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Serve il governo del cambiamento… climatico

Stefano Kenji Iannillo 27 Agosto 2019

Di fronte a una crisi di governo che segue uno schema da giornaletto scandalistico estivo, il movimento Fridays for Future mette la politica con le spalle al muro. La sfida è proporre misure immediatamente realizzabili per la transizione ecologica

L’angelo della storia, che Walter Benjamin vede rappresentato nell’Angelus Novus di Klee, si muove con il viso rivolto al passato: in quel che a noi appare una catena di eventi, per il filosofo tedesco «egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi». L’angelo è cosciente di quel che accade, vorrebbe trattenersi per «destare i morti e ricomporre l’infranto», ma una tempesta lo porta via verso il futuro che egli non può vedere. Per Benjamin «ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta», un vento che spinge in avanti la storia dell’umanità senza aver certezza né di catastrofe né di salvezza, ma soltanto delle macerie che si accumulano. 

Non si tratta certo di angeli, ma la condivisione, cui assistiamo in queste settimane estive, di articoli e post – figli di un rinnovato interesse ecologista – possono essere letti come un piccolo tentativo di «ricomporre l’infranto» di quel che sta accadendo in ciò che tutti abbiamo in comune: il pianeta su cui abitiamo. Veniamo a sapere ogni giorno che la Groenlandia perde 11 miliardi di tonnellate di ghiaccio; che in pochi decenni le Alpi e l’Artico potrebbero non avere più ghiacciai; che la Siberia prima, ora anche l’Amazzonia, sono in fiamme, rilasciando tonnellate di gas serra nell’atmosfera e riducendo la capacità complessiva del pianeta di assorbire CO2; che le polveri posate sui ghiacciai ne riducono la capacità di riflessione dei raggi solari aumentandone la velocità di scioglimento; che luglio 2019 è stato il mese più caldo mai registrato di sempre; che il Brasile di Bolsonaro ha duplicato il disboscamento dell’Amazzonia, che un quarto della popolazione mondiale rimarrà senz’acqua destabilizzando – insieme a carestie e catastrofi naturali – gli equilibri geopolitici. Tutti questi sono i sintomi emersi nelle ultime due settimane della crisi di un sistema economico e sociale che a livello globale sta perdendo la più grande sfida che si sia mai trovato di fronte: la sopravvivenza del pianeta.

A ognuno la crisi che si merita

Poi di colpo, frattanto che ci interrogavamo su quello che stava accadendo al nostro pianeta, come il coniglio che esce dal cilindro quando lo spettacolo è ormai quasi concluso, le spiagge italiche  sono state scosse dalla crisi di governo targata “Papeete Beach”. Una crisi più alcolica che tattica, consumatasi con la riesumazione di Matteo Renzi nelle vesti de “Lo Statista” e le dimissioni del Presidente del Consiglio Conte nella sera di martedì 20 agosto, a seguito di oltre 4 ore di discussione parlamentare.

Una crisi parodistica a fronte della situazione globale e continentale – non solo sul piano ambientale ma anche economico, sociale e soprattutto geopolitico – che ha seguito uno schema da giornaletto scandalistico estivo (tradimenti, ritorni di fiamma, responsabilità rimpallate). Del dibattito al Senato nato a seguito delle dimissioni del Presidente Conte ci è rimasta una lunga discussione sull’uso della religione in politica – con i medievali Pillon e Fontana a sventolare il crocifisso – un j’accuse tardivo e personalista a Salvini (ma non alle politiche da lui proposte e difese da tutto il governo), una serie di interventi che non riuscivano a nascondere il compiacimento di trovarsi dentro uno schema tattico da House of Cards in versione “gioco-aperitivo”. 

Dei problemi del Paese – a cominciare da quello del clima, ormai emergenza discussa in tutto il mondo – ci rimangono un accenno al «Bel Paesaggio» e allo sfruttamento «dell’energia prodotta dalle onde» di Conte; il sussulto texano di Salvini («dove c’è petrolio bisogna festeggiare, vuol dire avere soldi»);  e infine il fumoso punto sullo «sviluppo basato sulla sostenibilità ambientale» di Zingaretti come uno dei 5 pilastri di un eventuale nuovo governo. Che poi come glielo si spiega al Pd e all’eventuale nuovo governo giallo-rosa che ad esempio la Tav Torino-Lione è sviluppo (mah) senza sostenibilità?

Il futuro ha cambiato verso

Le basi su cui costruire, in un momento storico cruciale, il futuro del Paese sono quindi molto fragili e rappresentano plasticamente l’arretratezza e l’inefficacia della classe dirigente italiana. L’ormai famoso studio dell’IPcc sui cambiamenti climatici in cui veniva esplicitato il limite di 11 anni per invertire la rotta, ci pone davanti una domanda fondamentale su cosa significa futuro, rendendo la questione meno banale di quel che sembra: verosimilmente futuro non significa più “sol dell’avvenire” ma quello della siccità e delle catastrofi ambientali. Da una più o meno esplicita fiducia che il futuro sarà migliore del presente a una più o meno certezza che, se non faremo nulla, la parola “futuro” e quella “catastrofe” saranno sempre più sovrapponibili. Dal punto di vista delle coordinate culturali del mondo della “sinistra”, e non solo,  è una rivoluzione copernicana, che dovrebbe trovare ben altri riferimenti politici e culturali in grado di articolarla.

Non bisogna abbandonarsi però a quella che è stata definita eco-ansia, e trovare  la forza della consapevolezza che l’angelo della storia è sempre di spalle, non sa se davanti a noi ci sarà salvezza o catastrofe, vede le nostre macerie ma non ci porta inesorabilmente verso la fine lasciando quindi sempre aperto uno spazio possibile all’azione. E non è un caso che tra le tante opinioni espresse nel marasma della crisi di governo ce ne sia una che invece restituisce un vero indirizzo di pensiero e azione, in grado di dare ossigeno e gambe a una possibile alternativa e che emerge con una potenza inedita di spostare il consenso nel paese che nessun altro soggetto “di alternativa” oggi ha: il comunicato di Fridays for Future Italia sulla crisi di governo cui si aggiunge la “dichiarazione di Losanna”, primo dispositivo di coordinamento politico e organizzativo  a livello internazionale di Fridays for Future.

Una denuncia della sostanziale immobilità della politica a fronte di un sempre maggiore interesse nei confronti dei cambiamenti climatici (con l’analisi impietosa dei tweet di Salvini, Di Maio e Zingaretti su tematiche climatiche) che esprime la consapevolezza che dati i tempi della crisi – quella climatica – non è possibile aspettare quelli di una crisi governativa con «altri anni persi dietro a governi tecnici, di scopo, a tempo» mentre, seppur con la consapevolezza di «urlare ai sordi», sarebbe necessario realizzare «Il governo che serve alle persone, l’unico governo possibile è sì il governo del cambiamento, ma climatico».  Ossigeno puro dentro un dibattito asfittico di “tecnica parlamentare”, “tempi della crisi”, “tenuta democratica”, “che fa Renzi?”, “grande intervento di Conte”, “Speriamo nel presidente della Repubblica”, “voto si o voto no”.

Il governo del cambiamento climatico

Il comunicato va ancora più avanti tracciando anche i temi di questo governo, le priorità, le ambizioni: 

Serve un governo che dichiari l’emergenza climatica, che tagli gli incentivi al fossile, che blocchi i nuovi investimenti sulle risorse climalteranti, che realizzi un grande piano per l’efficientamento energetico e le rinnovabili, che rispetti gli accordi di Parigi e vada anche oltre, seguendo le indicazioni che vengono dalla comunità scientifica. E attenzione a non pensare che occuparsi di clima significhi tralasciare lavoro, democrazia, sanità. Un cambio radicale del sistema produttivo, delle abitazioni, delle città in senso green sarebbe un volano formidabile per l’occupazione; la riconversione delle aziende climalteranti coincide quasi sempre con l’eliminazione di impianti inquinanti e pericolosi per la salute dei cittadini; fronteggiare la crisi climatica significa per la prima volta ascoltare i milioni di giovani preoccupati per il proprio futuro.

Parole come macigni, che mettono la politica italiana spalle al muro, davanti ai limiti di un dibattito provinciale, sterile, lontano anni luce dai bisogni della popolazione e dalle grida di aiuto del pianeta. Parole che rompono con la “neutralità ecologica”, per cui l’ambiente è appunto un tema politicamente neutro; parole che dicono che no, è un tema assolutamente di parte. La nostra parte, e lotteremo per portarla avanti. Parole che idealmente rispondono quelle in Senato di Matteo Salvini, fieramente parte del club dei negazionisti, l’amico di Trump, di Putin, di Bolsonaro: 

E no qui, e no là. Ovunque al mondo se trovi del petrolio fai festa perché significa ricchezza e posti di lavoro. Noi no, noi li blocchiamo. Mettiamo in discussione aziende che danno migliaia e migliaia di posti di lavoro. Pensiamo di tornare indietro? La decrescita felice io non la conosco. Gli italiani vogliono crescita, vogliono sviluppo, vogliono strade, autostrade, porti, aeroporti.

Questa visione, purtroppo condivisa negli anni in maniera bipartisan – valga per tutti cosa fece proprio l’altro Matteo Renzi, improvvisamente dedito all’interesse collettivo, sul referendum contro le trivellazioni in mare – è il progetto del nemico. Le linee tracciate da Fff costituiscono l’orizzonte di una possibile alternativa.

La questione della sfida per il potere

Se questo è il solco che ci separa dal nemico nel campo della grande sfida al sistema economico globale, è opportuno provare a fare ordine nella nostra parte e definire una serie di elementi che possano permetterci di renderlo operabile in ogni territorio ed efficace sul piano nazionale e internazionale. L’elemento più importante, e il salto di qualità che emerge dal comunicato di Fridays For Future, è il tema del governo e del potere. I movimenti hanno da anni rimesso al centro la necessità di una pianificazione pubblica delle misure necessarie a contrastare il cambiamento climatico, dicendo con forza: basta promesse, vogliamo strategie, piani e tempi certi.

Per la crescita complessiva del movimento ecologista, e non solo, è fondamentale a questo punto fare un passo ancora più spinto in avanti, facendoci certamente incalzare dall’urgenza dei tempi che ci impone la crisi climatica. Bisogna rivendicare e costruirsi un protagonismo e una partecipazione effettiva nella definizione di queste scelte, di questa nuova centralità del pubblico come garanzia di una reale riconversione. Da un lato è fondamentale tenere al centro l’autonomia, l’importanza e la centralità delle piazze, della mobilitazione, del controllo, della pressione sui centri della governance economica nazionale e globale (come le giustissime azioni su banche e fondi d’investimento che fanno profitti con le energie fossili); dall’altro sarà sempre più importante non nascondersi, ma praticare apertamente l’obiettivo della contaminazione dei luoghi decisionali a tutti i livelli – locale, regionale, nazionale ed europeo. Le tematiche ecologiste, eco-socialiste e ambientaliste sono al centro del rinnovamento organizzativo e della proposta politica della maggior parte delle forze progressiste e radicali europee e internazionali: ad esempio negli Stati Uniti la candidatura di Bernie Sanders, la piattaforma del “Green New Deal” e il lavoro svolto di rappresentanti democratici radicali come Alexandra Ocasio-Cortez stanno determinando – di concerto con i movimenti ambientalisti e di difesa del territorio – un cambiamento profondo nel senso comune e il protagonismo di decine di migliaia di attivisti/e.

Anche in Italia è quanto mai necessario organizzare il consenso per non disperderlo, costruire ponti solidi con la comunità scientifica, le rappresentanze sindacali, le grandi comunità in lotta sui territori, e poi incanalare tutto in una piattaforma programmatica radicale che eviti ogni fuga in avanti in solitaria, ogni tentativo di captazione del movimento, ogni green whashing e ogni azione di piccolo cabotaggio. Una piattaforma che sia al contempo in grado di dotarsi di rappresentanti istituzionali credibili, capaci di costruire battaglia politica e di governare processi di trasformazione ecologica dai territori al governo nazionale. Sarà fondamentale trovarli a ogni livello dell’organizzazione sociale e istituzionale, organizzandosi per quelle che sono le competenze dei diversi enti dal piccolo comune al parlamento, dai rappresentanti d’istituto e di facoltà alle rappresentanze sindacali nelle aziende. Questo è secondo me il significato organizzativo più profondo del Green New Deal, e l’orizzonte con cui portarlo avanti nel nostro Paese, senza ricalcare tentativi anacronistici di fondazione di nuovi partiti della sinistra radicale, di nuovi “Verdi”, di nuove sette: una modalità agile, ispirata ai principi del community organizing di stampo anglosassone, ma capace di produrre identità, radicamento, azione. 

I 100 giorni del governo del cambiamento climatico


Nessun piano sarà efficace se non sarà percepito come realizzabile e, come diceva Alexander Langer, «socialmente desiderabile». Anche perché la situazione è talmente grave (e abbiamo perso così tanto tempo) che solo una mobilitazione totale della società paragonabile alla mobilitazione di massa sperimentata nella seconda guerra mondiale potrà riuscire a centrare gli obiettivi necessari a una svolta efficace. Sarà fondamentale affermare con forza che la sfida ecologica può essere il modo in cui l’Europa e l’Italia possono tornare al centro della storia: investendo in ricerca e tecnologie, proponendosi come fari della riconversione e delle società ecosostenibili, realizzando una legislazione all’avanguardia e un nuovo modello di sviluppo, che completi e rilanci quel modello sociale europeo messo a dura prova da decenni di neoliberismo. La sfida ecologica per il nostro Paese e per l’Ue deve anche essere una sfida per recuperare centralità internazionale e un ruolo geopolitico meno subalterno agli interessi degli imperi sovranisti – e negazionisti – che dominano la scena globale, e che sono i primi avversari di un’unificazione europea con obiettivi politici chiari.  

Un governo del cambiamento climatico dovrebbe avere ben chiare due cose: la prima è la consapevolezza della centralità dello Stato nel governare e indirizzare la riconversione; la seconda è la promessa – come chiedono gli attivisti di Extinction Rebellion e di “Giudizio Universale” – di dire la verità. Va aperta immediatamente una grande campagna pubblica, e anche statale, di informazione sul cambiamento climatico, le sue conseguenze, le necessarie trasformazioni economiche e sociali, urbanistiche e industriali, prima ancora che sui piccoli cambiamenti negli atteggiamenti quotidiani di tutti noi. Atteggiamenti che dovranno in ogni caso necessariamente riparametrarsi ai nuovi bisogni di sostenibilità ambientale richiesti dalla società, ma che non possono avere la priorità rispetto al cambio di paradigma economico e industriale. 

Questo governo dovrà aver chiaro che un “ministro dell’ambiente” con le idee più avanzate del mondo non serve a nulla, se poi i ministeri del lavoro, dello sviluppo economico, dell’economia, della sanità, dell’agricoltura e via discorrendo, continuano a comportarsi come se niente fosse. Anzi, sarebbe meglio che non ci fosse un ministero dell’ambiente, se deve avere solo una funzione simbolica; meglio piuttosto che la delega ambientale venisse assunta in primo piano dal Presidente del Consiglio, e poi condivisa con ogni ministero all’interno di un’azione di governo complessivamente ecologista. Rilancio: se abbiamo bisogno di una carica istituzionale simbolica dalle spiccate sensibilità ecologiste, si cominci a pensare a quale figura candidare alla presidenza della Repubblica. Per il resto, l’intero “governo del cambiamento climatico” dovrebbe attenersi al piano di riconversione, consegnando a ogni ministero i suoi obiettivi specifici e parametri di riferimento. Perché la questione non è dire il “verde è bello”, “la natura piace a tutti”, ma che la crisi è dietro l’angolo; e se mobilitazione totale deve essere, che il governo si comporti di conseguenza.

Per fare cosa? Si taglino immediatamente i 18,8 miliardi di incentivi alle fonti fossili, e si applichi una carbon tax che accompagni e finanzi la transizione a un’economia carbon free entro il 2030, affiancando al principio della progressività rispetto al reddito (chi ha di più paghi di più), quello che chi inquina di più deve contribuire di più alla risoluzione della crisi. Per evitare però che questo abbia effetti sociali regressivi, queste risorse dovranno finanziare un fondo di riqualificazione professionale per i lavoratori attualmente impiegati in settori non più ecologicamente sostenibili. Si mettano le risorse della Cassa Depositi e Prestiti a garanzia di un grande piano di riconversione industriale, che preveda però in cambio dei finanziamenti strumenti di controllo pubblico e con-partecipazione dei lavoratori all’interno delle strategie aziendali, così come richiesto anche dal Forum Disuguaglianze e Diversità: si definisca poi una data massima per la chiusura di tutte le attività più inquinanti. È fondamentale capire che le risorse che abbiamo a disposizione non vengono solo da nuove tasse o tagli, ma dall’uso consapevole e strategico di ciò che già abbiamo: bisogna trasformare lo Stato, gli enti locali e tutto il settore pubblico nei primi “consumatori critici”.

Per esempio, si utilizzino le risorse della Cassa per rendere immediatamente tutte le strutture pubbliche – a cominciare dall’edilizia abitativa – autosufficienti dal punto di vista energetico e termico, con impianti all’avanguardia che contribuiscano allo sviluppo di questi settori, e nel contempo diano l’esempio all’intera cittadinanza, che andrà in ogni caso sostenuta con grandi incentivi fiscali a passare alle energie rinnovabili. Si dovrà nel contempo dare da subito impulso alla ricerca nel campo delle energie alternative e all’insediamento industriale in questo campo, iniziando a usare in modo strategico le Università, gli Enti di Ricerca e le aziende ancora in mano pubblica – dall’Eni alle grandi municipalizzate attive in settori cruciali per l’ambiente – ma anche riorientando quegli aiuti alle imprese già esistenti che, come ricordava l’economista Andrea Roventini, sono stati già da anni individuati dalle spending review. Si dia la possibilità di incamerare energia (che al momento deve essere invece immessa nella rete) e creare – entro un tot di produzione – comunità energetiche seguendo l’ottica dei prosumers, dei produttori-consumatori. Non un mercato selvaggio – l’infrastruttura e la produzione complessiva dovrà essere nelle mani statali – ma la possibilità di autorganizzarsi a livello di distretto o di vicinato in piccole comunità autosufficienti dal punto di vista energetico, determinando un grande risparmio di emissioni e di bollette.

Sarà necessario entro i primi 100 giorni promuovere fiscalmente il riavvicinamento fisico e organizzativo tra produzione e consumo (KM0), e le strategie di produzione che adottino l’ottica circolare. Rendere obbligatorio alle attività produttive di presentare un bilancio sociale e ambientale delle loro attività, e al contempo incentivare la riconversione lavorativa attraverso la riqualificazione professionale e la formazione  dei lavoratori affinché possano usufruire delle nuove opportunità date dalla riconversione ambientale. Si disincentivi l’agricoltura intensiva, anche vietando l’utilizzo di agrotossici a cominciare dal glisofato rafforzando l’agricoltura di qualità e la redistribuzione della terra la cui concentrazione è ormai ai livelli pre-riforma agraria. Nell’ottica del ripudio delle strategie di rifiuti adottate in questi anni fondate su discariche e inceneritori andrà messa in campo una strategia rifiuti 0 che dovrà necessariamente incidere sulla produzione e gli imballaggi. Bisognerà immediatamente abolire la plastica usa e getta, estendendo il divieto europeo per piatti e posate, e, nel definire le scadenze per un completo divieto nel consumo e produzione di plastica, sarà centrale creare un fondo di investimento nella ricerca, produzione e sperimentazione di bio-plastiche come possibile filiera industriale da sviluppare in Italia. 

Ovviamente sarà centrale ripubblicizzare l’acqua in tutto il paese, rivedere le concessioni delle fonti – così come dei litorali – alle grandi aziende private, e definire una strategia di preservazione delle acque che tenga conto del fabbisogno del Paese fino al 2050. In questo senso sarà centrale la strategia consumo di suolo zero – dato il grave danno arrecato dalla cementificazione selvaggia – incentivando l’economia della rigenerazione urbana e dell’edilizia sostenibile, ripensando completamente le strategie di sviluppo basate sulle “grandi opere”. Piuttosto sarà fondamentale cantierare subito le migliaia di piccole opere infrastrutturali e di prevenzione di cui necessita il paese.  

Infine – per concludere questo piccolo elenco di misure di immediata necessità – bisognerà immaginare una data in cui vietare il diesel, e ridurre il trasporto privato, partendo dall’interno dei grandi centri urbani: il che significa immaginarsi un investimento miliardario nel trasporto pubblico collettivo elettrico (rilanciando i poli industriali nazionali di Bologna e di Avellino) e una nuova infrastrutturazione ferroviaria in grado di unire realmente il paese. Come insegna il movimento francese dei gilet gialli, non è possibile scaricare sulle famiglie in difficoltà il costo della transizione ecologica: ma anziché promettere tagli alle accise impossibili e suicidi, è necessario che lo Stato e gli enti locali mettano in campo di nuovo forme di consumo collettivo, come i trasporti pubblici, che rendano davvero possibile l’abbandono di quelli ormai insostenibili come l’automobile privata nei centri urbani e rilancino i collegamenti  nelle aree interne sempre più abbandonate a loro stesse. Altro che Tav e i “signor No” della decrescita: un piano di investimenti in ferrovie e trasporto pubblico locale avrebbe davvero l’effetto di rilanciare l’economia e i consumi, creando lavoro proprio dove più serve, anziché continuare con la logica delle cattedrali del deserto e dei grandi appalti, che arricchisce pochi e favorisce la corruzione.

Osare inventare l’avvenire

Tutto questo è solo l’inizio, ma è ciò che  serve, ed è realizzabile immediatamente: ci sono i fondi, le conoscenze, le idee. Quel che manca è la volontà politica, o meglio, il potere politico non è nelle mani di chi sente la necessità di sfuggire alla devastazione ecologica. Non si intravede ancora l’organizzazione con la capacità politica in grado di sfidare le crisi istituzionali e di rappresentanza  proponendosi come nuovo soggetto protagonista nel dibattito pubblico del paese. Nonostante le macerie del presente, e le crisi intrecciate in cui viviamo, non è ancora detto che debba finire in tragedia. La possibilità di aprire nuove opportunità nella storia è sempre appartenuta ai movimenti sociali e all’inventiva della politica. L’eco-ansia non può diventare causa di immobilità o di disfattismo, ma deve essere motore di attivismo e protagonismo a tutti i livelli. 

Il governo del cambiamento climatico, la svolta necessaria per il nostro paese, la sfida al sistema economico dominante, non sono dei sogni irragiungibili, aleatori. Quello che oggi sembra esercizio di fantapolitica deve e può diventare la base di un cambiamento reale delle cose presenti, che garantisca che esistano ancora cose presenti e future. Se la lezione di Mark Fisher ci esortava giustamente a uscire dal passato e osare di nuovo pensare e immaginare il futuro, la crisi ambientale ci consegna paradossalmente il compito di pensare l’unico futuro possibile: non c’è alternativa, questa volta davvero – e nell’unica alternativa il capitalismo, o almeno questo capitalismo, non possono starci, alla faccia dei deliri tecnocratici di Elon Musk o Jeff Bezos. Sta a tutti noi farlo diventare realtà – abbiamo solo questo pianeta da perdere.

*Stefano Kenji Iannillo è attivista Arci Avellino, già membro della delegazione italiana alla Cop22, del comitato referendario contro le trivellazioni e parte di movimenti ecologisti come Stop Biocidio.

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