Resistere in una distopia conservatrice
Convergenze a sinistra e ruolo dei giovani in Florida: a difesa dei diritti e in vista della costruzione di alternative al governo repubblicano dello Stato
Il governatore della Florida, Ron DeSantis, è giunto alla ribalta globale per essere stato, per breve tempo, un candidato alternativo a Donald Trump nelle primarie del Partito Repubblicano verso le elezioni presidenziali di quest’anno. Facendosi portavoce di una «guerra culturale ossessiva» contro qualsiasi forma di pensiero alternativo (o «woke» come viene chiamato dai conservatori) era assolutamente in linea con l’ex presidente, che in precedenza aveva sostenuto convintamente e tra i cui ranghi è prontamente tornato dopo l’esito disastroso delle primarie.
Se di questa avventura a livello nazionale si è parlato in tutto il mondo, molto meno si è discusso di ciò che DeSantis sta facendo della Florida, che somiglia sempre più a una distopia conservatrice. Lo «stato del sole» rappresenta un inquietante laboratorio politico, dove vengono applicate alla lettera le ambizioni sbandierate dalle destre di tutto il mondo, in particolare nel sistema educativo (seppur altre tragiche misure abbiano riguardato, ad esempio, i migranti, come raccontato da Branko Marcetic su Jacobin).
La guerra culturale del governatore si riflette in numerosi provvedimenti che limitano la libertà di espressione e di insegnamento. Quelli che sono stati popolarmente ribatttezzati «stop woke» e «don’t say gay» hanno di fatto vietato le attività obbligatorie nelle scuole e le formazioni sul posto di lavoro sui temi del razzismo, dell’omofobia e della discriminazione, portando alla censura di centinaia di libri di testo e all’impossibilità di usare pronomi che rispettino l’effettiva identità di genere delle persone. Il divieto di parlare di orientamento sessuale e di genere nelle scuole è diventato pressoché assoluto, con punizioni severe per gli insegnanti che possono giungere al licenziamento. Persino una Corte d’appello federale è arrivata a bloccare parte delle norme in questione per una chiara violazione del diritto costituzionale alla libera espressione. Un terremoto nelle università dello Stato è stato causato dalla legge SB 266 che inizialmente ambiva a vietare del tutto le spese statali per i programmi sulla diversità, l’uguaglianza e l’inclusione e a proibire le lauree su critical race theory e studi di genere. Il provvedimento rappresenta l’intenzione di mettere le mani sull’università, ed è stato adottato con delle modifiche, portando comunque al divieto di insegnamento nei corsi generali e introduttivi delle teorie più avanzate sul razzismo, sulla discriminazione di genere e sugli elementi oppressivi presenti nelle istituzioni statunitensi. Un duro colpo a interi filoni di studio e di ricerca, che vengono esclusi dalle università dello Stato con la cancellazione di corsi di laurea e la perdita del posto di lavoro per coloro che insegnavano e lavoravano su questi temi. Il funzionamento di queste misure repressive dipende dall’accentramento dei poteri nelle istituzioni universitarie, con più poteri ai presidi e ai consigli di amministrazione a scapito della libertà d’insegnamento dei docenti e della libertà d’espressione del personale.
Quest’ultimo elemento è coerente con l’atteggiamento radicalmente antisindacale che sta dietro a tutta l’azione di governo. La guerra culturale rappresenta la copertura perfetta per quella che in realtà è una guerra contro chi lavora, che vede non soltanto gli esponenti della maggioranza farsi carico di tentativi continui di delegittimazione delle organizzazioni sindacali, ma veri e propri provvedimenti messi in campo per scoraggiare la libera associazione e la protesta sui luoghi di lavoro. Eliminando praticamente i benefici fiscali derivati dall’iscrizione al sindacato per i lavoratori dipendenti, vietando la diffusione di comunicati e scritti sindacali nelle scuole e obbligando comunicazioni periodiche che invitano a non aderire a un sindacato per i costi d’iscrizione, l’amministrazione ha creato un clima davvero ostile. Se a questo si accosta il tentativo di innalzare le soglie necessarie al riconoscimento dei sindacati alla contrattazione collettiva, si ottiene una visione chiara di quale sia la prospettiva per l’istruzione nello Stato, con una piena esclusione di insegnanti e lavoratori dai processi decisionali. A questo scenario distopico non potevano mancare nuove leggi volte a limitare il diritto di manifestazione, ostacolando la protesta di piazza e agevolando la repressione del dissenso.
In una situazione che ha visto il Partito democratico in evidente difficoltà dinanzi al drastico cambiamento messo in atto da DeSantis (che pure aveva vinto le sue prime elezioni a governatore per pochissimi voti) sono emerse nuove alternative, incardinate nell’uso della protesta e della mobilitazione, per opporsi alla deriva conservatrice dello Stato, con esempi interessanti proprio nelle università e nel sistema educativo in generale. Studenti e studentesse si sono mobilitati in modo estremamente veloce per reagire alle proposte del Partito repubblicano, sia all’interno delle istituzioni universitarie che riappropriandosi dello spazio pubblico protestando per le strade di Miami. La United Teachers of Dade – Utd, il principale sindacato degli insegnanti della contea, ha risposto agli attacchi e ai provvedimenti volti a limitare la rappresentanza sindacale andando ben oltre gli sforzi necessari da un punto di vista formale (nel cosiddetto «ciclo di ri-certificazione») per mantenere l’accesso ai tavoli di contrattazione e la validità del contratto di categoria. Nonostante la minaccia esistenziale del possibile scioglimento per vie legali dell’organizzazione (sventato a gennaio), e il chiaro intento politico dietro le riforme di DeSantis, volte a indebolire l’organizzazione dei lavoratori e il suo peso politico (chiaramente criticato dai conservatori e non solo), l’Utd ha preso parola con chiarezza contro la guerra culturale del governatore e al fianco delle minoranze, aprendo la porta a interessanti convergenze. Ad esempio il 10 marzo scorso un’inedita protesta ha coinvolto persino gli accademici del The Alternatives Project, collettivo progressista di studiose e studiosi di istruzione in città per una conferenza, ed esperti di peso come Micheal Burawoy, tutti particolarmente colpiti dalle limitazioni senza precedenti alla libertà d’espressione e alla libertà di ricerca.
Partecipando alla marcia, dove anche esponenti del mondo studentesco hanno preso la parola, ho avuto modo di parlare con Oscar Alvarez, allora presidente dei yDsa (giovani democratici socialisti) della Florida International University. La nostra strategia – mi ha detto – si basa sulla creazione di un fronte unito, con i lavoratori, i sindacati e anche con le realtà che hanno metodi diversi dai nostri». Senza tentennamenti i giovani democratici socialisti a Miami si sono uniti alle proteste, costruendo connessioni con gli altri esponenti più radicali del sindacato e dell’opposizione a DeSantis, favorendo l’azione unitaria e senza far sparire le differenze ideologiche e strategiche. «In molti avrebbero preferito fermarsi a contestare DeSantis, mantenendo l’obiettivo della protesta distante dalla nostra vita quotidiana e meno raggiungibile. Noi siamo stati tra quelli che hanno voluto parlare chiaramente ai responsabili dell’applicazione di queste politiche dannose nella nostra università. La questione di classe, con le grandi aziende che influiscono nel governo delle università, va portata insieme ai lavoratori e agli insegnanti davanti ai consigli di amministrazione e al management di ogni singola università».
È difficile non notare le somiglianze con la critica mossa dagli studenti nei paesi europei contro l’ingerenza delle grandi aziende nei programmi universitari, e con la pratica di portare proteste su temi politici e generali al livello di campus, facendo avere richieste concrete ai rettori e alle istituzioni di ateneo. In Europa questo modus operandi è diventato chiaro e diffuso nell’ambito delle proteste al fianco del popolo palestinese e contro il genocidio a Gaza, e su questo tema troviamo un altro parallelismo con la Florida, dove i yDsa hanno preso parte alle proteste per la Palestina con un approccio abbastanza simile: «Abbiamo cercato di mettere al centro dell’analisi collettiva i settantacinque anni di colonizzazione della Palestina, siamo stati tra i primi a farlo e abbiamo incontrato subito grandi ostacoli. Siamo stati oggetto di minacce verbali moto forti, che spesso si mescolavano con gli insulti transfobici. Noi vediamo la connessione tra tutti questi temi, c’è l’oppressione sistemica da combattere e abbiamo preso spunto dalle teorie della liberazione nera, queer e dall’anticolonialismo per un’azione che difendesse la libertà d’espressione e di manifestazione dai chiari tentativi di criminalizzazione del dissenso».
Chiaramente non tutti gli attori del fronte che si è mobilitato contro le riforme di DeSantis si sono mossi alla stessa maniera davanti alla questione palestinese, ma per i Dsa ciò non ha rappresentato in alcun modo un incentivo ad allontanarsi in toto dalle altre organizzazioni: «Il fronte unito è una priorità, e noi continuiamo a lottare con coerenza e continuità sui diversi fronti, le nostre idee vanno messe a disposizione della creazione di un pensiero socialista e della diffusione della coscienza di classe, e questo lo facciamo mantenendo le connessioni con gli altri e puntando alla creazione di spazi di dialogo e di autentica pratica democratica». Nel caso della Florida, le politiche reazionarie messe in atto dai Repubblicani hanno provocato ampie risposte, creando opportunità di convergenza nuove e dalle quali i giovani democratici socialisti e, più in generale, i progressisti, hanno tanto da imparare e nelle quali c’è molto da costruire, a difesa dei diritti e delle libertà fondamentali oggi, e per la costruzione di alternative più giuste nel futuro.
*Giuseppe Lipari è dottorando di ricerca in Scienza Politica e Sociologia presso la Scuola Normale Superiore e si occupa di movimenti studenteschi.
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