
Se ci fermiamo
Uno sciopero è scontro ma al tempo stesso costruzione di alternativa e socializzazione. L'editoriale del nuovo numero di "Jacobin Italia", dal 21 febbraio in libreria.
E oggi il 24 aprile 1970 / è giorno di sciopero: l’Ordine degli Scopini / è entrato nella storia; / bisogna essere contenti, come se gli angeli / fossero scesi sulla terra». Le parole di Pier Paolo Pasolini dovevano accompagnare le immagini di un documentario sulla mobilitazione degli spazzini. Il filmato andò perduto, ci sono rimasti i versi che testimoniano il benvenuto del poeta ad alcuni lavoratori nella grande epopea della lotta di classe. Pasolini riconosce un elemento decisivo: attraverso lo sciopero una massa di individui atomizzati diventa corpo collettivo. Si costituisce come soggetto storico. Il che equivale a dire che prima di chiedersi se una lotta abbia vinto dovremmo prendere atto che questa sia avvenuta, che un evento sia arrivato a mutare l’equilibrio delle cose e cambiare la disposizione degli attori in campo.
Col primo numero di Jacobin Italia abbiamo proposto il tema introduttivo (forse spietato, di certo non disarmato) su cosa significasse «vivere in paese senza sinistra». In questo numero ci occupiamo dello sciopero, cioè di una delle pre-condizioni di un’azione politica che non si limiti a raccogliere a valle le domande sociali o che non pensi, secondo l’inquietante utopia liberale, di organizzare individui in quanto individui.
Uno sciopero è scontro (non esiste sciopero senza una controparte) ma al tempo stesso costruzione di alternativa e socializzazione. Purtroppo si sciopera di meno e peggio, nel senso che è sempre più difficile danneggiare chi detiene il potere e farsi sentire. Ne parlano Francesco Massimo e Lorenzo Zamponi, raccogliendo le voci dei soggetti diversi che in questi anni organizzano i lavoratori e le lavoratrici. Emerge, in diversi modi, l’esigenza di allargare le forme della lotta sui luoghi di lavoro per eccellenza. Nell’era della frammentazione produttiva e del dominio dello spettacolo, lo sciopero funziona quando riesce a estendere il suo impatto materiale e simbolico al di fuori dei confini dati. A patto che l’operaio massa maschio e bianco sia mai stato veramente il soggetto egemone (ne dubitano David Broder e Giacomo Gabbuti), bisogna partire dalla presa di coscienza che la produzione è andata oltre i confini della fabbrica.
Ci servono scioperi di nuovo tipo. Ne sono convinte le femministe di Non Una di Meno che hanno indetto lo sciopero femminista globale dell’8 marzo. «Pensiamo che uno sciopero, articolato in vari modi anche inediti, sia lo strumento più potente che consente la sottrazione dal lavoro produttivo e riproduttivo», dicono nell’appello che lancia la giornata. Bisogna proiettarsi nel nuovo scenario riprendendo la sfida delle origini, testimoniata dall’etimologia della parola sciopero in alcune lingue europee (ne scrive Gaia Benzi) e attraversata dalle tante modalità di scioperare, che passiamo in rassegna. Proprio del nodo della riproduzione sociale, e di uno sciopero che coglie la sfida di sottrarsi dallo sfruttamento e al tempo stesso rilanciare costituendosi come comunità in lotta che si prende cura di sé stessa oltre le gerarchie imposte e i ruoli dati, parlano Sara Farris e Marie Moïse. Si tratta di rivendicare un femminismo per il 99%, che vada alla radice delle disuguaglianze e dello sfruttamento dicono Cinzia Arruzza, Nancy Fraser e Tithi Bhattacharya nel loro Manifesto di cui anticipiamo un brano. E bisogna calare le lotte di classe dentro la linea del colore e dei conflitti di genere. Di questo Francesca Coin è andata a discutere con Kimberlé Crenshaw, che ormai anni fa ha elaborato il concetto di intersezionalità. Dello sciopero intersezionale fornisce una testimonianza Wissal Houbabi, donna, lavoratrice e migrante di seconda generazione.
Dicevamo dell’aspetto simbolico: Selene Pascarella ripercorre le influenze del nuovo movimento femminista sul linguaggio del principale agente di produzione di immaginario dei nostri tempi: le serie tv. Come racconta Inés Campillo Poza l’anno scorso, in Spagna, lo sciopero dell’8 marzo ha bloccato pezzi di paese e aperto uno spazio pubblico alternativo all’ondata reazionaria. Ancora, nuove lotte si vanno diffondendo a partire dai luoghi di lavoro sparsi sul territorio. Lo spiegano Marta e Simone Fana e lo scrive Marco Marrone a proposito della lotta dei rider bolognesi, quei lavoratori che si muovono con un piede dentro alla piattaforma digitale che li comanda e l’altro per strada a consegnare pasti. Di uno sciopero che irrompe per le strade di una città, e che permette a lavoratori e lavoratrici di guardarsi negli occhi parla il racconto di Simona Baldanzi. Nell’inserto, curato e introdotto da Assia Petricelli, quattro tavole per quattro storie a fumetti di scioperi al femminile. Il primo è narrato da Rita Petruccioli, è avvenuto l’8 marzo di oltre cent’anni fa e diede addirittura il via alla rivoluzione russa. Poi Sarah Mazzetti racconta di quando le operaie dell’Essex misero in ginocchio la Ford, Sara Colaone di quelle della Valsusa che intrecciarono la loro lotta alla solidarietà di un territorio ribelle e la Tram ripercorre lo sciopero delle donne argentine che ha inaugurato il movimento globale Ni Una Menos.
Infine, un saggio di Kim Moody approfondisce il tema delle forme di lotta. Nell’era della circolazione delle merci e dei capitali, lo sciopero assomiglia a una rivolta urbana? Moody prende sul serio la suggestione, ragiona su come la produzione sia divenuta mobile e cala questo scenario dentro una nuova generazione di scioperi sviluppatasi negli Stati uniti. A proposito di Usa, la sezione della rivista dedicata alla nostra testata sorella si occupa dell’altro corno del problema e affronta di petto il tema delle elezioni presidenziali. Cosa succederebbe se davvero Bernie Sanders dovesse vincere nel 2020? La partita è aperta ma difficile e piena di contraddizioni, in palio c’è la questione non scontata del rapporto tra stato e trasformazione, tra istituzioni e lotte. Si propone in modalità inedite anche perché proviene dalla parte del pianeta che alcuni non si sarebbero aspettati. È il bello della storia. E testimonia il fatto che gli angeli non smettono di scendere sulla terra.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.