Succede solo da McDonald’s?
Il successo di massa degli sconti della più nota catena di junk food ci ricorda che il cibo è un osservatorio privilegiato per guardare alle caratteristiche delle società, del «modo di vita imperiale» e del capitalismo contemporaneo
Una premessa doverosa – o forse paranoica – a questa breve riflessione natalizia su capitalismo, junk food, identità, religione e altri temi sparsi: mentre mi accingo a scrivere sono assalito dal dubbio che quanto segue assomigli al memorabile editoriale della scorso luglio di Alain Elkann su Repubblica, quando il rampollo della nota famiglia di industriali fu illuminato sulla via di Damasco – che nel suo caso era Foggia – mentre, a bordo di un treno Italo, si imbattè in alcuni giovani (definiti «lanzichenecchi») intenti in attività esotiche tipo ascoltare musica contemporanea e parlare a voce alta, ma soprattutto colpevoli di non riconoscere sua maestà intento a leggere Proust. Effettivamente lo spunto di quanto segue nasce (anche) da conversazioni origliate a bordo treno nelle scorse settimane: a mia discolpa, si tratta di treni regionali frequentati principalmente da pendolari.
Nelle scorse settimane mi è capitato con una certa regolarità di sentir parlare delle offerte proposte da McDonald’s in questo periodo, la più nota delle quali risalente al 30 novembre, giorno di inaugurazione dell’iniziativa denominata ufficialmente Winterdays ma informalmente conosciuta come «calendario dell’avvento di McDonald’s». L’offerta inaugurale consisteva nella vendita di un Crispy McBacon Menu Large a 3 euro, contro i quasi 10 di listino (4,74 se acquistato tramite app). Se quello è stato l’episodio più pubblicizzato e discusso a livello mediatico, si tratta tuttavia di un ciclo di offerte durante il quale la nota catena di fast-food ha proposto sconti su base quotidiana da fine novembre fino al giorno di Natale.
Nel frattempo, la mia «bolla politico-mediatica» si interfacciava al fenomeno, e – come spesso accade – le narrazioni di questi due mondi (quello dei pendolari e quello della bolla) parlavano lingue completamente diverse. Questo è un problema con cui difficilmente riusciamo a fare i conti. Il problema non è chiaramente che la si possa pensare in modo diverso, il che anzi in questo caso è necessario per varie ragioni: gli impatti ambientali delle catene di fast-food, l’offerta culinaria drammatica per la salute degli umani e per la vita degli animali, le condizioni di lavoratori e lavoratrici e in generale tutto l’immaginario veicolato da McDonald’s e affini (non solo nel settore cibo) che da anni ha portato a parlare di McDonaldizzazione della società. Il problema è che mentre la mia bolla si indigna per questa «follia collettiva», l’identificazione col brand McDonald’s è più viva che mai presso ampi strati di popolazione, soprattutto giovanile, nonostante il marchio della grande M inizi ad avere i suoi anni (il primo ristorante, antesignano dell’attuale catena, fu aperto nel 1955).
Io vorrei provare a mettermi nei panni dei fan di McDonald’s. La banalità delle banalità, almeno per chi crede in una sociologia atta a comprendere i significati di tutte le idee e azioni anche quando a noi paiono irrazionali, sbagliate, ecc., è che bisogna prendere sul serio questo fenomeno.
L’indignazione si è in particolare concentrata sulle lunghe file, a volte sfociate in episodi di risse e congestionamento del traffico urbano, fuori dai McDonald’s di alcune città italiane che proponevano l’offerta del 30 novembre, quella del Crispy McBacon, «a soli 3 euro». Si è detto: «pensate a quanto tempo perdono in fila!»; «sono ore tolte alla vita, al tempo libero, all’impegno politico»; «tutta sta fila per risparmiare due euro!»; «quel risparmio economico lo avrebbero ottenuto lavorando meno di mezz’ora» (la mia preferita); «fanno tutto questo per mangiare cibo-spazzatura». Questo tipo di critiche perde completamente di vista l’elemento identitario costituito dal brand McDonald’s e dall’immaginario collettivo intorno a esso. È chiaro che poche persone fanno la coda per il panino in sé, qualcuna in più per il risparmio economico, tante (la stragrande maggioranza) fanno la coda proprio per fare la coda. E in questo non c’è niente di irrazionale. Sentono di partecipare a un rito collettivo, tanto quanto può esserlo un concerto: anche in un concerto non è tanto, o non è solo, la fruizione della canzone a fare la differenza, ma l’elemento narrativo e di appartenenza collettiva, e in parte la stessa epica della coda ai cancelli o la calca sotto palco, o la difficoltà nel deflusso post-show.
Per molte persone l’offerta economica non è il punto centrale: se l’osteria «da Mario» facesse un’iniziativa simile, non avrebbe la stessa fortuna. Probabilmente non l’avrebbe nemmeno Burger King, per non citare che un competitor diretto di McDonald’s: in questo senso, la religione dei consumi assomiglia a una sorta di un oligoteismo (un po’ politeismo, un po’ monoteismo) che offre un’ampia schiera di dèi minori ma mantiene la centralità di alcune divinità cardinali. La qualità o il gusto del cibo è un aspetto marginale in questa partita; il risparmio economico anche, almeno per la maggior parte dei consumatori, più o meno giovani. Infatti, al di là delle conversazioni, tutte fra adolescenti, origliate da me sul treno regionale della val padana, l’iniziativa ha avuto successo anche presso fasce di popolazione più anziane, e dunque tendenzialmente meno povere o comunque con un potere d’acquisto diretto e non indotto dal ruolo di figli. Per gran parte di queste persone, McDonald’s assume la funzione brucespringsteen (o forse meglio dire la funzione maneskin o la funzione edsheeran): la lunga fila è esattamente la ragione della partecipazione, è la condivisione sui social del momento collettivo, la narrazione epica della comunità, l’argomento di dibattito (sul treno, sui social, al bar, ovunque sia) a fare la differenza.
C’è qualcosa di vagamente religioso in questa vicenda: l’effervescenza collettiva di cui parlava il sociologo Èmile Durkheim, le caratteristiche rituali di cui parlava l’antropologo Arnold Van Gennep, e diverse altre chiavi di lettura sviluppate dalle scienze sociali classiche e contemporanee si prestano molto bene ad analizzare l’«assalto ai McDonald’s». Si tratta di un rituale collettivo in cui si riconosce la comune appartenenza a un’identità condivisa, simbolicamente rappresentata da un brand, cioè dall’elemento che sostituisce il Sacro nella modernità occidentale e ancor più nella sua accezione capitalistica. Il brand in questione per noi è (o è diventato) il simbolo del Capitale (così come la chiesa cattolica è, o è diventata, il simbolo di secoli e secoli di dominio coloniale, conversioni violente, caccia alle streghe, imposizioni morali di vario tipo); per altri McDonald’s è (o è rimasto) il luogo del compleanno da bambini, il posto dei primi pasti «indipendenti» da adolescenti o da studenti fuori sede, così come la chiesa è (o è rimasta) un luogo di socializzazione e appartenenza identitaria, oltre (e forse anche più) che la «casa di Cristo». Se è vero che dentro al capitalismo i brand diventano le nuove divinità, allora non è per niente un caso che McDonald’s giochi il suo immaginario facendo riferimento a un momento cardine del cristianesimo, ossia «l’avvento»: il confine fra blasfemia, marketing e semplice secolarizzazione è quantomai sottile.
Altrettanto non casuale, e non sottovalutabile, è il fatto che questa offerta viaggi solo ed esclusivamente su app. Non basta la fila e la partecipazione personale (la messa della domenica), e non basta nemmeno il ritorno economico e d’immagine: l’appartenenza al brand dev’essere costante e digitale (una versione moderna della tessera di partito, e un mix laico di osservanza delle tradizioni, otto per mille e reverenza ecclesiastica).
Penso sia necessario porsi davvero e seriamente la domanda di cosa siano oggi un bisogno, un desiderio, una scelta e un capriccio. Zygmunt Bauman ci ha insegnato che la società dei consumi di massa, o la «modernità liquida» usando il suo vocabolario, abbia comportato la trasformazione dei bisogni in desideri. Se è chiaro che sfamarsi è un bisogno, deve rimanere altrettanto chiaro che il cibo è qualcosa di più di proteine, zuccheri o carboidrati: è un fattore di costruzione comunitaria ma è anche e soprattutto sempre di più elemento di costruzione identitaria e vetrinizzazione sociale.
McDonald’s è autoaffermazione tanto quanto lo è il gruppo di acquisto solidale: è il desiderio e la rivendicazione di un’idea di mondo ancor prima che di cibo. Ed è un nostro bias pensare che sia un desiderio completamente inconsapevole o comunque eterodiretto: nell’adesione a McDonald’s c’è una scelta precisa, una razionalità rispetto al valore, come la definirebbe Max Weber.
Il capitalismo non è solo corporations, estrattivismo fossile e grandi macro-strutture; è anche la sua continua riproduzione nella vita quotidiana e nelle pratiche degli individui. Questo non significa far ricadere la responsabilità del sistema sulle spalle dei singoli individui, ma serve a ricordarci che il capitalismo non è un’entità avulsa dalla realtà. Il capitalismo è una cosa viva che per mantenersi in vita non necessita solo del potere ma anche della sua costante riproduzione nelle pratiche alla base della piramide sociale.
Come si chiede magistralmente Alice Dal Gobbo nel primo manuale di ecologia politica in lingua italiana curato da Luigi Pellizzoni e uscito quest’anno per Il Mulino: «Perché le persone sentono il bisogno di consumare così, e così tanto? Perché quella che di fatto è una necessità del capitale diventa anche una necessità soggettiva?». Mentre critichiamo e attacchiamo il potere delle grandi multinazionali ed eventualmente denunciamo la loro collusione con gli Stati e le organizzazioni internazionali, dobbiamo continuare a porci queste domande, e possibilmente farlo in maniera autoriflessiva, con la consapevolezza che tutti noi sentiamo la necessità di consumare tanto, spesso troppo.
Il cibo, e la sua catena sono un osservatorio privilegiato per guardare alle caratteristiche delle società contemporanee, del «modo di vita imperiale» e del capitalismo contemporaneo. In un libro di qualche anno fa (Una storia del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo), Raj Patel e Jason Moore – quest’ultimo coniatore del termine Capitalocene – ci dicono che se dovessimo individuare il simbolo del capitalismo contemporaneo faremmo meglio a guardare al Chicken McNuggets – ovviamente un prodotto McDonald’s – invece che agli smartphone o ad altri strumenti tecnologici di ultima generazione. Il ciclo del Chicken McNuggets riassume il modo in cui si perpetua il capitalismo, o per lo meno il modo in cui è riuscito a farlo negli ultimi decenni: è natura a buon mercato (i corpi dei polli completamente trasformati a livello genetico per diventare prodotti industriali e soddisfare le esigenze della grande distribuzione), cibo a buon mercato (quello che caratterizza i fast-food, a prescindere dalle offerte natalizie), energia a buon mercato (quella necessaria a far funzionare i grandi allevamenti dove sono stipati gli animali), lavoro a buon mercato (quello degli umani che lavorano in questi allevamenti, spesso sotto ricatto non solo salariale ma anche in termini di diritto di residenza/cittadinanza), cura a buon mercato (quella di questi stessi lavoratori e lavoratrici che spesso soffrono di disturbi psicologici in seguito a un lavoro sfiancante e intrinsecamente violento), denaro a buon mercato (i prestiti pubblici all’industria della carne e i profitti privati), vita a buon mercato (la definizione di dicotomie gerarchizzanti che strutturano tutto il modo di pensare tipico della modernità occidentale contemporanea, ben prima della macchina a vapore).
Per perpetuarsi questo tipo di sistema necessita di almeno due cose: condizioni climatiche minimamente adatte (e queste, notizia positiva/negativa, lo sono sempre meno), e riproduzione nelle scelte quotidiane degli individui, certamente influenzate da pubblicità, propaganda e quant’altro, ma che scelte rimangono, e come tali devono essere analizzate. L’obiettivo politico dev’essere quello non solo di predisporre delle alternative di sistema e di scelta, ma anche renderle appetibili: non solo a livello gustativo o eventualmente ecologico, ma anche a livello identitario e di riconoscimento collettivo. Limitarsi a criticare chi sceglie McDonald’s senza porsi il problema di individuare alternative popolari – in termini sia di costi che di immaginari – è parte del problema.
L’affaire McDonald’s/calendario dell’avvento ci dicono che avere ragione non basta più, se mai è bastato a qualcosa. Quella ragione va fatta uscire dalle nostre bolle, dai nostri giornali e dalle nostre anime, e resa maggioritaria; altrimenti è pura testimonianza. Per certi versi è più difficile cambiare il paradigma McDonald’s che intervenire sulle istituzioni estrattiviste, colonialiste e guerrafondaie, ma almeno lì – nelle file fuori da McDonald’s – possiamo ancora sperare di trovare potenziali alleati. E questa è una nostra scelta, e anche un nostro bisogno.
*Niccolò Bertuzzi è ricercatore e docente di sociologia politica ed ecologia politica all’Università di Parma, e membro dell’Environmental Social Humanities Lab.
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