
Ritratto della rabbia statunitense
Beef (Lo scontro) è una serie Netflix che racconta l'escalation grottesca di vendette tra un operaio in bolletta e una gallerista affermata. Non c'è lotta di classe ma molto rancore
Beef, nuova serie Netflix in dieci episodi di A24, ha molto da offrire. La premessa è avvincente, con due protagonisti carismatici, Steven Yeun (Minari, The Walking Dead) nei panni dell’operaio in bolletta Danny Cho e Ali Wong (Always Be My Maybe) in quelli della ricca imprenditrice Amy Lau, incastrati in una faida crescente dopo essere stati coinvolti in un incidente stradale a Los Angeles.
Sembra giusto che questo incidente non comporti neanche a una piega del paraurti: non c’è collisione, per quanto lieve, tra il vecchio camioncino rosso sovraccarico di Danny e il Suv bianco scintillante di Amy. Distratto dalla sua stessa miseria, Danny cerca di uscire da un parcheggio e gli viene suonato il clacson con un’aggressività a tutto volume da Amy, ancora invisibile dietro i vetri oscurati. Lei lo sconvolge, lui cerca di inseguirla nel tipico traffico da far rizzare i capelli di Los Angeles, e questo è l’inizio di tutta la folle trafila. È un buon modo per illustrare la maniera in cui vivono le persone: in un calderone bollente di pressione e disprezzo siamo tutti pronti a scoppiare al minimo screzio.
Inizialmente, la classe sembra il fulcro dell’antagonismo. Certamente, sono stata dalla parte di Danny fino in fondo, perché dopotutto chi è che ha un sacco di soldi per ammorbidire ogni spigolo di questo mondo orribile fatto di nient’altro che di spigoli? Non Danny.
In realtà è solo un aspirante lavoratore, più simile a un tuttofare al verde con sogni grandi e ansiosi, che lotta per pagare le bollette e ottenere qualsiasi tipo di incarico professionale facendo riparazioni per ricchi tipi di Los Angeles che lo disprezzano apertamente (Sente per caso dalla moglie di un cliente: «Licenzialo e basta, tesoro! È così fastidioso!»). Vive in un appartamento schifoso con il suo fratello minore nullafacente, Paul (Young Mazino), e ha promesso di racimolare abbastanza soldi in qualche modo per riportare indietro i suoi anziani genitori dalla Corea del Sud. La sua vita è un incubo di preoccupazioni finanziarie e tentativi disperati di creare una facciata di felicità e successo, che non inganna nessuno.
Il creatore-sceneggiatore-regista-produttore dello serie Lee Sung Jin (Tucca e Bertie, Dave, Silicon Valley) ha dichiarato che inizialmente aveva pensato di far scontrare l’immigrato coreano Dan con un ricco ragazzo bianco statunitense, ma ha deciso di non enfatizzare l’ostilità razziale. Entrambi i personaggi principali sono asiatici-americani, sebbene la serie approfondisca le specificità dei loro background molto diversi all’interno di quella vasta categoria. Amy è cinese americana e così guidata e tormentata dalle aspettative di eccellenza che è in uno stato di rabbia soffocata per la maggior parte del tempo. Questa è la cosa fondamentale che ha in comune con Danny, il che creerà un legame contorto tra di loro. Entrambi sono «stanchi di sorridere» in mezzo ai guai, trovano una gioia proibita nell’odio espresso direttamente.
Amy gestisce un impero di piante curate, incluso uno di quei terribili negozi che sembrano mostre, in cui ogni pianta ridicolmente costosa e in vaso prezioso viene presentata come un’opera d’arte separata. Sta per concludere un affare multimilionario vendendo l’intera attività a un mostro enormemente ricco di nome Jordan Forster (Maria Bello). Facendo i salti mortali cerca di convincere Jordan a concludere l’accordo, si sente perennemente in colpa per non aver trascorso abbastanza tempo con la sua amata figlia, June (Remy Holt), e il «gentile» ma incapace marito casalingo Joji «George» Nakai ( Joseph Lee), artista irrimediabilmente privo di talento che tira fuori sempre aforismi New Age. È anche gravata dalla suocera Fumi (Patti Yasutake). In breve, Amy sta crollando sotto la tensione. Ma la sua angoscia sta emergendo dalle relazioni personali e dagli sviluppi della carriera, molto diversi dalle difficoltà materiali di base di Dan alla base dei suoi disordini familiari.
Tuttavia, man mano che gli episodi vanno avanti, la serie si concentra sempre di più sulla comunanza tra Danny e Amy, anche se i loro furiosi atti di vendetta sfuggono al controllo e trascinano le loro famiglie e i loro colleghi in conseguenze spaventosamente negative. Lee Sung Jin sembra propenso a conclusioni umanistiche generali, afferma nelle interviste che la serie in definitiva parla di «quanto sia difficile essere vivi».
E dopotutto, alla fine – problemi di classe a parte – Danny e Amy non sono solo esseri umani imperfetti intrappolati in una società malfunzionante che li mette l’uno contro l’altro? Sicuro. Certo, certo, certo. Chiaro. Ma a volte mi stanco abbastanza della quasi inevitabile mossa «problemi di classe a parte» che vediamo nell’intrattenimento popolare. La serie fa di tutto per chiarire che entrambi hanno fatto cose molto brutte in passato, entrambi ingannano e tradiscono le loro famiglie, entrambi conducono vite emotive inquietanti e segrete, entrambi gravitano avidamente – persino eroticamente – verso la violenza vendicativa. Questa insistente equivalenza mi ricorda le vecchie «fantasie di classe incrociata» realizzate nell’era della Depressione per aiutare a reprimere la rabbia del tutto giustificata della classe operaia sempre più impoverita contro l’élite ricca.
Commedie stravaganti come It Happened One Night (1934), My Man Godfrey (1936), Easy Living (1937) e Bachelor Mother (1939) erano meravigliosamente schematiche nell’accoppiare una persona ricca con una persona della classe operaia in difficoltà, mostrando come ognuna avesse un fascino insolito e cose da insegnarsi a vicenda. Non sono entrambi – persona ricca e persona povera – eccentrici e comicamente imperfetti, eppure così adorabili? Non stanno insieme perfettamente per creare un’unione più perfetta? Non c’è ragione per odiare una parte più dell’altra, non c’è bisogno di folle armate di torce qui!
Sebbene Beef non abbia nessuna delle qualità esilaranti, ottimistiche e utopiche della commedia stravagante, condivide una certa logica fantasy interclassista, ma in forma di dramma oscuro. È uno spettacolo spiacevole, davvero. Poi di nuovo, viviamo in una cultura profondamente sgradevole, ed è naturale sottolinearlo.
Ed è anche una produzione ben fatta con un fascino da disastro ferroviario che rende difficile smettere di guardare una volta che inizi. La serie sarebbe dovuta durare otto episodi anziché dieci: alcuni ritmi narrativi iniziano a diventare prevedibili man mano che la faida si intensifica. Tuttavia, lo slancio irregolare dello spettacolo regge abbastanza bene da spingerti al tanto discusso gran finale in catastrofe, seguito da passi traballanti verso il riavvicinamento e la possibile redenzione.
Una polveriera di crescente alienazione che finalmente esplode in un incontro casuale con uno sconosciuto: davvero una storia per i nostri tempi.
*Eileen Jones è critica cinematografica di Jacobin e autrice di Filmsuck, Usa. Cura anche il podcast Filmsuck. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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