Se l’emergenza climatica parte dalle città
Molti comuni approvano mozioni ambientaliste, grazie alla pressione dei Fridays For Future. Ma per evitare che questi atti restino petizioni di principio servono procedure e finanziamenti per le politiche di competenza comunale
In questi mesi, diverse amministrazioni regionali e comunali stanno proclamando lo stato di emergenza climatica per dimostrare sostegno al movimento Fridays For Future. Le dichiarazioni, di solito presentate come mozioni in consiglio comunale, prendono atto dell’aumento delle temperature globali e del verificarsi di eventi estremi a scala locale e globale ed elencano una timida serie di indirizzi da prendere. Si tratta certamente di dichiarazioni politiche, che nel migliore dei casi fanno eco alle proteste per darne risalto, nel peggiore cercano solo di intercettare elettorato.
Ma è lecito chiedersi se tali atti possano avere un valore al di fuori dall’universo simbolico. Sicuramente quella contro il surriscaldamento del pianeta è la lotta più importante della nostra storia: è in discussione l’esistenza stessa dell’umano come soggetto organizzato, capace di diritti e civiltà. Soprattutto per questo è necessario interrogarsi a fondo sull’efficacia di ogni misura di lotta portata avanti nel tentativo metodico di interrompere questa escalation. Spostare la percezione pubblica a favore di questa battaglia, prepararsi alle trasformazioni ormai inevitabili nei nostri stessi stili di vita e far comprendere l’urgenza e la necessità di grandi investimenti pubblici sono sicuramente atti di grande rilevanza. Ma è evidente che non possono e non devono bastare: i diversi livelli di rappresentanza politica devono rimettere in discussione gli interessi, le procedure e l’inerzia che sino a ora hanno dettato legge e contribuito a ignorare ogni allerta climatica.
Considerare il cambiamento climatico un’emergenza è un principio corretto: cos’è l’emergenza se non la manifestazione violenta di un carattere nascosto? Un terremoto è la manifestazione di un pericolo sismico sempre presente, ma che diventa evidente a tutti solo nel momento in cui comincia la scossa. Un’esondazione è la manifestazione della possibilità che un certo fiume rompa gli argini e si espanda nelle aree circostanti, anche questo è noto a chi studia quel territorio ma diviene di dominio comune quando accade. Il cambiamento climatico è un fenomeno universale noto già dagli anni Ottanta, ma fino a che non ha comportato eventi estremi frequenti non è mai diventato argomento di discussione del grande pubblico. Dichiarare lo stato di emergenza climatica significa dire che questo fenomeno è troppo grande per essere ignorato. È fondamentalmente una richiesta d’aiuto. Un modo per dire che da soli non ce la possiamo fare, che i mezzi ordinari non sono più sufficienti. Ma a questa deve seguire un’idea ben precisa di cosa abbiamo bisogno, di quali modelli di sviluppo vadano abbandonati e di quale sistema di valori sia necessario. Altrimenti, dichiarare simbolicamente l’emergenza diventa un gesto svuotato di senso.
La dichiarazione di emergenza, però, oltre a essere utilizzata come occasione di dibattito, è nel nostro paese un preciso strumento amministrativo attraverso il quale un comune chiede allo stato delle condizioni eccezionali. In primo luogo chiede di poter agire fuori da vincoli di bilancio e di salvaguardia territoriale e di concorrenza; in secondo luogo di poter ricevere fondi non previsti per gestire un evento estremo. A questa richiesta di autorizzazione ad agire in fretta e senza badare a spese, come deve rispondere una regione o lo stato per far sì che queste dichiarazioni di emergenza non siano mera propaganda politica? Senza risposte c’è il rischio che presto si faccia uso di dichiarazioni di emergenza per qualsiasi cosa, perdendo il senso di questo preciso strumento, così importante per difendere la cittadinanza dalle catastrofi. Qualunque questione politica potrebbe diventare oggetto di una dichiarazione di emergenza, togliendo ancor più valore alla pianificazione della gestione pubblica da un lato, e gettando discredito sul reale operare in emergenza, basti ricordare la gestione di Guido Bertolaso della Protezione civile italiana.
È necessario un apparato normativo elastico, che decida come rispondere a queste richieste di intervento da parte dei comuni. Come per le emergenze classiche esistono procedure standardizzate per negoziare gli interventi, così è fondamentale che si introducano delle misure rapide per negoziare importanti investimenti che mettano in sicurezza il territorio e riducano le emissioni inquinanti. La dichiarazione di emergenza climatica da parte di un comune deve aprire processi immediati di decisione e azione che deliberino una serie di impegni improrogabili sulle politiche di loro competenza: trasporto pubblico, urbanistica, gestione dei rifiuti. Impegni inquadrati in processi che riducano i tempi burocratici, che rimuovano gli ostacoli amministrativi e che concedano fondi straordinari. Si tratta certamente di processi delicati, in cui la garanzia di salvaguardia passa dal livello amministrativo ex-ante al livello giuridico ex-post, ma è altrettanto vero che non c’è più tempo per procedere cautamente. Bisogna essere consapevoli che, una volta dichiarata con gravità l’emergenza, bisogna essere pronti ad agire operativamente.
*Mattia Bertin è ricercatore presso lo Iuav di Venezia e si occupa di strumenti per il governo e la pianificazione dei grandi rischi in uno scenario di cambiamenti climatici. Vittore Negretto, è architetto, dottorando in architettura, città e design all’Iuav, membro del Planning Climate Change Lab di Iuav
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