
Si scrive popolo, si legge nazione
Il modello della democrazia sovrana nasce in Russia, sotto le macerie del collasso sovietico. Un mix di nazionalismo, pensiero reazionario, neoliberalismo. Dove chi dissente è un traditore della patria.
Ma in fin dei conti a chi interessava davvero cosa pensassero i russi, fra le macerie ancora fumanti dell’implosione sovietica? Il vincitore nutre poca curiosità per il perdente: fra i cantori della “fine della Storia” e gli accigliati ammonitori dell’eterno ritorno della geopolitica, le idee che hanno catturato l’immaginario delle élite russe sono state a lungo considerate irrilevanti.
E così, in un mondo umiliato e con le spalle al muro, l’idea di “democrazia sovrana” – che nel 2006 venne tirata fuori dal cappello dell’ideologo del Cremlino Vladislav Surkov, già a capo delle comunicazioni del magnate Mikhail Khodorkovski, poi imprigionato – apparve agli osservatori esterni come poco più che l’ennesima operazione di propaganda dal fiato corto: la gestione mediatica di un regime politico ormai in piena involuzione. La fama di Surkov come grande burattinaio dell’era Putin, frequentatore dell’intellighenzia, della filosofia occidentale e della rap music, autore sotto pseudonimo di un romanzo autobiografico sull’amoralità del potere, nonché autoproclamato direttore artistico di ideologie prêt-à-porter, si proiettò sul suo artefatto concettuale, la democrazia sovrana: l’idea che non esista sistema democratico che non sia managed, che non esista stato fuori dal governo che lo gestisce, e che la libertà non gestita si riveli veleno per il popolo e per lo stato. Eppure, la performance politica di questo stretto collaboratore di Putin (poi approdato al ruolo di “architetto del Donbass” separatista) rivela molto di come la Russia sovranista, la “democrazia gestita” dove acquistano visibilità i rosso-bruni, abbia perseguito una propria distinta collocazione nella modernità, con un programma certamente alternativo a quello dell’Unione europea.
Se l’Unione europea vide nella fine della guerra fredda la nascita di un nuovo ordine post-sovrano, caratterizzato da interdipendenza, dinamiche transnazionali ed espansione di aree di governance sovranazionale, la Russia vi vede un ritorno all’ordine precedente al bipolarismo: un ordine basato sull’equilibrio di potenza e sul concerto delle potenze, popolato da stati-nazione capaci di alleanze tattiche ma vincolati dal principio di non ingerenza negli affari interni. Cresciuta sulle macerie del nazionalismo armato che porta ai massacri del ventesimo secolo, l’Europa si è rappresentata a lungo come progetto liberale e kantiano di graduale trascendenza dei confini nazionali e obsolescenza della forza: un sistema complesso di mutua interferenza che promuove interdipendenza, e in cui la sovranità nazionale appare per quello che è: una forma di ipocrisia organizzata, per dirla con Stephen Krasner, che viene smontata, condivisa e partecipata (il parlamento europeo). Insomma, una potenza civile e trasformativa delle relazioni internazionali, in cui la sicurezza dovrebbe fondarsi su apertura e trasparenza.
Il ritorno a una Russia assertiva nelle aree di vicinato (Caucaso, Balcani, Mar Nero, Medio Oriente e oggi Africa) ha significato una sfida per l’ordine europeo, con Mosca (e oggi anche Washington) che agisce d’intesa con le forze sovraniste nei diversi paesi, in vista della ri-nazionalizzazione delle politiche europee in diversi settori cruciali. Nella concezione putiniana, la sovranità non è fondata sull’astrazione del diritto, ma sulla capacità dello stato. È nutrita di forza militare e indipendenza economica, poggia sull’identità culturale ed è rafforzata dalla tradizione, in sintonia con l’autorità religiosa. Le sue radici intellettuali non possono essere definite autoctone: ispirati dal pensiero neo-conservatore occidentale (non da ultimo il “modello Singapore”), influenti ideologi quali Andranik Migranyan e Igor Klyamkin già a fine anni Ottanta consigliavano di tenere salde le redini della transizione di mercato mantenendo quote di controllo autoritario nelle mani dell’esecutivo. Sconfitte dai riformisti radicali, queste tesi ritornarono nella seconda parte dell’era eltsiniana, fra il bombardamento del parlamento e quello della Cecenia, quando l’invocazione dell’uomo forte preparò all’ascesa di Putin. Nel lievito del pensiero sovranista varato da Surkov (nato in Cecenia sotto lo scomodo nome di Aslambek Dudaev, poi cancellato dalla storia, al pari del villaggio natio) si rintracciano espliciti prestiti intellettuali conservatori che spaziano dall’anti-pluralismo decisionista di Carl Schmitt, il filosofo del diritto che elaborò alcuni concetti prestati al nazismo, alla vena anti-populista di François Guizot, uomo forte del regime orleanista, ispiratore del primato della borghesia, aspramente criticato da Marx e Engels.
Una sola parola per dire popolo e nazione
Il sovranismo putiniano non pensa in termini di diritti dei cittadini – pietra d’angolo del pensiero liberal-democratico – ma piuttosto di «bisogni della popolazione». A seconda del contesto il termine (proto-)slavo narod esprime sia il concetto di popolo che quello di nazione (e, all’occasione, anche gente, folla, ceto contadino e così via). La stessa idea di nazione arriva alle lande dell’Europa orientale come prodotto esportato dalla Francia rivoluzionaria ma filtrato dal romanticismo tedesco, che profetizza il «risveglio degli slavi». Su questa eco profonda e ambigua, prende corpo nella Russia contemporanea una narrazione di ritorno all’ordine dopo il caos tutta centrata su stabilità e sicurezza necessarie per il popolo/nazione. Si tratta di una tradizione inventata, comunque fondata su una memoria selettiva. Come che sia, riguarda la fine dell’abbraccio di valori universali, che viene dipinto corrispondente alla convulsioni politiche di 20-30 anni fa: catastrofe sociale, degrado morale, fine della sovranità.
Ne emerge un modello conservatore plebiscitario (anti-politico e anti-democratico) di auto-legittimazione, di cui è illustrazione plastica il nazionalismo promosso in Russia dopo l’annessione della Crimea: un revival della Russia storica da un lato, e la crescente sfiducia dei cittadini circa istituzioni ritenute sempre più inefficaci e corrotte dall’altro. Non manca l’enfasi sulla sovranità come forma di vera libertà contro le imposizioni normative occidentali che promanano dall’arena internazionale. Il tema è un lemma del pensiero conservatore: priorità del rito storico sulla legge astratta, necessità di preservare le vere libertà contro le false libertà propugnate da fanatici rivoluzionari (liberali o socialisti o islamisti), da sempre quinte colonne di potenze straniere che tramano per minare la sovranità nazionale. Compito nazional-patriottico è non solo estirpare Ong e società civile, ma – con questo – rafforzare la disciplina morale domestica. A sostegno della sovranità la maggioranza morale serra i ranghi: ecco la proibizione degli studi di genere, la negazione dei diritti riproduttivi, la criminalizzazione dell’omosessualità. Gli spazi per il dissenso si riducono: i critici sono solo edonisti membri della classe media. Il 14 marzo 2014, parlando dell’annessione della Crimea, Putin li definisce «traditori della nazione».
Il volto economico di questa assertività nazionalista, tutta giocata lungo il solco dell’ambizione allo status di grande potenza, fra moralità cristiana e machismo paramilitaresco, è la tutela dei diritti di proprietà. Il sovranismo non porta rivoluzione economica, ma un programma nazional-liberale che ha replicato in Russia i programmi di austerità visti altrove, in parallelo a repressione dei movimenti di protesta. Certo il segno conservatore della dottrina di governo viene modulato nel tempo, e potrebbe definirsi – con Samuel Huntington – «situazionale», soprattutto nelle fasi espansive. Appena si riacutizza lo scontro con l’occidente liberale, ecco la stretta sul codice culturale dei valori fondanti della nazione, il ripiego su un conservatorismo assiomatico.
La guerra non lineare
È vero, come ha scritto Marco Bascetta sul manifesto, che quando oggi parliamo di «sovranismo» non ci riferiamo a una dottrina politica dotata di autonomia e stabilità: piuttosto, «si tratta dell’insieme di proiezioni ideologiche, politiche protezioniste e statalismo che lavorano, dentro la crisi dell’Ue, per il ritorno del nazionalismo». Il nocciolo di queste proiezioni è chiaro: la sovranità non può essere limitata in nome di diritti universali. Chi difende la società davanti alla pervasività delle “riforme” neoliberali, o getta luce sulla violazione di diritti fondamentali è accusato di ipocrisia e perseguito. Come Ivan Krastev ebbe a spiegare già una decina di anni fa, per la dottrina sovranista russa, sovranità significa né più né meno che industria estrattiva e ragion di stato: il diritto del governo a fare ciò che vuole sul proprio territorio e a perseguire i propri nemici fin nel cuore di Londra.
Incapace di capire se fosse una causa o un sintomo della crisi profonda dell’ordine liberale, l’Europa unificata ha a lungo considerato le varianti sovraniste come illusione ottica, trasmutazione dell’euroscetticismo, spasmo propagandistico. Non può stupire chi conosce la storia europea che il nazionalismo, oggi ammantato di sovranismo, raccolga ampi consensi popolari, operi per una virata della modernità in senso reazionario, identitario, religiosamente legittimato, colmo di contraddizioni e amnesie, perimetrato da barriere. Sorprende di più come il mondo della comunicazione nutra questo schema, e sorprendono le esitazioni della sinistra nell’organizzare una risposta chiara, ampia e partecipata. In un romanzo pubblicato sotto pseudonimo, Surkov scrive di guerra non lineare del futuro: lo scopo non è vincere contro il nemico, ma gestire il processo bellico per destabilizzare la percezione pubblica, «confondendo le piste, oscurando la verità».
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.