nel settembre 2021, l’accordo militare fra Usa, UK e Australia che ha portato alla cancellazione di un contratto cinquantennale e dal valore di 56 miliardi di euro per la produzione di 12 sottomarini a propulsione convenzionale (non nucleare) fra Canberra e il conglomerato francese Naval Group.
Ancora nel settembre 2021, alcune affermazioni controverse di Macron, pronunciate durante una cerimonia con diciotto giovani francesi di origini algerine, hanno scatenato una crisi diplomatica con l’Algeria che ha ritirato il proprio ambasciatore e revocato l’autorizzazione al transito nello spazio aereo algerino di aerei militari francesi che partecipavano all’operazione militare «Barkhane» in Sahel. Proprio in Sahel la politica estera della Macronie ha segnato il passo. La nuova giunta militare al potere in Mali ha portato a un deterioramento delle relazioni fra i due paesi, in una spirale di tensioni che ha condotto alla fine dell’operazione Barkhane e al ritiro dei contingenti francesi nel paese (febbraio 2022), proprio mentre la Russia, attraverso il gruppo Wagner, inviava paramilitari in Mali. E così è lecito ipotizzare che nei numerosi colloqui, in persona e telefonici, che Macron ha avuto con Putin durante la crisi ucraina abbiano incluso non solo discussioni riguardo all’est Europa ma anche rispetto all’Africa occidentale. In ogni caso, il protagonismo di Macron in questo frangente, in parte giustificato de iure dalla presidenza di turno dell’Ue e de facto dalle incertezze della leadership tedesca in transizione, si è rivelato poco efficace.
Se agli smacchi in politica estera si aggiunge la crisi sociale interna e la fragilità dell’economia francese, che nel 2022 ha segnato un deficit storico nella bilancia commerciale, dovuto in buona parte alla fattura energetica ma anche dal calo delle esportazioni industriali, la Macronie si sta rivelando un progetto politico fragile. Per provare a rimanere in sella al presidente francese rimane ancora una volta la carta Le Pen, e ci sono buone chance che anche questa volta la minaccia lepenista porti l’elettorato a rinnovare la fiducia a Macron. Ma questa facile, per quanto rischiosa, via d’uscita rischia di rivelarsi un’impasse se il candidato della sinistra di rottura, Mélénchon, la vecchia «tartaruga» ex trotzkista, con il suo programma di pianificazione ecologica e sociale, riuscirà a scalzare Le Pen dal ruolo di sfidante. E in ogni caso, anche se Macron riuscirà a rimanere sul trono, si troverà davanti delle sfide che né l’illusione, né l’improvvisazione riusciranno ad affrontare.
*Francesco Massimo scrive per Jacobin Italia. Attualmente vive in Francia dove fa ricerca e insegna a Sciences Po, Parigi.
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