
Scene di suprematismo bianco nella lunga quarantena argentina
Da oltre 120 giorni l'Argentina è stretta da un rigido lockdown per contrastare il virus. In questo contesto sta emergendo una destra razzista, sessista e classista che prova a cavalcare il malcontento della classe media in difficoltà
L’Argentina è stretta da più di centoventi giorni da una rigidissima quarantena attraverso la quale le autorità governative e il presidente Alberto Fernández stanno cercando di evitare ciò che è accaduto in Brasile, Cile e Perù, ovvero il dilagare incontrollato del Covid-19. L’impossibilità di eseguire tamponi su larga scala ha indicato che l’unica misura efficace contro la diffusione del virus, soprattutto nelle grandi città del paese, è la quarantena totale. L’economia argentina è già provata da una crisi cominciata nel 2017, per la quale il governo di Buenos Aires è ricorso al Fmi e la chiusura delle attività commerciali e industriali non strategiche ha attirato le critiche degli imprenditori, già alle prese con la recessione. Almeno il 40% delle imprese (quelle ritenute strategiche – ma non sono mancate le pressioni dell’Unión industrial perché fossero molte di più) ha continuato a funzionare e molti lavoratori hanno continuato a muoversi per recarsi al lavoro.
Dal 20 marzo, quando il governo ha decretato la serrata, soprattutto nell’area metropolitana di Buenos Aires (nella quale vivono sedici dei quasi cinquanta milioni di cittadini) la cuarentena obligatoria y preventiva ha assunto significati profondamente politici. Per una parte della popolazione, quella più legata al peronismo, si è trasformata nel simbolo manifesto del buon governo e in molti hanno cominciato a «militar la cuarentena», arrogandosi il diritto di far rispettare le norme sanitarie ai malcapitati passanti, vicini e così via, mentre per l’opposizione di centrodestra, essa è diventata l’emblema della restrizione delle libertà individuali e d’impresa. In questo modo, nelle settimane passate, per una crescente parte del paese ogni atto di indisciplina e inosservanza delle misure sanitarie si è trasformato in una sorta di opposizione manifesta al governo, in una «salutare» espressione di libertà.
Nel corso degli ultimi cento giorni il paese ha assistito al limitato proliferare del virus e, in ragione di questo dato, al diffondersi dell’idea che le misure di lockdown fossero sproporzionate rispetto al reale rischio. In questo modo una parte dell’opinione pubblica ha sollevato il dubbio che le restrizioni delle libertà individuali fossero la prova generale di un «golpe blando», il coronamento del progetto peronista di distruggere la democrazia liberale.
Al di là di come si leggano questi lunghi e difficili giorni di quarantena, il dato che emerge con grande chiarezza, qui come altrove, è l’acuirsi delle disparità sociali. Disparità tra chi ha potuto mantenere il posto di lavoro tramite smart working e istruirsi via internet, e quell’esercito piccolo e grande di chi non è più potuto uscire a «buscarsi la vita» tramite le changas, l’arte d’arrangiarsi. Così è esplosa quella stridente differenza, oramai sedimentata, tra ricchi e poveri, tra gli abitati dei barrios bene di Buenos Aires e quel sottoproletariato che vive nelle estese baraccopoli nate a ridosso alle zone ricche della città e dell’area metropolitana.
Anche questo è uno dei volti dell’Argentina, paese che si rifugia nell’immagine romantica e sgarrupata dei perduti fasti di inizio Novecento, consumato da una dozzina di crisi economiche e il ricordo languido dell’epoca in cui Gardel cantava nelle milonghe. Ma non è l’unica dualità che vive il paese: l’altra, forse meno evidente, è quella che corre tra la sua sgargiante e cosmopolita capitale e l’interior, un territorio vasto come mezza Europa nel quale vive poco meno della metà della popolazione. La colta Buenos Aires, adagiata sul Plata, volge le spalle al resto del paese, guardando all’Europa, alle sue mode e stili di vita e ignorando i problemi delle regioni meno sviluppate, degli agricoltori, delle masse di migranti interni e latinoamericani che premono per trasferirvisi. Così si rinnova quotidianamente uno dei paradossi della città: enclave bianca in un continente meticcio, capitale dei traffici commerciali, della pizza e delle delicatessen, secondo il regista Pino Solanas a Buenos Aires «un gaucho è esotico come a Londra o a Parigi».
In tempi di Covid-19 la distanza che corre tra la capitale e il resto del paese, o tra i capoluogo di regione e le località rurali, si è ancora di più accentuata, svelando quella differenza di classe a cui gli argentini preferiscono non prestare troppa attenzione: quella tra gli abitanti bianchi dei principali centri urbani, in buona misura discendenti dagli europei emigrati tra Otto e Novecento, e il resto del paese, molto più meticcio e negro di quanto si possa e si voglia dire. La classe media dei centri urbani ha storicamente costruito un racconto rassicurante di sé che la vedrebbe «discendere dai piroscafi». Questo auto-racconto sottende spesso il tentativo di porre un limite razziale tra un «noi» euro-discendente e un «loro» nel quale vengono confinati los probres indígenas. L’Argentina bianca e urbana è il paese che ha cancellato la comunità afro-discendente e ha mascherato il suo lato latino, aspirando al titolo di Parigi del Sudamerica. Non è difficile imbattersi, parlando con un porteño, in stereotipi sui migranti dei paesi limitrofi, apostrofati come «latini», quasi l’Argentina fosse un continente, un’isola a metà tra le Americhe e l’Europa. Questa alterità sovente si declina non solamente nei confronti dei migranti, ma anche verso quella parte della popolazione morocha che non coincide coi canoni estetici e sociali dominanti.
Negli ultimi cento giorni, per cercare di tamponare l’esplosione della questione sociale, proprio i settori popolari sono stati oggetto di sussidi e ammortizzatori sociali necessari per poter assicurare una sussistenza minima. Tali misure sono state percepite con irritazione da parte della classe media che durante la quarantena ha guardato inerme il dissolversi dei propri risparmi e la chiusura delle attività commerciali. Anche sulla scorta di questo malcontento è cominciata a montare sui social una campagna basata su fake-news, odio di classe e anticomunismo che agita in maniera goffa e spesso ridicola il sospetto che dietro il lockdown si celi il piano segreto del governo peronista di cancellare una volta per tutte i diritti individuali e instaurare un regime sul modello del Venezuela di Maduro.
Nella cronaca degli ultimi giorni si è poi legato a questo clima di «allerta democratica» il tentativo da parte del governo di espropriare un’impresa, la Vicentin, al centro di un giro di riciclaggio di dollari dall’Argentina verso l’estero. Questa vicenda ha dato la possibilità a una parte del paese di rivendicare l’inviolabilità della proprietà privata e il ruolo dimesso dello Stato nel regolare l’economia del paese, mentre il mondo sindacale ha affermato la necessità di socializzare l’impresa e dare così una risposta all’endemico problema della malnutrizione.
Il «banderazo nacional» ovvero la bolsonarizzazione della destra argentina
Il nove di luglio di ogni anno si festeggia il giorno dell’indipendenza dell’Argentina, avvenuta nel 1816. La festa nazionale è l’occasione per riflettere sul processo di emancipazione dalla madrepatria e sulla formazione del moderno Stato nazionale. Quest’anno, invece, il nove di luglio ha assunto un altro significato. Nonostante le raccomandazioni delle autorità avessero indicato la necessità di limitare il più possibile gli spostamenti e gli assembramenti, in diverse città dell’Argentina centinaia di persone si sono riunite per manifestare la propria opposizione alle politiche governative riferite al Covid-19.
In diverse piazze del paese si è assistito al manifestarsi di un articolato micro-mondo di complottisti, molto simili ai sostenitori del generale Pappalardo, che al grido di contra la infectadura hanno sfidato, con mascherine ma senza distanza di sicurezza, le prescrizioni mediche.
Prima del nove luglio le piazze dell’Argentina si erano già riempite di manifestanti anti-quarantena. Sulla scorta delle teorie cospirazioniste che circolano sul web e trovano nelle Americhe due baluardi dell’approccio anti-scientifico come Donald Trump e Jair Bolsonaro, i manifestanti argentini si sono sentiti meno soli nella loro crociata «per la libertà» e, nel caso dei più esaltati, contro «Bill Gates e il nuovo ordine mondiale».
Nonostante la schiacciante quantità di informazioni a disposizione, in diversi strati della società serpeggia un atteggiamento scettico rispetto al Covid-19 e assolutamente ostile nei confronti del governo che starebbe «svuotando la democrazia con la scusa della pandemia». L’esercito occulto che si è riversato in piazza è cresciuto progressivamente tramite il tam tam mediatico e le chiassose manifestazioni che hanno scandito i cento giorni di quarantena, i cosiddetti cacerolazos. Si tratta di sciàrivarì, performances chiassose, durante le quali centinaia di persone percuotono pentole e casseruole manifestando il dissenso di quella cittadinanza silenziosa che solitamente non scende in piazza. Se proiettassimo su un grafico il numero e l’intensità delle manifestazioni delle ultime settimane e lo confrontassimo con il totale di casi registrati potremmo constatare che all’aumentare dei casi e dei morti corrisponde una sempre più netta negazione della malattia.
Ho avuto modo di osservare da una città di provincia, Santa Fe, capoluogo dell’omonima regione, circa seicentomila abitanti tra il centro e l’area metropolitana, lo svolgersi del «banderazo nacional». Anche se la manifestazione di piazza è stata, tutto sommato, modesta, vi sono alcune questioni che, catalizzate dalla manifestazione, vale la pena affrontare. In primo luogo, in quella folla celeste e azzurra di manifestanti che a suon di pentole e di clacson si è fatta strada fino alla centrale Plaza de Mayo, non vi era la massa di creduloni o disperati che abbiamo visto raccogliersi attorno a Pappalardo e neppure agli adepti evangelici che accompagnano Bolsonaro, vi era l’esercito composto ed elegante dei colletti bianchi, degli imprenditori, della perennemente scontenta classe media argentina.
Il carattere bianco, colto e abbiente dei manifestanti ha rotto con l’idea che mi ero fatto dei contestatori della quarantena: una fetta della popolazione che, per il basso livello di istruzione e accesso a internet, scambia i propri desideri e la propria visione delle cose con la realtà. Invece, passeggiando ai lati della piazza, a debita distanza, ho potuto assistere alla sfilata delle signore bene, delle automobili importate, dei 4×4 dei latifondisti che vivono attorno a Santa Fe. Proprio questa particolare conformazione di classe e colore ha fatto sì che la manifestazione s’accendesse attorno ad alcuni temi cari alla destra argentina: l’eliminazione dei sussidi sociali, la persecuzione politica del peronismo e dell’attuale vicepresidenta Cristina Kirchner, coinvolta in diversi processi per corruzione.
Tra i cartelloni portati in piazza spicca quello incollato sul lunotto posteriore di un’automobile «fase 1: fucilare i politici, fase 2: fucilare i sindacalisti, fase 3: l’Argentina decolla», oppure il motto «non diventeremo l’Argenzuela». Il filo rosso che unisce i manifestanti è il revival di alcuni capisaldi in auge durante la Guerra fredda: la necessità di salvare l’occidente cristiano dal «marxismo culturale», dalle «feminazi», dalla legalizzazione dell’aborto e dal «populismo». La piazza argentina del nove luglio, come non potrebbe essere altrimenti, è un disordinato e chiassoso guazzabuglio di concetti e idee, grida e bandiere, aggressioni a giornalisti e tifo da stadio. In questo contesto in molti ci siamo chiesti quale sia stato il ruolo dell’opposizione e della oramai al tramonto figura dell’ex presidente Mauricio Macri, simbolo della destra moderata e imprenditoriale.
Pochi giorni prima delle manifestazioni di piazza, durante un webinar proprio l’ex presidente si è riferito alle misure anti-pandemia come al tentativo di istaurare un «autoritarismo soft» e marciare diretti contro le libertà personali. Le dichiarazioni di Macri hanno infiammato quella parte dell’opinione pubblica che non si riconosce nel governo peronista, legittimando manifestazioni che hanno messo a rischio la salute pubblica.
A partire da questa constatazione vale la pena riflettere sul ruolo che la tanto decantata destra liberale e antipopulista ha assunto in Argentina. Spaventata dal protagonismo del governo e dai discreti risultati ottenuti con la gestione della propagazione del virus, essa si sta vedendo costretta a pescare consensi in quel sottobosco di fake-news e racconti negazionisti per rinsaldare una leadership oramai al tramonto. In questo modo una fetta di quell’Argentina per bene, educata e formata, sta abbracciando discorsi e immaginari del tutto incompatibili con la propria auto-rappresentazione razionale e liberale. Così torna la nostalgia per l’epoca in cui a Buenos Aires vi erano più italiani che popolazioni indigene, per le statue di Colombo, provvidenzialmente rimosse nel lontano 2012, per tutto ciò che allontana l’Argentina dal continente e la lega alla sua storia di «estremo occidente». Dal nostro punto di vista, osservatori europei dei fenomeni latinoamericani, il dato è sicuramente preoccupante. Organizzazioni come la Fundación por la Libertad, che riunisce intellettuali di tutto il mondo ed ex presidenti di centrodestra, stanno contribuendo alla polarizzazione tra scienza e fake-news, tra i sostenitori del complottismo mondiale e i governi della regione che, proprio per i danni fatti dal neoliberalismo ai sistemi di salute negli anni Novanta, oggi affrontano questa sfida senza le dotazioni necessarie. Così, mentre il governo di Buenos Aires si appella al senso civico della popolazione, la destra «liberale» soffia sul fuoco mostrando il suo vero volto: bianco, razzista, sessista e classista.
*Camillo Robertini è uno storico italiano, ricercatore e docente presso l’Università di Buenos Aires. È autore per Le Monnier di Quando la Fiat parlava argentino. Una fabbrica italiana e i suoi operai nella Buenos Aires dei militari, (2019).
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