Riecco Bernie
Quella di Sanders non è una seconda candidatura: è una campagna che prosegue. Il senatore del Vermont pare l'unico davvero in grado di sconfiggere Donald Trump, anche perché non parte da zero
«I’m running for President», è l’annuncio con cui Bernie Sanders comincia il cammino verso le primarie del Partito democratico. Segue subito la richiesta di partecipare alla campagna di base composta da un milione di attivisti su tutto il territorio degli Stati uniti d’America. Sono passati quattro anni dalla sua prima candidatura contro Hilary Clinton. Bernie Sanders annuncia la sua nuova avventura. Da quando, praticamente sconosciuto alla politica nazionale, annunciava la corsa a Burlington sulle sponde del lago Champlain sembra passata un’era. E forse politicamente è proprio così. Nel 2015 esordiva con queste parole: «Questo è un giorno emozionante per me. Non solo per ciò che sto per annunciare, ma per il fatto di vedere così tante persone qui ad ascoltarmi».
Anni fa c’era il racconto del “sogno americano” del figlio di un immigrato, ebreo, analfabeta e povero, divenuto sindaco, deputato e poi senatore in virtù delle sue idee, della tenacia sua e della comunità con cui ha manifestato e lottato, un sogno di riscatto e di lotta tradito da un sistema che si basa sull’individualismo competitivo sfrenato e sull’esclusione, è passato in secondo piano. Oggi Sanders non fa menzione di un pilastro della scorsa campagna: quello delle piccole donazioni ricevute per sostenere i giganteschi costi del sistema politico elettorale statunitense, rifiutando i contributi di multinazionali, banche e miliardari influenti. Ma a poche ore dalla diffusione del messaggio che annuncia la candidatura, i suoi sostenitori hanno già devoluto alla causa un milione di dollari.
La sua coerenza, principale vettore di consenso nelle primarie del 2016 contro Hillary Clinton, è rafforzata dalle battaglie di opposizione di questi anni contro Trump. Non sono così diverse da quelle che aveva portato avanti contro Clinton, Bush, e talora anche contro Obama. La differenza è che ora quelle campagne sono molto più conosciute. Sono battaglie che negli anni hanno anche assunto gambe e voci proprie: l’elezione con le votazioni di mid-term di una pattuglia di democratici progressisti (e in particolare Alexandria Ocasio Cortez) ha moltiplicato gli sforzi in questo senso. Oggi, una larga parte degli statunitensi sa chi è Bernie Sanders, al punto da essere considerato dai sondaggi il politico più popolare d’America. Il suo biglietto da visita sono rimaste le parole d’ordine: un sistema sanitario universale finanziato dalla fiscalità generale, l’accesso garantito alla formazione, l’espansione delle garanzie sociali, il Green new deal. Tutte misure rievocate anche nel video di candidatura del 2019, nel quale, rispetto alla volta scorsa, si trovano più riferimenti allo sviluppo tecnologico, alla redistribuzione delle ricchezze che produce ma anche alla tassazione dei colossi del web come Amazon. Ci sono più riferimenti anche alla questione dell’immigrazione, salita di diversi posti nelle “priorità” della campagna, con la promozione di una riforma per consentire l’entrata legale degli stranieri negli Usa, già presente nel programma del 2016 ma che in conseguenza della presidenza Trump ha assunto tutt’altro peso. C’è l’invito a registrare la più alta partecipazione al voto non più solo come un auspicio ma come punto cruciale della piattaforma politica – l’astensione è stata uno dei maggiori alleati della vittoria dei repubblicani nel 2016 – e Sanders si sofferma maggiormente anche sul tema della proiezione internazionale degli Usa: promotori di pace e di risoluzione diplomatica dei conflitti.
Negli ultimi mesi, tramite la Sanders Academy, Sanders aveva manifestato l’interesse a costruire alleanze internazionali “di parte”, nell’interlocuzione con personalità quali Ada Colau e Yanis Varoufakis. Non è detto che sia sufficiente a ritrovare la spinta del 2016, quando Bernie ha avuto quello che in inglese si chiama “momentum”, proprio come il nome dell’organizzazione che ha sostanzialmente contribuito alla popolarità e all’elezione di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna. Oggi è forte delle conquiste di questi anni, in termini di consenso personale e delle politiche che propone. Ma è anche più anziano e difficilmente dovrà sfidare una candidata impopolare quanto Hillary Clinton. Nell’attesa di scoprire se ci sarà “momentum”, in uno dei primi video in cui presenta la candidatura, Sanders ripete lo slogan della campagna del Labour nel 2017: For the Many, Not the Few.
Nel 2016 Sanders aveva cercato di inserire una terza opzione in uno scenario che Nancy Fraser ha definito come lo scontro tra il «neoliberismo progressista» di Clinton e «populismo reazionario» di Trump. Oggi la posta in gioco è differente. La terza opzione che il sistema elettorale bipolare statunitense non prevede, ha cercato in questi anni altre strade per imporsi. Si è strutturata, ad esempio, l’organizzazione di Our Revolution, la piattaforma che ha la missione, stando alle parole di Sanders, di «eleggere candidati progressisti dai consigli scolastici al Senato», tramite un uso importante dei social media,una rete di intellettuali, opinionisti e gruppi collaterali alle campagne politiche per a influenzare l’opinione pubblica, egemonizzare l’opposizione a Trump e il Partito democratico. Our Revolution deve oggi compiere uno scarto di qualità.
Oggi Sanders ribadisce che solo tre anni fa le sue proposte erano giudicate minoritarie e folli, mentre oggi sono supportate dalla maggioranza degli americani. Un’esagerazione? Probabilmente sì, ma l’iperbole è conseguente alle premesse del discorso di candidatura di maggio 2015: «Quella che inizia oggi è una rivoluzione politica per trasformare l’economia, la società e la coscienza ecologica degli Stati uniti d’America. Un messaggio deve risuonare forte e chiaro ‘Quando è troppo è troppo!’». La posta in gioco in questa corsa
Dunque, il discorso che annuncia la nuova candidatura è una chiamata alle armi: diretta, decisa, ispirata. Perché non basterà, come e non è bastato nemmeno l’ultima volta, influenzare il programma dei democratici fino a farlo diventare «di gran lunga la piattaforma più progressista della storia», come disse Sanders alla Democratic national convention che indicò Clinton candidata contro Donald Trump. Durante gli anni, e persino nelle recenti candidature, in molti e molte hanno sposato la visione che quella piattaforma offriva, ma finché un esponente dell’ala progressista non sarà davvero in posizione di leadership dei democratici, ci sarà sempre il rischio che i rapporti di forza interni al partito arginino la domanda di cambiamento che l’establishment Dem fa finta di non sentire da tre anni. Questa volta non c’è nessun romanticismo, non si tratta di Davide che lotta contro Golia: serve, come dice Sanders stesso, una mobilitazione «senza precedenti», perché è quella che fa la differenza, nella sfida interna e anche in quella per le presidenziali.
Sanders è oggi contemporaneamente l’unico con una storia e un nome abbastanza conosciuti e un’organizzazione di partenza consolidata, due elementi che, soprattutto quando il confronto sui temi si fa difficile nel cuore di campagne elettorali piene di slogan e brevi pubblicità, costituiscono un vantaggio significativo. Ma è anche l’unico, in quanto personalità propellente del movimento progressista, che si è formato dopo la sua candidatura nel 2016, il cui insuccesso significativo (alle primarie o nel confronto con Trump), potrebbe significare un arresto della tendenza alla crescita di popolarità delle idee socialiste e della mobilitazione per esse, oltre che della loro – almeno parziale ed episodica – fortuna elettorale.
Alle presidenziali 2016 la candidatura di Sanders ha rappresentato una giornata (e poi una serie di mesi) emozionante per migliaia e migliaia di persone, non solo negli Usa. Chris Barker, membro del gruppo punk anticapitalista Anti-Flag e parte di una scena normalmente critica verso qualunque forma di politica istituzionalizzata, in un’intervista del 2017 ha paragonato i comizi di Sanders ai festival punk. E’ questa la principale risorsa e allo stesso tempo il principale rischio della campagna per il 2020: consiste proprio non in ciò che sarà ma in ciò che è stata.
*Rosa Fioravante, ricercatrice e teaching assistant alla Luiss Guido Carli, autrice e curatrice di Bernie Sanders. Quando è troppo è troppo! (Castelvecchi 2016, seconda edizione 2018). Collabora con Fondazione Feltrinelli e Acli Lombardia.
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