
Si chiama violenza non revenge porn
Se di norma la violenza di genere viene minimizzata, quella agita nello spazio «virtuale» è ancor più sminuita, tacendone le conseguenze psicologiche, economiche e sociali. Si tratta di un vero e proprio abuso sessuale basato sull’immagine
Con «revenge porn» si intende la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso della persona rappresentata e destinati a rimanere privati. Letteralmente si traduce vendetta porno.
Questa espressione ci fa stridere i denti, in quanto incompatibile con una lettura femminista e transfemminista, focalizzandosi unicamente sulle motivazioni di colui che posta le immagini, assumendone lo sguardo.
Nello specifico, il termine «vendetta» intende un danno inflitto per pareggiare un oltraggio subìto. Il termine «porno», invece, evoca una condanna alla sessualità, che può passare anche dalla condivisione di materiale videofotografico.
Entrambi i significati distolgono l’attenzione della violenza agita, sostenendo e rafforzando le narrazioni giustificatrici. Una vendetta porno agita come giusta punizione non considerando che molte delle persone che l’hanno subìta non hanno vissuto queste immagini come pornografiche, ossia realizzate consensualmente da figure professionali o amatoriali con scopi di gratificazione sessuale. L’assenza di consenso rende queste pratiche violente e, pertanto, l’unico termine accettabile è «violenza», assumendo finalmente la prospettiva e lo sguardo di chi subisce l’azione.
Ricalcando le parole di Laurie Penny, «il consenso è uno stato dell’essere. Dare il proprio consenso è un po’ come prestare attenzione. È un processo continuo». Probabilmente si fa tanta fatica a nominare questa pratica come violenza, perché avviene in uno spazio cyber non fisico. Eppure lo spazio virtuale è uno spazio vivo, abitato da persone che agiscono al suo interno, quindi persone violente possono scatenarsi anche in questi luoghi. Proprio come nello spazio fisico-urbano gli uomini sono nella posizione privilegiata di esercitare potere in maniera violenta, così avviene nello spazio cyber, le cui «affordancies» mutano significativamente a seconda di chi vi accede.
Inoltre, se generalmente la violenza di genere è minimizzata, quella che viene agita e riprodotta nello spazio cyber è ancora più sminuita. Considerandola «virtuale» vengono taciute le conseguenze psicologiche, economiche, sociali, ed esistenziali. Questo costituisce una violenza ulteriore che va ad aggiungersi a quella cyber.
Secondo uno studio di Samantha Bates, l’impatto sulla salute emotiva e mentale è devastante, e dimostra notevoli somiglianze con quello dello stupro: disturbo post-traumatico da stress, ansia, depressione, menomazioni delle funzioni cognitive, perdita del controllo, paralisi, profonda sfiducia nell’altro, senso di vergogna, fino spesso ad arrivare al suicidio.
È cronaca recente la scoperta di chat su Telegram, che riunivano migliaia di persone che scambiavano immagini contenenti materiale sensibile di ex partner, ragazze trovate sui social e persino minori. Il consenso è del tutto assente e la violenza e l’esercizio del potere non hanno nulla a che vedere con la sessualità o il porno, esattamente come lo stupro non ha nulla a che vedere con il sesso. Non si tratta di una violenza nata improvvisamente: i casi di Tiziana Cantone e, ancor prima, del video «Forza Chiara» ne sono testimoni.
Un dato comune in questi comportamenti è quello di genere: nella stragrande maggioranza dei casi le immagini private diffuse sono di ragazze e gli agenti sono maschi. Anche su questo aspetto agisce la spinta culturale che, di fronte a pose sessualmente esplicite espone la ragazza a slutshaming, cioè l’atto di far vergognare una persona per la propria vivacità sessuale, ma offre una pacca sulla spalla al ragazzo. Infatti la condivisione produce lo scandalo che pregiudica il futuro professionale e sociale della persona ritratta.
Il terreno su cui proliferano tali pratiche sono il sessismo e la cultura dello stupro. In queste chat regnano temi come la visione del corpo della donna come carne da violentare e punire. Emerge anche un odio verso la sessualità. Nelle foto recuperate da instagram, foto non porno, ogni elemento veniva sessualizzato allo stremo, al limite del linciaggio.
Ci ritroviamo, quindi, nuovamente in un ambiente insalubre in cui regna la sessualizzazione dei corpi delle donne che mostrano la propria sessualità. Questo apre le porte a un altro tema, la libertà sui nostri corpi. Vogliamo essere libere di condividere, apparire, mostrarci o non mostrarci come più desideriamo, vogliamo che sia possibile agire in base ai nostri desideri e ai nostri piaceri, senza che questo venga ritorto contro di noi.
Vogliamo smantellare la narrazione in cui la colpa è nostra, vogliamo che la vergogna sia posta su chi esercita violenza. Il rimprovero e la colpevolizzazione è una dinamica che già conosciamo e che aggiunge altra violenza. Questo approccio ci riporta nuovamente alla narrazione per cui chi viene stuprata ha provocato l’aggressione con atti, gesti, ammiccamenti. Siamo stanche di questa retorica, non siamo noi a doverci giustificare.
Iniziamo quindi a non chiamarla «revenge porn», bensì violenza. Sgombriamo gli immaginari per dare spazio a nuove parole e narrazioni, così da permeare anche il livello normativo e giurisprudenziale. Un termine evocativo, che assume la prospettiva della vittima-sopravvissuta è «abuso sessuale basato sull’immagine», proposto dalle accademiche Claire McGlynn e Erika Rackley, che pone questa condotta in continuità con tutte le altre violenze di genere, evitando così la colpevolizzazione della serie «poteva pensarci prima di inviare la foto, se l’è cercata». Altro termine praticabile ci viene suggerito dall’ambito normativo nostrano: «diffusione non consensuale di immagini intime» è un concetto che risalta sia la violazione del consenso, che quella dell’intimità della parte offesa.
Venendo all’inquadramento giuridico del fenomeno in Italia la legge 19 Luglio 2019 n. 69, cosiddetta Codice Rosso, introduce la nuova fattispecie di reato, rubricata «Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti», ex art. 612 ter del codice penale.
In quest’ottica appare problematico il concetto di «sessualmente esplicito» – diversamente interpretabile alla luce della relatività culturale: se per qualcuna potrà essere sessualmente esplicita una foto in perizoma, per qualcun’altra potrà esserlo una foto del collo.
Preoccupa, inoltre, la «finalità di recare nocumento» di cui al secondo comma, che descrive la situazione più tipica di diffusione non consensuale di immagini intime in un contesto di «sexting» con l’invio di un ««selfie»». In questa fattispecie il dolo specifico è tanto più pericoloso quanto difficilmente dimostrabile in giudizio. Qualora i soggetti coinvolti siano minori, la fattispecie di reato riguarderebbe la pedopornografia coinvolgendo altri tipi di ragionamento.
Solleva ulteriori difficoltà interpretative la circostanza aggravante relativa allo stato di gravidanza. Non è così chiaro quando debba sussistere, se al momento in cui le immagini intime vengono create oppure una volta condivise. Soprattutto, stancamente sorge alle nostre menti una domanda spontanea: perchè mai una donna incinta dovrebbe essere meritevole di maggior tutela? Forse perchè si intende evitare di arrecare stress alla donna, che si trova in una condizione particolare, punendo più severamente la condotta di chi in quei nove mesi ne diffonde materiale intimo. Allo stesso modo, però, si dovrebbero allora tutelare altre condizioni parimenti – se non addirittura più – vulnerabili e quindi meritevoli di essere vissute senza stress, come nel caso di gravi malattie, cure o terapie pesanti.
Nel caso di coinvolgimento in questo tipo di pratica, esistono diversi tipi di tutela. Se il contenuto è già diffuso, è buona norma procedere alla segnalazione immediata all’Internet Service Provider e conservare tutta la documentazione attestante la comunicazione. Qualora invece ci stessero minacciando di diffondere il nostro materiale fotografico, allora bisogna diffidare chi minaccia dichiarando di non prestare il proprio consenso alla divulgazione e acquisire un video-screen di tale comunicazione. Inoltre, è possibile presentare un reclamo al Garante della Privacy ai fini della segnalazione e della rimozione del contenuto. Inoltre per chiedere la rimozione delle immagini è possibile agire in sede civile domandando il risarcimento del danno. Ulteriore strumento in questo senso è l’art. 96 della legge n. 633/1941, invocabile se è danneggiato il diritto d’immagine lesivo dell’onore, della reputazione o della dignità.
Come abbiamo visto, fra le tutele è a disposizione anche quella penale. Sappiamo che in generale le forze dell’ordine banalizzano la violenza di genere, mortificando le querelanti. Specifichiamo quindi, che se il pubblico ufficiale rifiuta di raccogliere la querela, tale condotta costituisce «Omissione di atti d’ufficio», a sua volta reato. Nel caso in cui la condotta colpisse un minore (tra i 14 e i 18 anni), in aiuto viene anche la tutela contro il reato di cyberbullismo. Qualora la richiesta all’Internet Service Provider non avesse successo, è possibile rivolgersi al Garante della Privacy, che entro 48 ore adotterà una decisione amministrativa di blocco o rimozione del contenuto online.
Sicuramente è riduttivo pensare di poter prevenire una violenza così complessa solo attraverso il diritto penale, che in una società avanzata dovrebbe essere utilizzato come ultima ratio. Pensiamo che gli strumenti efficaci per contrastare questa condotta, che funge da aggregante per una omosocialità tossica, dovrebbero essere di tipo culturale e messi in pratica attraverso un percorso educativo che preveda un piano di educazione affettiva nelle scuole e nei luoghi di formazione continua, nei media e nei posti di lavoro; una formazione sulla violenza di genere e la cybersecurity. Questo affinché la sessualità libera delle persone non venga considerata come disvalore e che nessuna sorella debba ancora vergognarsi della propria sessualità, libera e autodeterminata.
*Federica Chierici è linguista computazionale. Virginia Dascanio è avvocata penalista. Elisabetta Stringhi è laureanda in Giurisprudenza presso l’Università degli studi di Milano, con una tesi in Informatica giuridica sul «revenge porn». Tutte e tre fanno parte della collettiva transfemminista e queer Ambrosia di Milano.
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