
Subaltern workers
«La questione dell’esistenza o meno delle classi – scriveva Bordieu – è essa stessa una posta in gioco nella lotta fra le classi». Oggi l'idea di «working class» deve essere adattata alla cangiante costellazione delle soggettività subalterne
«È nei dettagli che si vede il funzionamento del sistema di classe. È nei dettagli che le somiglianze vengono alla luce». Con queste parole D. Hunter introduce Chav. Solidarietà coatta, una sorta di apologo politico in cui l’autore ci parla di sé e della sua esperienza da marginale, dei suoi compagni, delle contraddizioni e delle esperienze condivise, in un continuo oscillare tra forme di violenza, sopravvivenza, mutualismo e autorganizzazione.
Chav, parola traducibile come «coatto», è un termine semplice, utilizzato nella costellazione semantica borghese con il solo significato generale di feccia dalla parte sbagliata della società e della storia, lontana e allontanata dall’universo morale del benpensante. Chav è una parola generalizzante, che vuole rendere omogeneo un gruppo composito, creando un facile quanto pericoloso strumento di disumanizzazione e semplificazione. Tuttavia, proprio il tentativo di comprensione della complessità sociale è oggi un passaggio fondamentale per sciogliere nodi importanti per ripensare profondamente la società e la sua divisione in classi.
Ma cosa significa oggi «classe»? Come e in che termini è possibile e sensato parlarne? In che modo possiamo ricollocare questo concetto nel dibattito pubblico contemporaneo senza essere tacciati di un passatismo poco cool? In che direzione è plausibile muoversi per conciliare lotta di classe e battaglie per il riconoscimento, creando nuove e più scrupolose mappature della diseguaglianza sociale che superino la discutibile distinzione tra «vita materiale» e «vita culturale»?
Pur consapevole di riferirmi a mondi spesso visti come antitetici e intimamente lontani, credo che si debba anzitutto partire dalla divisione – propria di un’interpretazione ortodossa e non collocata storicamente del marxismo – tra classe operaia e il resto dei soggetti oppressi, per metterla in discussione, raccontando l’eterogeneità della classe anche in epoche considerate più monoliticamente fordiste.
L’operaio-massa rappresenta un soggetto specifico di un preciso momento storico: si tratta della reificazione stereotipica di una tipologia e relazione di lavoro legata al ciclo di produzione fordista, che è stata raramente predominante nella storia e, quando lo è stata, è durata al massimo un paio di generazioni. Non solo: sulla base di questa circoscrizione temporale non è difficile intuire quanto le prime forme di aggregazione e azione collettiva siano nate non nelle grandi fabbriche, ma ben prima e altrove, dentro gli atteggiamenti, nelle voci e nelle pratiche di scambio, tra gli eroi di una narrazione che abita «nei bassifondi e nelle botteghe».
Per cercare di comprendere a fondo queste dinamiche, una discussione di profondità storica può rivelarsi uno strumento utile, sia per decostruire alcuni paradigmi che per cercare di sciogliere nodi problematici interni alle genealogie della rappresentazione odierna del mondo del lavoro e, più in generale, del tessuto della marginalità. Tuttavia, a partire dai tardi anni Settanta l’indagine sociale del lavoro ha vissuto una fase di profondo declino, in relazione alla duplice crisi, concettuale e materiale, attraversata dal lavoro in sé. Il cambiamento delle strutture economiche e sociali, unitamente al collasso del socialismo reale, ha sostanzialmente destrutturato buona parte delle forme tradizionali assunte dal lavoro, determinandone una perdita di status e di centralità politica.
La crisi materiale seguita alla transizione neoliberista e all’affermazione egemonica dell’ideologia dell’individualismo neoliberale si è accompagnata a una crisi profonda e multiforme che ha trasversalmente coinvolto società, istituzioni, cultura giuridica, orizzonti politici, ideologici e culturali: sono radicalmente mutate le forme di auto-rappresentazione e rappresentanza di lavoratrici e lavoratori; Il processo di giuridificazione del rapporto di lavoro e la relativa questione della legittimazione del ruolo del lavoro sul terreno della democrazia e della definizione degli spazi istituzionali del conflitto sociale; la capacità di pregnanza del discorso politico e sindacale; la centralità di una visione del mondo che poneva al centro il lavoro come strumento di emancipazione sociale, che delineava riferimenti ideali e generava identità. D’altra parte, una simile transizione ha portato con sé spostamenti considerevoli sull’asse della produzione di senso, in modo così netto che sembra ancora risuonare della fragorosa assenza di alternative percepite: there is no alternative, avrebbe appunto detto qualcuno.
Tutto ciò ha avuto naturali conseguenze anche sul piano teorico. Ciononostante, il momento di incertezza e la fase di transizione implicate dalla crisi hanno attivato un processo di rielaborazione intellettuale complesso che, specialmente a partire dagli anni Novanta, ha permesso di individuare nuovi nodi e aprire prospettive analitiche altre, rifiutando la marginalizzazione teorica del lavoro seguita a una dichiarata perdita della sua funzione sociale e politica. Tali fermenti hanno coinvolto anche la ricerca storiografica e, in special modo, hanno portato al delinearsi di un laboratorio sperimentale che definisce una larga area di interessi più che una vera e propria scuola storiografica: la cosiddetta Global Labour History.
Fine della dicotomia tra proletariato e sottoproletariato
Attraverso il serrato confronto tra studiosi di diversa formazione (tra cui quella storica, antropologica e sociologica) è stato effettuato un ampliamento dei parametri funzionali a una lettura sociale del lavoro. Come indicato esaustivamente da Christian G. De Vito in un articolo scientifico di approfondimento, è stato gradualmente possibile destrutturare schemi, ripensare concetti e allargare la rete in senso globale, portando i ricercatori a riformulare un’altra idea di società come società mondiale e così superando alcuni determinismi o rigidità in modo utile anche per lo studio dell’Europa contemporanea. È stata rimarcata la centralità nel sistema capitalistico dei rapporti di produzione prima che della circolazione delle merci e, soprattutto, è stata volta l’analisi oltre il lavoro salariato.
Marcel van der Linden, pioniere della Global Labour History, ha enfatizzato questo aspetto sia attraverso l’analisi storico-empirica che con una densa elaborazione teorica. Quanto emerge dalla sua ricca bibliografia è la rilevazione di una persistente compatibilità del capitalismo con forme di lavoro coatto, insicuro e non protetto: dal lavoro salariato al lavoro autonomo, domestico, riproduttivo; o ancora alle varie forme di lavoro di cura, di sussistenza; fino a servitù e schiavitù. Benché l’eredità culturale occidentale tenda verso l’idea di un percorso lineare diretto all’affermazione generalizzata del lavoro salariato libero, l’autore ha verificato sul terreno dell’analisi storica l’adattabilità del capitalismo a varie forme di lavoro eterogenee e ha rimarcato i confini sfumati tra salariati «classici» e altre lavoratrici e lavoratori, accomunati da una condizione di subalternità: ne deriva una definizione estensiva di subaltern workers, che rifiuta la contrapposizione dicotomica tra proletariato e sottoproletariato.
Sottolineando la comune subalternità di questa complessa massa di soggettività lavoratrici, van der Linden individua il carattere dirimente del lavoro subalterno nella sua mercificazione, ossia nell’interpretazione della forza-lavoro come forma-merce, il cui valore d’uso sta nella produzione di altre merci a loro volta funzionali a creare circolazione, profitto e altri processi di mercificazione. Per arrivare a ciò compie un’analisi serrata del doppio assunto marxiano per cui il lavoratore è possessore e portatore della sua forza-lavoro e non vende altro che questa: tali postulati vengono scomposti mostrando che il portatore e il possessore della forza lavoro possono essere distinti e che, d’altra parte, il portatore può anche non vendere la propria forza lavoro ma direttamente il proprio lavoro mercificato ad altri. La cessione della forza-lavoro viene quindi slegata da un’idea di vendita in via esclusiva da parte del suo portatore e possessore: può essere vendibile da una persona diversa dal suo portatore (si pensi al lavoro minorile); oppure vendibile condizionalmente assieme ai mezzi di produzione (si pensi ad alcune forme di lavoro a domicilio); o ancora vendibile pur non essendone in possesso (si pensi agli schiavi concessi in affitto).
L’analisi include dunque anche il lavoro schiavistico, in ogni sua forma storica, comprese le sue espressioni contemporanee: se per Marx lo schiavo rappresenta parte del capitale fisso, e non è in questo senso diverso da macchinari il cui valore è contenuto nel prezzo d’acquisto da ammortizzare con il tempo, van der Linden nota come il lavoro schiavile che produce merci rappresenti un’unità formata d’uso e di valore, composta dunque dal processo lavorativo e di creazione del valore. In sostanza gli schiavi impiegati in una piantagione producono zucchero, tabacco o quant’altro, tanto quanto i salariati nella stessa piantagione. Per l’autore appare dunque poco solida l’idea di uno schiavo che non produce valore, poiché la sua forza-lavoro, portata ma non posseduta, viene a sua volta interpretata come forma-merce il cui valore d’uso sta nella produzione di altre merci.
Tutte queste osservazioni, approfondite ampiamente in Il Lavoro come merce, portano a concentrare l’analisi sulla mercificazione del lavoro e ad accomunare una cangiante costellazione di soggettività subalterne e protagoniste del carattere in costante evoluzione della working class.
La classe come processo di soggettivazione
Il concetto di working class, inteso come aggregazione di tutti i lavoratori dipendenti salariati e liberi, è emerso verso la fine del XVIII secolo, dopo essersi storicamente affermato e radicato con la diffusione in occidente di nuove manifatture e industrie che hanno dato vita a gruppi di salariati che non potevano essere compresi né tra i lavoratori domestici né tra i lavoratori giornalieri o braccianti. Accettando tale definizione, la working class dovrebbe teoricamente fare dimensione a sé rispetto ai lavoratori autonomi, ai sottoproletari e ai lavoratori non liberi. Queste rigide divisioni schematiche sono state gradualmente problematizzate, a partire dagli essenziali spunti di riflessione introdotti da Edward P. Thompson.
Si è perciò cercato di promuovere un nuovo approccio che vede la classe stessa non come rappresentazione di un modello dato e definito cui adeguarsi, ma come frutto di una dinamica da cui emergono diversi percorsi performativi di soggettivazione: ciò ha imposto di riflettere sulla classe come soggettivazione non preesistente al conflitto sociale, ma come realtà prodotta da e dentro il conflitto stesso, attraverso canali di formazione che coinvolgono individui e gruppi eterogenei, soggettività e identità fluide e contraddittorie, contesti con irriducibili specificità, rispetto ai quali si tenta di ridurre quanto più possibile la tendenza alla semplificazione o all’astrazione modellistica. Questa rilettura storico-processuale del concetto di classe ha permesso di formularne una visione mutevole, che va oltre alle identificazioni legate al lavoro di fabbrica e che scioglie i nodi di un cambiamento pienamente in atto e di difficile comprensione.
Al contempo questo passaggio ha decostruito buona parte dell’impostazione rigida della lettura marxiana della classe, aprendo nuovi spazi all’incontro tra marxismo e intersezionalità. Riprendere oggi simili suggestioni assume un senso ulteriore, poiché la crisi pandemica ha scavato nei vuoti lasciati dalla trasformazione contemporanea del lavoro e ha restituito molte delle contraddizioni costitutive di questa impostazione. Il lavoro è diverso ma chiaramente esiste, la classe è mutevole ma articola la dinamica sociale e occorre parlarne a fondo, poiché, con le parole di Pierre Bourdieu, «finché ci saranno classi, classe non sarà una parola neutrale. La questione dell’esistenza o non esistenza delle classi è essa stessa una posta in gioco nella lotta fra le classi».
La situazione attuale ha scardinato alcuni aspetti che sembravano assunti come pilastri fondamentali del lavoro, imprigionato negli schemi dottrinari del neoliberismo. Mi riferisco ad esempio alla gerarchia delle competenze, rispetto alla quale sono andate cadendo alcune barriere tra attività intellettuali e manuali, portando a saltare il nesso tra produttività e salario. Le nuove retoriche formulate attorno alle definizioni dei «lavori essenziali» hanno svelato la tendenza alla svalorizzazione delle professioni che riguardano la riproduzione della vita. Queste sono state adesso implicitamente (e ancora molto parzialmente) rivalutate a fronte dell’emergenza pandemica rendendo evidente che la ragione per cui infermiere, badanti, agricoltori ecc. ricevono paghe così basse non è in alcun modo legata alla scarsa qualificazione. Risulta piuttosto centrale, di nuovo, il processo di mercificazione del lavoro, che marginalizza ciò che non appare funzionale alla massimizzazione del profitto. Tale aspetto sistemico incontra altre forme di esclusione, femminilizzate e razzializzate. Questo tipo di marginalizzazione si inserisce in un processo di lungo periodo che ha strutturato l’andamento storico del capitalismo, definendo diversi fronti di precarizzazione lavorativa e di vita, che se dapprima hanno riguardato più specificatamente alcune minoranze o località del Sud del mondo, adesso si sono generalizzate anche al panorama occidentale, rimarcando l’esigenza di estendere il confronto e l’ibridazione per costruire nuove lotte comuni a tutto il fronte subalterno.
In particolar modo un passaggio importante è stato quello relativo alla storicizzazione della precarietà. È interessante in questo senso pensare ad esempio alle condizioni lavorative delle operaie delle filande piemontesi del Settecento che, pur di sbarcare il lunario, erano costrette ad affrontare lunghi viaggi, a fidarsi della parola data, a sopportare le angherie dei datori di lavoro che puntualmente non rispettavano tempi e patti di remunerazione, approfittando della vasta offerta di lavoro e facendo profitto sulla riduzione dei costi a spese delle lavoratrici, con abusi di potere e in modo tanto informale quanto arbitrario. O ancora: con tutte le dovute cautele e differenziazioni si può paragonare la condizione di compartecipe del mezzadro con l’attuale condizione del collaboratore a progetto e della partita iva mono committente in posizione debole sul mercato del lavoro, laddove in entrambi i casi il lavoratore è cointeressato al buon esito del lavoro, del «progetto», in un rapporto di teorica autonomia lavorativa ma di subordinazione di fatto, entro una dinamica precaria lavorativa e di vita.
Il punto dirimente che emerge è quello di una complessa stratificazione della realtà storica e sociale del lavoro e del capitalismo, ricostruibile analizzando le diverse singolarità attraverso le connessioni nello spazio e nel tempo. Tutto ciò pone le basi per una ricostruzione globale della storia sociale del lavoro e per una sua scomposizione e potenziale riformulazione fondata su molteplici aspetti interconnessi: il rapporto tra capitale e lavoro; la funzione sociale del lavoro; il concetto storico-processuale di classe; il carattere trasformativo della working class; il ruolo dei lavoratori subalterni e il loro collocarsi in senso verticale rispetto ai canali della propria condizione di subalternità, ma anche in senso orizzontale, rispetto alla lunga durata e all’eterogeneità delle modalità di confronto, autorganizzazione e protesta osservabili in senso transnazionale. Sulla base di ciò è possibile aprire enormi spazi di ripensamento della soggettività lavoratrice, della sua dimensione collettiva, del suo carattere di classe e delle sue pratiche di organizzazione e solidarietà. Si potrà così orientare un futuro aperto a una conflittualità sociale condivisa e dedita ad allargare le maglie troppo strette di un’inclusività sociale erosa nel tempo, lacerata nell’oggi.
*Olimpia Capitano è studiosa di storia contemporanea, laureatasi nell’anno corrente presso l’Università di Pisa, autrice del libro Il PCd’I a Livorno. Premesse e linee di sviluppo. Si occupa di storia politica italiana e di storia sociale del lavoro, con particolare attenzione all’indagine delle strutture e del funzionamento democratico.
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