Se il sindacato non impara a comunicare
Per non rinunciare a porsi il tema dell'egemonia nella società, la comunicazione nelle sue varie forme deve diventare una priorità anche nelle agende dei sindacalisti
Cgil, Cisl e Uil hanno convocato per sabato 9 febbraio una “grande manifestazione unitaria” a Roma per sostenere le proposte economiche e sociali avanzate in ottobre e del tutto ignorate dal governo gialloverde. Se il merito della mobilitazione pare condivisibile così come la ripresa di un’opposizione sociale a un governo che ha fatto della demagogia conservatrice il suo mestiere, le modalità di lotta e di mobilitazione dei sindacati confederali danno spazio a qualche dubbio. Partiamo da un esempio pratico. È diffusa la convinzione che il sindacato confederale sia stato “tenero” nei confronti dei governi dell’austerità che hanno retto il paese dal 2010 al 2018 (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni). In particolare, gli si rimprovera di “non aver manifestato” né contro la legge Fornero né contro il Jobs Act. Inutilmente gli attivisti sindacali rispondono con la lunga lista di mobilitazioni intraprese dal sindacato in quegli anni: il punto è che queste mobilitazioni non hanno inciso sulla percezione pubblica, finendo presto nel dimenticatoio. Certo, si tratta di una dimenticanza comoda per chi vede nelle ultime organizzazioni di massa rimaste in Italia un nemico da abbattere. È però anche il frutto di un problema strutturale di queste mobilitazioni, che si sono dimostrate di per sé incapaci di raggiungere i due obiettivi fondamentali di ogni movimento sociale: conquistare il supporto della popolazione e influenzare il potere politico.
Come rinnovare, dunque, un modello che mostra segni di esaurimento? Non si tratta di una questione che può essere esaurita dal punto di vista teorico, ma qualche indicazione può venire dalle mobilitazioni spontanee che hanno “conquistato” la Francia negli ultimi mesi, i cosiddetti “gilet gialli”. Come ha notato lo storico dei movimenti popolari Gérard Noiriel, il primo motivo del successo di queste mobilitazioni è da individuare nell’enorme copertura che i media tradizionali gli hanno dedicato – tanto prima dell’inizio della mobilitazione quanto nelle settimane successive. Un’ulteriore dimostrazione di come – nonostante la diffusa convinzione l’informazione si sia irrimediabilmente “disintermediata” – i media mainstream (televisioni e siti d’informazione in primis) rimangano strumenti fondamentali nell’orientare l’opinione pubblica e nel dettare l’agenda politica di un paese.
Il sindacato confederale ha negli ultimi due decenni supplito alla sua incapacità di “fare notizia” con la sua forza organizzativa. Le piazze, in pratica, venivano riempite da militanti e attivisti – rispecchiando per altro la composizione anagrafica attuale della militanza sindacale: il “successo” quantitativo della manifestazione veniva così slegato (e idealmente reso autonomo) dalla sua effettiva capacità di guadagnare consenso. Anche per questo in Italia più che altrove la “guerra dei numeri” fra questure e organizzatori ha guadagnato centralità: in una concezione superata, il numero dei partecipanti avrebbe dovuto dimostrare la “forza” della mobilitazione. Il problema è che oggi anche portare in piazza un milione di persone non è sufficiente se non si è capaci di conquistare la “casamatta” dell’informazione mainstream. Insomma, oggi il sindacato (come tutti i movimenti) si trova dipendente dai media in due ambiti fondamentali: la capacità di attrarre in piazza manifestanti lontani dalla propria base militante; la capacità di far entrare la protesta nell’agenda politica nazionale, generando così un circolo virtuoso fra esposizione mediatica e partecipazione popolare.
Pensare di bypassare questo meccanismo non è possibile: l’amara considerazione del rinnovato potere politico di chi controlla i mezzi d’informazione non può rimandare a tempi migliori la necessità dell’azione. L’evidente problema che si pone al sindacato e ai movimenti sociali è quindi quello di rendere accettabile per i media mainstream mobilitazioni che vanno spesso contro gli interessi degli editori e l’impostazione ideologica di gran parte dei giornalisti. Come ha osservato sempre Noiriel, una risposta può trovarsi nella logica economicista che anima i media, mai come oggi “affamati” di notizie che possano fare audience (e click). Ogni mobilitazione deve quindi cercare di avere un’apparenza insolita, inedita, curiosa: la mobilitazione non deve solo “fare notizia”. La mobilitazione deve essere una notizia.
Il sindacato deve quindi appropriarsi dei mezzi di comunicazione ed educare i suoi quadri a utilizzarli a ogni livello. Il ventaglio di media a disposizione è enorme, ognuno con le proprie peculiarità: dai salotti televisivi ai social media, dalle colonne dei giornali locali alle radio regionali. Il sindacato deve affrontare la questione della comunicazione come una questione eminentemente politica: elaborare una strategia nazionale e disporre i propri quadri in una mobilitazione permanente che tenda a occupare lo spazio pubblico. Senza rifiutare la personalizzazione del “portaparola”, una figura necessaria e obbligata fin da quando le masse sono entrare nella politica. Ogni strategia vincente comporta il collegamento tra vicende particolari e problemi generali. Come Salvini, spesso distorcendo la realtà, parla del più piccolo incidente nella gestione dei rifugiati come di un problema politico nazionale, il sindacato dovrebbe prendere ogni singola delocalizzazione, ogni singolo caso di sfruttamento, ogni singolo licenziamento sindacale e renderlo il simbolo di una questione più ampia: l’inversione dei rapporti di forza fra capitale e lavoro nella nostra società.
In tal senso, qualche caso virtuoso di comunicazione sindacale si è visto negli ultimi anni. Il più noto è appena balzato alle cronache nazionali: si tratta del neosegretario generale della Cgil Maurizio Landini. Sostanzialmente sconosciuto al grande pubblico al momento della sua elezione alla guida della Fiom nel 2010, Landini è riuscito negli anni a guadagnare una credibilità e una riconoscibilità che l’hanno reso il candidato naturale alla successione di Susanna Camusso. Questa evoluzione, avvenuta in poco meno di otto anni, è stata segnata da due momenti principali: prima la battaglia sul piano industriale della Fiat, poi il lancio dell’effimera Coalizione Sociale. In entrambi i casi, la Fiom è riuscita a occupare stabilmente lo spazio pubblico tramite una presenza costante di Landini nei talk show televisivi. Se il fallimento della Coalizione Sociale ha in parte interrotto questa egemonizzazione dell’informazione televisiva, è prevalentemente grazie a quest’ultima che la Fiom ha potuto sostenere in solitaria la “battaglia di Pomigliano” senza essere isolata. I primi giorni della segreteria Landini sembrano segnalare una ripresa dell’attivismo mediatico del neosegretario sulla scena dei talk show nazionali: un primo esperimento i cui frutti potranno essere visibili già durante la manifestazione del 9 febbraio.
Un altro esempio positivo di comunicazione sindacale – “opposto” dal punto di vista politico – è quello della Fim (i metalmeccanici della Cisl) di Marco Bentivogli. Un modello formatosi per reazione a quello di Landini, ma dai tratti non troppo dissimili: estrema personalizzazione della linea politica nella figura del segretario nazionale, utilizzo cospicuo dei media come strumento di propaganda e presenza costante in tutti gli organi di informazione mainstream. Quello che colpisce della strategia della Fim è infatti la pluralità dei mezzi sfruttati: da una parte il segretario Bentivogli gioca il ruolo di opinionista su importanti quotidiani nazionali e diversi talk show televisivi; dall’altra, su Twitter, è ben visibile la presenza strutturata e organizzata della categoria, alimentando la legittimazione della Fim fra i numerosi giornalisti e creatori d’opinione che animano il social network. In questo modo Bentivogli sembra aver imparato la lezione del suo avversario simbolico, portando alle estreme conseguenze la strategia comunicativa del Landini della Coalizione Sociale (e aspirando, forse, a un analogo cursus honorum in Cisl).
Insomma, senza un impegno politico sul piano comunicativo, le manifestazioni sindacali nazionali rischiano di essere delle prove di forza di fronte a uno specchio, quasi del tutto ignorate dai media e quindi sconosciute all’opinione pubblica. Un sindacato generale – e a maggior ragione, un sindacato naturalmente politico come quello confederale – non può non porsi il tema dell’egemonia nella sua attività non strettamente sindacale. Per questo, la comunicazione deve diventare una priorità nelle agende dei sindacalisti. Ovviamente, essa non può sostituire l’elaborazione e la strategia politica – veri elementi fondanti di ogni organizzazione. Ma senza una comunicazione incisiva, anche la migliore strategia politica è destinata al fallimento.
Sarebbe quindi bene che i sindacati – nell’era del governo gialloverde – ricominciassero a ragionare su come, oggi, si forma l’opinione pubblica popolare: a studiarne i meccanismi per poterli sfruttare politicamente. Perché, malgrado tutto, non solo la rivoluzione, ma anche qualsiasi riforma di segno popolare non potrà che passare per la televisione e per gli altri media mainstream.
*Stefano Poggi è dottorando di ricerca in storia presso l’Istituto Universitario Europeo.
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