Se gli operai ci insegnano i nostri diritti
Dopo aver scoperto che gran parte di chi racconta la lotta della Gkn lavora in modo precario, il Collettivo di fabbrica ha convocato un’assemblea dentro le mura dello stabilimento rivolta ai e alle giornaliste
Uno degli ultimi contributi scritti da Susan Sontag prima della sua morte è un saggio che racconta il voyerismo dei fotoreporter e il feticcio dell’immagine. La filosofa statunitense accusa i protagonisti della comunicazione di produrre violenze peggiori della guerra stessa: la distorsione della verità. La responsabilità che abbiamo Davanti al dolore degli altri, così si intitola il saggio recentemente ripubblicato da Nottetempo, è un problema etico: l’affidabilità della scrittura, la veridicità di un’affermazione, lo storytelling di una vicenda sono questioni di primo rilievo per chi si occupa di raccontare. Il linguaggio del giornalismo è un sistema rodato e ridondante ma utile a una comprensione strutturata in caselle prefabbricate: se muore un bambino per mano di un adulto in una mattina nebbiosa e umida della pianura padana si tratterà sicuramente di un orco, mentre la giovane ventenne ciecamente innamorata del suo assassino sarà indubbiamente una ingenua ragazzina ignara delle atrocità della vita.
Negli ultimi anni il rinnovato interesse verso il linguaggio ha portato a far fiorire il bisogno di riprendersi le parole (e talvolta anche di risemantizzarle) per riconquistare la narrazione di sé come gruppo sociale nella società e incidere così nell’immaginario collettivo. Ritornare alla cura della descrizione degli avvenimenti della realtà (spesso raccontati in maniera frettolosa e molto impressionista) è quello che hanno cercato di fare in questi mesi le e gli operai della Gkn dove, a seguito di un licenziamento di massa possibile solo nell’isteria del capitalismo contemporaneo, la lotta si è subito declinata in maniera trasversale. Non per caso, ci ha tenuto a sottolineare Dario Salvetti dell’Rsu, «abbiamo chiamato Insorgiamo questa sommossa, un nome collettivo che non accetta nessuna soluzione di comodo, che non vuole che l’azienda sia destinata a morire con dei finanziamenti a fondo perduto ai padroni, che non vuole che si dimentichi della caratura collettiva di un problema come questo e non vuole slegarsi da un’analisi più generalizzata delle condizioni lavorative in Italia».
La settimana scorsa il Collettivo di Fabbrica – Lavoratori GKN Firenze ha convocato un’assemblea rivolta ai e alle giornaliste dentro le mura dello stabilimento, occupato e sorvegliato dagli operai da quando nel luglio scorso con una mail sono stati in 412 a essere licenziati. Le motivazioni, come si può vedere su Facebook, sono le seguenti:
Voi avete osservato noi e noi abbiamo osservato voi. Ci avete visti scocciati, grati, felici, stanchi, nervosi per l’attenzione mediatica. E noi vi abbiamo visti correre, premere, chiedere, magari a tenere con una mano la telecamera e con l’altra il microfono. Abbiamo avuto questi reciproci incontri con ruoli diversi, ma sapendo che in fondo ognuno di noi era lì per provare a sopravvivere, per portare a casa il lavoro. (…) Vi abbiamo chiesto come state perché magari mentre provate a farci raccontare la nostra storia, la vostra situazione lavorativa è silenziosamente uguale o peggiore della nostra. Perché nel vostro settore si annida un grado di sfruttamento – fatto di precarietà, stage, partite iva, service esterni in appalto – potenzialmente uguale o superiore a quello delle nostre fabbriche (…) Abbiamo provato a spiegarvi cosa volevamo comunicare e spesso vi siete messi letteralmente a servizio di questo nostro messaggio. Altre volte invece vi abbiamo visto usare canoni comunicativi, sensazionalisti, alla ricerca dello scoop, che fanno male a noi e, nostra umile opinione, fanno male anche a voi.
L’ansiogeno ritmo della cronaca produce enormi fraintendimenti: avvengono gli incontri tra corpi intermedi e ministero del lavoro e prima ancora che gli operai capiscano cosa gli è stato comunicato i giornali titolano già quale sarà il destino della fabbrica. E per quale motivo ad esempio Gkn è stata largamente raccontata mentre le mobilitazioni dei lavoratori di una fabbrica poco distante, la Texprint SrL, non ha avuto nessuna risonanza mediatica nonostante la sciopero della fame, la denuncia di turni da 12 ore e lo stipendio da fame? Le bolle mediatiche sono spesso nocive per i soggetti interessati ma anche per i giornalisti stessi. È spesso estremamente difficile per i giornalisti riuscire ad avere il tempo per capire l’evento e raccontarlo come il loro lavoro richiederebbe. È complicato perché l’attenzione massima concessa è esigua rispetto alla complessità davanti alla quale si trovano, perché devono seguire i fatti più caldi anche se meno importanti, perché sono costretti in un solo giorno a riconcorrere morti sul lavoro, conferenze stampa e problemi sulla viabilità per poter produrre più materiale possibile da pubblicare. Il lavoro del giornalista è spesso, infatti, un lavoro a cottimo.
Con questo messaggio gli operai della Gkn hanno dimostrato di riconoscere la dimensione collettiva del problema lavorativo, un passo che serve prima di tutto a non alimentare quella lotta tra poveri che non ci permette di percepirci come un corpo collettivo vittima della stessa precarietà. E proprio questo è stato il sentimento che si è respirato quando nella mensa della fabbrica i giornalisti e gli operai si sono seduti dopocena ai tavoli spostati per l’occasione in una disposizione concentrica.
Tantissimi sono stati i giornalisti che hanno preso la parola durante l’assemblea raccontando quello che sembra essere il luogo comune del lavoratore medio nel settore culturale: una vita precaria iniziata con collaborazioni da giovani, spinti dall’emozione di vedere il proprio nome sotto il titolo del giornale al bar, al prezzo però di chiedere ai genitori i soldi per pagarsi la colazione. La soddisfazione si è poi accompagnata a mance quasi simboliche, 10 euro a pezzo, per poi raggiungere la collaborazione coordinata e continuativa e infine guadagnarsi un contratto solo dopo i quarant’anni. Mi sono seduta nel mezzo di queste persone per ascoltare qualcosa che sapevo molto bene, ovvero che nessuno incoraggerebbe una della mia età a fare questo mestiere, a meno che non mi possa premettere il lusso di non essere pagata. Tutti, uno dopo l’altro, aggiungevano la propria storia rendendosi conto di aver avuto percorsi molto simili, e ognuno di loro sottolineava sempre due cose: «mi ha mosso finora la passione e nient’altro» e «grazie per questa occasione, in trent’anni non ho mai preso parte a un’assemblea simile con i miei colleghi». Questi due aspetti sono, credo, i nodi centrali a cui prestare attenzione per capire come mai il mondo culturale e in generale quello dell’informazione faccia molta più fatica a portare avanti rivendicazioni sul salario minimo.
La passione rimane una parola largamente abusata per giustificare il lavoro malpagato. Nessun annuncio di lavoro manca di ricordare la grande passione che deve distinguere il candidato dai concorrenti e lo deve motivare a sopportare otto ore consecutive di lavoro. Eppure, come le testimonianze degli stessi giornalisti ricordano, il mondo culturale è a maggior ragione vittima di questa narrazione tanto da diventarne lui stesso il promotore. Quello che accade non è poi così difficile da cogliere: c’è una diffusa e pervasiva convinzione (frutto anche di una percezione classista) che la cultura sia qualcosa di alto, sublime, il cui fine superiore giustifica la vocazione missionaria dei suoi promotori. In fondo, occuparsi di cultura è un bene già di per sé, qualcosa che, pregno di significato morale, può valicare anche il bisogno di uno stipendio. Ma il nostro lavoro non è più prezioso o meno essenziale di quello di un insegnante o di un impiegato qualsiasi, la passione non può giustificare nessuno sfruttamento e non è neanche prerogativa del mondo culturale, come ha ribattuto uno degli operai in assemblea: «a me completare il lotto di semiassi a fine turno mi da una soddisfazione che non vi dico».
Viene da chiedersi allora come mai i lavoratori di questo settore facciano fatica a promuovere battaglie sul salario. Sottotesto c’è la consapevolezza che il mondo del giornalismo si muove in redazioni piccolissime fatte di rapporti personali in cui muovere una pretesa è il metodo giusto perché il direttore digiti «curriculum» nella sua casella di posta e ti ricordi che alla settimana sono circa una ventina le email che si propongono con questo tipo di allegato. C’è la fila fuori di gente pronta a fare esperienza senza paga, desiderare di lavorare in questo mondo significa accettare in partenza le logiche di sfruttamento che lo contraddistinguono.
Non è difficile immaginare le antipatie interne che tra i vari colleghi si instaurano quando c’è chi, a differenza di te, è considerato un privilegiato semplicemente perché vede i suoi diritti minimi garantiti. L’utilizzo di questo termine durante l’assemblea ha destato non poche reazioni da parte dei giornalisti più anziani che non sopportavano vedere impiegata questa parola da parte dei propri colleghi. Il termine privilegiato rischia infatti di essere altamente fuorviante: continua a proporre la masochistica idea per cui essere salariati dignitosamente è un’eccezione e sembra voler dimostrare un sentimento di riverenza e di colpa per aver ottenuto uno stipendio. Il giornalismo si presenta come un mondo così frammentato da sembrare impossibile svolgere un confronto collettivo come quello che la Gkn sta portando avanti, ma è fondamentale che i lavoratori si riconoscano nelle rispettive difficoltà lavorative ed è piuttosto stupefacente la risposta così partecipativa che ha ricevuto l’invito.
C’è chi ha fatto del ricatto della passione e del senso di colpa che esso produce uno dei cardini della propria rivendicazione sindacale. Ha infatti risposto all’appello anche Acta, l’associazione nata nel 2004 che mette in rete i Freelance: «Free ci racconta la nostra voglia di libertà, indipendenza, autonomia. Lance ci parla di determinazione, fiducia nelle nostre competenze: la lancia per affermarci nel mercato. Ma questo è solo un aspetto del nostro modo di essere: il lato positivo, che Acta ha sempre raccontato, in antitesi con lo stereotipo del precario triste e solitario – si legge sul sito – (…) c’è anche il lato negativo, non possiamo negarlo: essere soli significa essere deboli. Nei rapporti di lavoro e nei confronti di uno Stato che ci considera cittadini di serie B. Da qui nasce la nostra missione. Da qui è nata Acta, per promuovere la coalizione fra tutti i freelance».
Il mondo dell’editoria, dei copywriter, le professioni digitali come i grafici o web designer nuotano in uno stagno lavorativo torbido, spesso sono figure poco chiare nei loro contorni e nei loro diritti e per questo facilmente sfruttabili. La passione a cui si è fatto cenno più volte non può essere un ricatto per chi decide di voler seguire la propria vocazione lavorativa. Non è giusto infatti ritrovarsi, a causa delle leggi del mercato che hanno pervaso il mondo dell’industria culturale, a dover scegliere tra tentare di proseguire un sogno confidando in un aiuto genitoriale per corsi costosi (che non garantiscono un lavoro in futuro) o rinunciarci scegliendo qualcosa di meno appagante ma più sicuro. Un ricatto morale che logora e alimenta un senso di colpa per un’autonomia economica che si raggiunge con grande fatica.
In fondo se davvero il compito è riappropriarci della nostra voce e farne un coro collettivo, se l’obiettivo è allargare gli orizzonti di lotta per creare un’alleanza tra i lavoratori, se il problema è un linguaggio grossolano e una narrazione distorta della realtà allora possiamo davvero insieme risemantizzare la parola passione. La passione che motiva gli operai della Gkn insieme a quella dei lavoratori culturali deve smettere di avere come referente quell’atteggiamento adrenalinico che fa andare avanti nonostante tutto (ciò che di fatto chiedono i datori di lavoro quando parlano di «buona motivazione») e iniziare a essere invece il motore propulsivo per portare avanti una resistenza. La passione come vocazione trainante che ci fa rimanere nella nostra fabbrica, nella nostra casa editrice, nel nostro museo perché non possiamo sottostare al ricatto imposto, dobbiamo utilizzare questa motivazione per pretendere un salario minimo e una vita lavorativa dignitosa. Ce lo hanno chiesto gli operai e noi abbiamo risposto. Insorgiamo, di nuovo, insieme, uniti il 30 ottobre con una nuova manifestazione a Roma.
*Anita Fallani, laureata in lettere moderne, si sta specializzando in letterature comparate e post-coloniali. Attivista, è vicina a questioni sociali come la lotta alla gentrificazione e il femminismo intersezionale. Si occupa di giornalismo culturale e ha collaborato con diverse testate tra cui Il Corriere della Sera.
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