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Suarez non è un caso isolato

Michelangelo Pecoraro 27 Settembre 2020

Lo scandalo scoppiato intorno al calciatore uruguaiano mostra un mercato dell'accreditamento di competenze, gestito da enti pubblici o privati, che esiste da anni e che non fa che aumentare le diseguaglianze

Il caso mediatico scoppiato intorno al calciatore uruguaiano Luis Suarez, che stando alle accuse mosse dalla Procura di Perugia avrebbe ottenuto delle facilitazioni per sostenere un esame di lingua italiana per ottenere un certificato di livello B1 necessario a ottenere la cittadinanza, pur essendo clamoroso non può stupire chi si occupa del variegato mondo dell’istruzione in Italia. 

Certo, qualcuno più estraneo a questo mondo se ne può genuinamente stupire, mentre qualcun altro se ne interessa da tifoso, magari perché odia la Juventus, e lo ha già derubricato a favore verso questa società. Come un calcio di rigore regalato. Al di là della polemica di calciomercato, però, questo caso mostra chiaramente, ancora una volta, come le discriminazioni per motivi economici siano saldamente presenti in tanti ambiti della nostra vita. Come dice il cattivone di un noto film Disney: chi ha i soldi della legge se ne infischia. 

I primi a essersene accorti sono coloro che nel nostro paese aspettano la cittadinanza da una vita, vista la via crucis a cui sono costretti i migranti non milionari che richiedono la cittadinanza italiana. Ma anche chi conosce il sistema italiano di compravendita di crediti accademici e certificati sa che le cose possono funzionare così. 

Quella di Suarez – e dei certificati di lingua necessari all’ottenimento della cittadinanza – non è infatti un’eccezione; non stiamo parlando di un caso isolato. Dunque, anche se poi risulterà che non è andata esattamente come viene riportato in alcuni articoli giornalistici (ossia che si è trattato di un esame ridicolo accordato in anticipo, con il voto stesso stabilito in anticipo), questo caso può servire a diffondere un po’ di consapevolezza in più sul tema dell’accreditamento delle competenze. Un tema che può rischiare di apparire specialistico, fastidiosamente tecnico, ma che è di importanza fondamentale anche per gli effetti concreti sulla vita delle persone.

Questo meccanismo malsano vale non solo per le lingue: crediti formativi universitari (cfu) e certificati, che danno o favoriscono l’accesso a impieghi anche molto importanti per la nostra vita quotidiana, vengono comprati e venduti continuamente in un orrido mercato… semi-legale.  

Perché semi-legale? Perché si tratta di un mercato in cui operano enti ufficialmente autorizzati dallo stato italiano ad assegnare quei crediti e quei titoli. Enti pubblici, quindi, o enti privati che hanno ottenuto un riconoscimento dal ministero. In questi enti, spesso, si insegna e si valutano gli esiti dell’insegnamento-apprendimento anche molto bene, con grande professionalità. Ciò contribuisce a rendere ancora più complicata la situazione: all’interno della stessa università o scuola di lingue ci possono essere situazioni anche molto diverse, che vanno dalla più estrema severità nei giudizi al più becero mercato delle vacche. 

Basta mettere mezzo piede in questo frammento di mondo per rendersi conto di alcune enormi storture che lo corrompono. A me, per esempio, compaiono continuamente su Facebook e Google annunci di università (perlopiù telematiche) che vendono i famosi 24 cfu in discipline antropologiche, psicologiche e pedagogiche, necessari ad accedere ai concorsi per l’insegnamento. Nonostante al momento si tratti di un requisito fondamentale per l’accesso a una professione di capitale importanza, gli annunci che si leggono sono di questo tenore: Compra da noi i 24 cfu, esami in una settimana con la formula «Soddisfatti o rimborsati»!

Questo, se ci pensiamo un attimo, è un capolavoro di quella che potremmo definire pedagogia dello schifo: tale compravendita non solo introduce un elemento di incertezza sulla preparazione di persone che potranno andare in classe a insegnare, ma ha anche l’effetto di cambiare la percezione di chi ne fruisce. Gli insegnanti che andranno in cattedra comprando questi crediti, magari all’ultimo momento, potrebbero infatti acquisire sull’intero problema uno sguardo differente. Potrebbero, un domani, non vedere proprio un problema in questo tipo di certificazione e considerarlo «normale» – cosa non da poco per chi crede al valore dell’istruzione e alla necessità che risponda a principi di equità sociale. 

Non si tratta di fare le pulci a chi ne fruisce: vari motivi possono spingere una persona a comprare dei certificati in fretta e furia, probabilmente sapendo di andare incontro a una valutazione molto indulgente. Possiamo anche ipotizzare che molti degli insegnanti che faranno ricorso a queste scorciatoie, costretti da criteri sempre mutevoli, magari incoerenti con i piani di studio effettivamente disponibili quando erano all’università, o messi alle strette dalle mille difficoltà che il precariato impone, sarebbero stati in grado di ottenere quei crediti in un esame severo, impartito nei tempi e modi normalmente previsti. O possiamo discutere dell’opportunità stessa di tali crediti e del modo in cui spesso vengono impartiti, della loro effettiva utilità per insegnare bene. Rimane però il fatto che non tutti possono permettersi di comprarli, e che la semplice esistenza di un meccanismo di questo tipo finisce per violare, nella sostanza, l’uguaglianza di opportunità nell’accesso alla professione di insegnante.

Eppure questa situazione fa comodo a tanti, non solo ai proprietari di queste macellerie di certificati. Tra corsi, esami singoli, certificati, master e quant’altro, si parla di cifre importanti a livello nazionale: una dimensione economica che, crescendo, contribuisce a rafforzare le disuguaglianze e le discriminazioni su base economica nel nostro paese.

La distanza tra i ricchi e i poveri aumenta, insomma, e in un modo tra i più odiosi, almeno per chi è cresciuto pensando che davvero bastasse studiare, allenarsi, «dare il massimo», per ottenere degli esiti proporzionali al proprio impegno, a prescindere dalle condizioni di partenza. E invece, sotto l’apparenza «meritocratica», abbiamo una realtà in cui i ricchi possono permettersi scuole private semplificate, recupero anni, ripetizioni a tutto spiano, certificati di lingua, master, lauree, Erasmus e scambi all’estero, cfu extra, patenti di guida, certificati di idoneità informatica e chi più ne ha più ne metta. Basta mettere mano al portafogli.

Sembra un’esagerazione, ma non lo è: oggi una persona ricca può laurearsi, riempirsi di certificati di eccellenza e costruirsi un curriculum splendido, pezzo per pezzo, facendo molto molto meno del minimo indispensabile. 

*Michelangelo Pecoraro insegna e apprende per lavoro, si interessa da molti anni di insegnamento, apprendimento e politiche dell’istruzione e ha contribuito a fondare l’Associazione Laudes.

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