
Tolo Tolo: il razzismo è affare dei bianchi
Il film di Checco Zalone disturba perché mette in scena l’ossessione degli italiani per gli uomini e le donne che vengono dall’Africa. E ci ricorda che il razzismo colpisce i neri ma è un problema dei razzisti
Il primo gennaio 2020, giorno di debutto di un decennio che si è aperto con la promessa di una terza guerra mondiale e Luigi Di Maio come ministro degli esteri, sfidando coraggiosamente il freddo e il colon legittimamente irritato dalla serata precedente mi sono trovata al Multicinema Galassia di Legnago, profonda provincia di Verona, Veneto, Nord Est. Con me altri e altre sei tra familiari e consorti. Sette persone diverse per genere, età, «razza», provenienza geografica, capitale culturale ed economico. Tutto ciò per dire che io, Tolo Tolo, l’ho visto. L’ho visto in mezzo a una sala piena di persone differenti da me. Lo sottolineo perché nonostante io sia una (più o meno latente) neo-platonica e mi capiti di pensare spesso che le idee, in nuce, siano tutte dentro di noi – e non attorno, come sosteneva invece Megan Gale per la Vodafone nei primi 2000 – credo in questo caso che per giudicare il prodotto sia bene averne quantomeno preso visione. Non parlo solo del film, ma dell’intera operazione di ideazione e marketing che vi soggiace.
Quest’operazione nasce prima del video Immigrato – che ha lanciato la popolazione italiana bianca (e non solo) in un misto tra ilarità e panico morale – ma soprattutto si inserisce in un più generale movimento di sfottò e «trollaggio» della paranoia italica «del migrante nero» che lo precede e lo eccede anche parecchio. L’apice di questo approccio può essere visto in Bello Figo. Lui «non paga affitto». Lui «non fa opraio». Bello figo è il polo nero della relazione di cui Zalone rappresenta il polo bianco. Nel mezzo c’è spazio per diverse sfumature e anche per una decisa rottura della linearità di questo spettro, di cui troviamo molte testimonianze, in particolare femminili, basti pensare all’ironia con cui Karima 2G si riappropria della «scimmitudine» usata come arma dal leghista Roberto Calderoli verso la parlamentare europea Cecile Kyenge.
Per capire da dove viene Immigrato è bene seguire una traccia che porta dritto dritto all’Hotel Pesaro – fantomatico luogo inventato dalla pagina facebook «Prima gli immigrati» – abitato dagli Italiani del Futuro, da cui Zalone potrebbe aver tratto forte ispirazione. In un ribaltamento ironico del «prima gli Italiani», dall’Hotel Pesaro, grazie al contributo di 35 euro al giorno, al Wi-fi e al calore delle donne dei leghisti (sic!), gli immigrati Neri si stanno preparando a rendere l’Italia «grande di nuovo». Sanno che è il loro momento, che gli italiani del passato hanno affossato il paese e che ora «tocca a loro». È un progetto composto da circa otto giovani (tra italiane-italiani-migranti Neri) residenti in Italia e altri paesi europei, che hanno condiviso l’esigenza di rispondere in maniera creativa e parodistica al proliferare di stereotipi e discorsi razzisti in Italia.
Questo rende ancora più evidente come Tolo Tolo non sia un film che parla della rotta dei migranti subsahariani: protagonista indiscussa è l’italianità con la sua ossessione per le migrazioni dall’Africa, incarnata da Zalone e riassunta perfettamente nella scena in cui il regista/attore scopre sollevato che anche nell’Africa più nera può sentirsi a casa, perché: «anche voi ce l’avete il patriarcato! Che bello!». Allo stesso tempo, in patria, l’ascesa di un novello Di Maio, incornicia, o se vogliamo struttura, l’italianissima vicenda dell’imprenditore Zalone, uomo bianco assillato dalla finanza, odiato dalla famiglia e dalle ex-mogli e affetto da attacchi di «fascistite».
Ma anche fosse una commedia sulla rotta libica, e non sull’ossessione italica per le migrazioni ambientata nella rotta libica, il film di Zalone offrirebbe comunque a tratti una raffigurazione più onesta di altre. I toni grotteschi e surreali adottati permettono infatti di portare sullo schermo co-protagonisti migranti Neri fuori da quella didascalia della sofferenza che caratterizza troppo spesso le raffigurazioni che si vogliono antirazziste. Il coraggio di alcune scelte registiche quali quella del naufragio, scena commovente inaspettatamente restituita sotto forma di musical, dimostrano una delicatezza che sfida la pornografia del dolore a cui siamo abituati.
Il critico cinematografico Paolo Mereghetti ha paragonato quest’evoluzione di Zalone, al secolo Luca Medici, al lavoro di Alberto Sordi. Con l’icona della cinematografia italiana in effetti il regista condivide quello sguardo amaro che non lascia speranza di redenzione ai personaggi inscenati. Questo è lo scarto più significativo di un film che finge di portare sullo schermo una commedia migrante ma regala invece uno spaccato impietoso della tragedia italiana. La cosa interessante è che pare che questo aspetto sia stato colto dalla destra molto più che dalle sinistre, ponendo interrogativi importanti che esulano dal film.
È innegabile che vi sia una vocazione minoritaria nelle schiere sinistre, e un’arte dell’essere offesi che pretende infiniti rehearsal, non sia mai si perda l’abitudine. Quest’incapacità di prendersi una soddisfazione, questa paura di sporcarsi di pop, di essere fraintesi – ma anche intesi, perché sia mai che si debba trovare qualcosa di nuovo da dire poi – ci rende malmostosi e, francamente, noiosi. A questo va aggiunto che l’attenzione verso il discorso e la rappresentazione – elementi fondamentali di analisi ma contemporaneamente oggetti ambigui e costantemente ri-significabili e reinventabili – è indispensabile ma deve mantenere, per essere lucida, un contatto con la materialità che attraverso questi simulacri viene raffigurata. E questa materialità parla di attori e attrici Neri sullo schermo e sale piene di spettatori paganti che ridevano fuori sincro – ognuno ferito nelle proprie debolezze, ognuna sollevata e divertita quando a prendere corpo erano le vulnerabilità dell’altro. Il narcisismo postcoloniale dell’avventuroso reporter francese, il razzismo al contrario subito da Zalone (ero l’unica non bianca in sala. L’unica che ha riso sguaiatamente quando l’inetto Checco, preso da un vittimismo degno di un camerata, denuncia il razzismo che subisce in quanto bianco).
Vi sono però delle ombre sulla produzione, a cui il regista dovrebbe essere chiamato a rispondere, su tutte l’accusa di maltrattamenti rivolti durante i lavori, che avrebbe lasciato oltre settanta comparse per sei ore su un gommone a largo di Malta. Sembra che le comparse siano state reclutate nei quartieri più multietnici di La Valletta e che per tutta la durata delle riprese non abbiano potuto usufruire dei servizi, acqua e cibo compresi. Quest’accusa, risalente a luglio 2019, non ha al momento ricevuto smentite dalla Malta Film Commission, che ha richiesto l’intervento della Dir (il dipartimento maltese di controllo per le condizioni di lavoro) nelle indagini. Se quanto denunciato dovesse dimostrarsi vero, e non come ha riportato la produzione Taodue, frutto di una schermaglia sul set, l’accaduto sarebbe doppiamente grave, data la portata anche simbolica del fatto in relazione al film.
Infine, volevo rivolgermi direttamente al compagno Checco, che naturalmente leggerà questa recensione:
Checco, io ho apprezzato l’operazione. È stata coraggiosa. Hai fracassato le ovaie a tutte. Lo sapevi che avresti aizzato un malcontento generale su un tema spinoso. Lo sapevi che non potevi accontentarci: noi non siamo contenti. Ma hai preso parola lo stesso e lo hai fatto rimanendo quella macchietta di italianità che sei. Lo apprezzo. Certo se fossi davvero tu ad aver scritto il post qua sotto toglieresti ogni ambiguità… Perché i soldi sono soldi e dopo aver fatto 30 trollando tutti, fai 31! Pensaci, potresti sganciare la grana ed essere davvero per tutti un compagno.

*Mackda Ghebremariam Tesfaù è dottoranda in scienze sociali all’Università degli studi di Padova, dove sta concludendo una tesi sulle pratiche di accoglienza antirazziste con un focus sulla cosiddetta accoglienza in famiglia. Nata e cresciuta suo malgrado a Verona, per necessità si interroga da un po’ sull’antirazzismo
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