
Scafisti per caso
La criminalizzazione dei migranti assume tratti spesso dimenticati: come la condanna per i malcapitati che vengono messi dai trafficanti a guidare i barconi. Capri espiatori della Fortezza Europa
La campagna politica, mediatica e giudiziaria di criminalizzazione delle migrazioni prosegue da anni, si tratti di colpire le persone migranti o quelle che le aiutano. La crociata contro il soccorso in mare ne è, probabilmente, l’esempio più evidente e conosciuto.
In questo contesto generale e trasversale di criminalizzazione, c’è però un aspetto che fatica a trovare spazio nel dibattito pubblico, nonostante la sua estrema pervasività e drammaticità. Si tratta dei «presunti scafisti», ovvero quelle persone migranti accusate di essere trafficanti, nell’inconsapevolezza generale.
La cronaca giudiziaria delle ultime settimane ci offre uno spunto terribilmente significativo al riguardo. La Corte di Cassazione ha infatti confermato, lo scorso due luglio, la condanna a trent’anni di reclusione dei calciatori libici accusati, insieme ad altri, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, nonché della morte di 49 persone, in quella che è diventata tristemente nota come la strage di Ferragosto, risalente al 2015. Gli accusati si sono sempre detti innocenti ed estranei all’organizzazione della traversata, dichiarandosi semplici passeggeri in quel viaggio finito in tragedia, vittime di indagini poco accurate, di pregiudizi e della ricerca di un colpevole a tutti i costi.
La loro storia, e quella del loro percorso giudiziario, è stata ricostruita, tra gli altri, da Avvenire, mentre l’organizzazione della società civile Borderline Europe ha cercato di tenere alta l’attenzione sulla vicenda, anche attraverso la realizzazione di una campagna comunicativa. Nonostante questi sforzi, però, la narrazione dominante è stata di tutt’altro tenore, così come l’esito giudiziario del caso.
La criminalizzazione di persone migranti, estranee a qualsiasi forma di organizzazione criminale, ma ritenute colpevoli di essere «scafisti» – trafficanti – è un fenomeno estremamente diffuso. Come emerge dalle ricerche e dalle inchieste sull’argomento, tra le quali si può ricordare il report realizzato nel 2017 dalla stessa Borderline Europe, esiste una prassi investigativa piuttosto consolidata. In occasione di ogni sbarco, la polizia giudiziaria si mette alla ricerca di chi ha condotto l’imbarcazione, di chi ha fornito indicazioni con la bussola o chiamato i soccorsi. Si raccolgono immagini e testimonianze, nonostante queste persone si trovino in stato di forte stress psicologico. E così, da un lato, accade che i testimoni si confondano, mentre, dall’altro, le persone accusate di essere scafisti, anziché dichiarare da subito il loro coinvolgimento, seppur forzato, provano a mentire, cadendo in contraddizione e minando la propria credibilità. Accade anche che la raccolta di informazioni avvenga in assenza di interpreti e mediatori culturali, così come che venga offerto qualcosa in cambio della testimonianza – come ad esempio la promessa di un permesso di soggiorno – e che spesso vengano scelte come possibili testimoni persone ad alto rischio di espulsione, facendo leva sul loro desiderio di rimanere da questa parte del Mediterraneo.
Il ruolo giocato da alcune procure siciliane in questi anni sul fronte della criminalizzazione delle migrazioni è stato ed è di primo piano, come ci ricordano i numerosi casi che riguardano le organizzazioni del soccorso in mare, e che, nel tempo, hanno finito con il coinvolgere anche giornaliste e avvocati. La questione dei presunti scafisti non fa che confermare questa situazione, nell’ambito di un approccio investigativo, coordinato dall’alto, che nel corso del tempo ha mostrato tutti i suoi limiti e criticità. A differenza della vicenda delle Ong impegnate nel soccorso in mare, però, in questo caso i teoremi investigativi sono spesso confermati nelle aule dei tribunali.
Il problema di fondo che emerge – e al quale il lavoro di Borderline Europe e qualche altra pubblicazione dedicano molto spazio – è che, al di là delle pratiche investigative utilizzate, questo approccio ignora evidenze empiriche oramai da tempo assodate. Focalizzandoci nello specifico sulla rotta libica del Mediterraneo centrale, in primo piano in questi ultimi anni, risulta manifesta, da un lato, l’esistenza di strutture criminali organizzate in territorio libico, che gestiscono non solo i campi di prigionia e le partenze, ma anche i pull-back, spesso con complicità para-istituzionali, quali quelle della cosiddetta guardia costiera libica. Dall’altro, però, emerge anche l’estrema rarità dell’ipotesi che, su questa rotta, qualche membro dell’organizzazione criminale si occupi direttamente della traversata, come peraltro rilevato anche da alcuni uffici giudiziari (seppur in maniera piuttosto controversa e discutibile, inserendo in questo discorso anche le solite accuse all’indirizzo delle Ong del soccorso in mare).
A condurre l’imbarcazione e a fornire assistenza, sono quasi sempre persone migranti, alle quali viene imposto di svolgere questo ruolo, sotto la minaccia di morte, di violenza fisica o anche solamente di restare a terra – con tutto ciò che questo comporterebbe nella Libia di oggi. A volte viene semplicemente detto loro di fare così; in altri casi possono anche ottenere un prezzo di favore per la traversata. Qualunque sia la situazione, però, lo spazio per l’assunzione di una decisione libera e autonoma è estremamente limitato, proprio a causa della costrizione psicologica e materiale in cui si trovano queste persone, non solo per quel che accade al momento dell’imbarco, ma ancor di più per quello che è accaduto prima, durante la loro permanenza in Libia. Ciononostante, gli innumerevoli procedimenti penali a carico di questi presunti scafisti si concludono spesso con una condanna. E, anche in caso di assoluzione, questa in genere arriva dopo anni di custodia cautelare in carcere.
A titolo di esempio, si pensi al caso della causa di stato di necessità, riconducibile alle minacce subite dai presunti scafisti e che escluderebbe la loro punibilità nell’ambito di un processo penale. Questa scriminante viene difficilmente riconosciuta in sede giudiziaria, con motivazioni che finiscono con il tradire la scarsa comprensione del fenomeno migratorio nel suo complesso. Il Tribunale di Messina, ad esempio, nel 2019 ha condannato un presunto scafista (poi assolto in appello) rilevando che: «È da escludere che l’imputato abbia assunto il ruolo di conducente dell’imbarcazione perché sottoposto a minaccia, essendo inverosimile che l’organizzazione criminale […] abbia affidato ad un soggetto del tutto inesperto ed istruito sul momento la conduzione del gommone per una lunga traversata, con il rischio di perdere il carico umano, con conseguente danno economico ed all’immagine dell’‘impresa criminale’ e con pregiudizio per la possibilità di affari futuri». Un ragionamento facilmente riscontrabile anche in altre sentenze di condanna e che si pone in aperto contrasto con i dati empirici disponibili.
Spostandosi su un ulteriore livello di complessità, risulta però chiaro che tutto ciò avviene perché, al di là delle pratiche investigative e giudiziarie, e della mancata comprensione delle dinamiche del processo migratorio, a monte c’è un sistema che non funziona, incentrato sulla chiusura delle frontiere e la militarizzazione dei confini. Qui c’è in primo luogo una dimensione normativa e di policy, che ha naturalmente un peso enorme su quel che accade nelle aule di giustizia. Il quadro derivante dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione e dalla Facilitation Directive europea lascia un’ampia zona grigia di criminalizzazione di chiunque sia coinvolto, a qualunque titolo, e anche senza alcun beneficio materiale, nel favorire l’attraversamento irregolare di una frontiera di un cittadino di un paese terzo. Un sistema strutturato in questo modo, più che finalizzato a colpire il traffico di migranti, sembra servire da strumento di controllo dei movimenti attraverso le frontiere – e non a caso, oltre ai presunti scafisti, finisce con l’essere criminalizzato anche l’aiuto umanitario.
Il che ci porta a una seconda dimensione, ancor più intrinsecamente politica, che si sostanzia nella costante ricerca di un colpevole, di un capro espiatorio che legittimi le scelte politiche di chiusura, controllo e militarizzazione dei confini, così come di sostegno a strutture quali la cosiddetta guardia costiera libica. In altre parole, la ricerca di un colpevole per ogni traversata – e, ancor di più, per ogni naufragio – serve a rafforzare quella retorica di una lotta senza quartiere ai trafficanti che, oltre a funzionare come processo di autoassoluzione collettiva, diventa il più pericoloso alleato delle più spregiudicate decisioni politiche. Chiudere i porti, perseguitare le organizzazioni del soccorso civile, finanziare soggetti che operano nel pieno disprezzo dei diritti umani: tutto diventa legittimo (o quasi) se è giustificato dall’intento di sottrarre le persone migranti dal pericoloso «business del traffico». L’immagine, plastica, di un colpevole in manette è pedina fondamentale in questo schema. È per questo che anche la soluzione stessa non può che essere politica, e passa per una modifica della legislazione esistente, con varie opzioni e conseguenti livelli diversi di incisività, dal semplice riallineamento della legislazione italiana alla normativa internazionale (che punisce il traffico di migranti solo quando vi è un elemento di profitto), alla previsione di gradi più marcatamente differenziati di responsabilità per le varie figure coinvolte nella traversata ma esterne all’organizzazione, fino a una esplicita esimente di responsabilità e all’applicazione di clausole di protezione per i presunti scafisti, riconoscendone non solo l’estraneità al disegno criminale, ma anche le violenze – fisiche e psicologiche – che spesso sono costretti a subire.
*Federico Alagna si occupa di ricerca sulle politiche migratorie europee ed è attivo in vari contesti di impegno politico e sociale, in particolare sul fronte del municipalismo e del diritto alla città, in Italia e all’estero. Fa parte del movimento Cambiamo Messina dal Basso ed è stato assessore alla cultura di Messina tra il 2017 e il 2018.
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