Storia politica dell’invidia
Con la controrivoluzione ispirata dal pensiero di Friedrich Von Hayek l’idelogia liberista rompe una volta per tutte con ogni tradizione democratica. Evocando passioni tristi e forme di vita individualiste
Ci troviamo a un’importante riunione del Partito conservatore, siamo alla fine degli anni Settanta. Margaret Thatcher è già diventata leader del partito e si appresta a entrare da primo ministro a Downing Street, inaugurando l’era della controrivoluzione neoliberista. Sta parlando un dirigente. Presenta un documento in cui auspica che i Tories scelgano un «percorso pragmatico». Una via mediana tra stato e mercato. L’invito alla moderazione non è ancora giunto al termine quando la Thatcher allunga la mano, afferra la sua valigetta portadocumenti e ne estrae un libro. Si intitola La società libera, l’autore è Friedrich von Hayek, economista austriaco che nel 1974 ha vinto il Premio Nobel per l’economia. Thatcher solleva platealmente il volume per consentire a tutti di riconoscerne la copertina. Poi lo sbatte rumorosamente sul tavolo della presidenza, costringendo il suo collega di partito a interrompersi. Ed esclama: «Questo è ciò in cui crediamo!».
Thatcher ha più volte ribadito la natura fondativa del testo di Hayek, sottolineando come i suoi scritti aiutassero a demolire in maniera semplice «le follie socialiste di ogni parte politica», sottendendo che l’egemonia della sinistra era andata ben oltre i confini tradizionali. La nefasta profezia della Lady di Ferro che salutava le teorie di Hayek come in grado di «cancellare le sconfitte passate e costruire le vittorie future» avrebbe portato quell’egemonia a ribaltarsi nel suo opposto: il fondamentalismo liberista avrebbe fatto proseliti nel campo dei partiti della sinistra.
Hayek riparte dal cuore dell’utopia liberale, dal postulato contradditorio e ideologico che la muove: l’egoismo produce benessere. Di più: l’affermazione dell’individuo è la garanzia del progresso dell’intera società. L’individualismo diventa modello antropologico, unica forma di vita possibile, la sola chiave attraverso cui leggere gli eventi. La nota sentenza della Thatcher, «la società non esiste», deriva da questa costruzione ideologica. Al punto che qualsiasi fenomeno sociale deve essere spostato su passioni individuali. La lotta di classe, ad esempio, ben lungi dall’essere il motore della storia si giustifica solo con il sentimento tutto personale e disdicevole dell’invidia. «Analizzando i motivi di queste richieste – scrive von Hayek a proposito della spinta verso una società di eguali – troviamo che esse sono basate sul malcontento che suscita il successo di alcuni o, per dirla in parole crude, sono basate sull’invidia. La tendenza attuale, che mira ad assecondare questa questione e a mascherarla sotto la rispettabile apparenza della giustizia sociale, sta diventando una grave minaccia per la libertà». E ancora: «Probabilmente una delle condizioni essenziali per la conservazione della società libera è quella di non incoraggiare l’invidia, né di avvalorare le sue pretese camuffandole da giustizia sociale, ma di trattarla (citiamo le parole di John Stuart Mill) come ‘la passione peggiore e più antisociale’».
Se si esclude qualche esaltazione edonista proveniente dal peggior Psi in pieno craxismo, il sistema politico bloccato italiano ha impedito fino al crollo del muro di Berlino che si potesse immaginare una qualche forma di controrivoluzione liberale paragonabile a quella che Thatcher prima e Ronald Reagan poi (che scelse tra i suoi consiglieri economici numerosi allievi di von Hayek) scatenarono. Poi, il tutti liberi della fine della prima repubblica diede il via alla pantomima liberale di Silvio Berlusconi. Anche quest’ultimo si mise attorno economisti e filosofi ultraliberali. Da loro arrivò l’idea di tirare fuori la questione dell’invidia sociale: la lotta di classe dei poveri contro i ricchi venne ancora trasformata in sentimento individuale e frustrazione da loser. L’idea ha poi contagiato il Pd di Matteo Renzi, del quale ricordiamo le invettive contro «gufi e rosiconi», e si è in qualche modo tradotta nelle argomentazioni di alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle: «In questo paese c’è un mucchio di invidia» ha detto di recente l’homo grillinus per eccellenza Alessandro Di Battista, che del tema dell’invidia ha fatto un piccolo tormentone, di fronte ai dubbi sull’operato del governo gialloverde.
Antonio Martino, economista ultraliberista e ministro nei primi governi Berlusconi, è solito consigliare la lettura della ponderosa e documentata storia culturale e sociale dell’invidia scritta dal sociologo austriaco Helmut Shoeck. Il quale denuncia l’egualitarismo con queste parole: «La tendenza manifestatasi a partire dalla Seconda guerra mondiale circa la clamorosa legittimazione e assolutizzazione dell’invidioso e della sua invidia, per cui l’individuo che può potenzialmente suscitare invidia è considerato, e va quindi trattato, come il criminale, come l’elemento asociale». Per Shoeck non solo il socialismo ma l’idea stessa di democrazia sono sostenuti dai membri della società che non sono in grado di «affrontare la propria invidia».
Prendere un sentimento sociale e individualizzarlo, relegarlo a passione triste, serve a mimetizzare una gigantesca contraddizione: sostenere che combattendo l’ossessione per l’uguaglianza si sta difendendo la libertà e al tempo stesso ponendo dei vincoli alla democrazia. L’utopia dello stato leggero ma funzionale, arbitro e guardiano neutrale dell’ordine, si incrocia con il pensiero ordoliberale, che come ha notato Michel Foucault in Nascita della Biopolitica, ha accompagnato, in maniera non lineare ma dimostrata dall’evoluzione delle biografie di alcuni dei suoi pensatori, l’ascesa del nazismo. Il pensiero ordoliberale invoca uno stato forte a tutela della potenza concorrenziale dal «nemico interno» del conflitto tra capitale e lavoro. «L’immaginario neoliberale non è l’utopia libertaria, non condanna lo stato all’inesistenza: lo assolda dentro la logica della concorrenza, che è tutt’altra cosa. Non si farà a pezzi questo immaginario preconizzando il ‘grande ritorno’ dello stato o la restaurazione della Legge», osservano Pierre Dardot e Christian Laval in Guerra alla democrazia (Derive Approdi, 2016).
David Harvey ha definito il neoliberismo come un modello di «accumulazione tramite spoliazione», di sottrazione di ricchezza ai poveri e ai beni pubblici. «La conquista più importante della neoliberalizzazione – sostiene Harvey nella sua Breve storia del neoliberismo (Il Saggiatore, 2007) – è stata quella di distribuire più che di generare la ricchezza». Lo stato diventa un Robin Hood al contrario che dismette ogni velleità di mediazione tra capitale e lavoro e si rifugia nella gestione dell’ordine e nella garanzia della proprietà privata. Ciò implica un compito tutt’altro che naturale e semplice. Si tratta di un onere gravoso, come dimostra il fatto che anche i governi più liberali hanno bisogno di spendere per governare. Il potere deve comunque sporcarsi le mani per regolare la produzione e la riproduzione sociale. L’esaltazione dell’individuo, della concorrenza, del libero dispiegarsi del mercato ha bisogno di uno stato che sorvegli, controlli, disciplini. Lo dimostra il fatto che il debito sovrano sia esploso proprio nel periodo dell’egemonia neoliberista. Servono soldi pubblici per controllare le strade in ossequio alla dottrina della tolleranza zero, occorrono risorse che finanzino una distorta forma di welfare morale piuttosto che welfare economico che trova applicazione in forme diverse, nella sussidiarietà del modello lombardo della sanità privata fino al cosiddetto reddito di cittadinanza del governo gialloverde.
*Giuliano Santoro, giornalista, scrive sul Manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo).
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