
Toussaint Louverture, la leggenda è la storia
280 anni fa, il 20 maggio del 1743, nasceva l’uomo che guidò gli schiavi di Saint-Domingue nell’epica rivolta che portò all’indipendenza di Haiti, prima «repubblica nera» della storia umana
Nel grande libro della Storia, così come nel saggio che Aimé Césaire gli dedicò nel 1960, Toussaint Louverture. La Rivoluzione francese e il problema coloniale, il più celebre leader della resistenza anticolonialista – cui si ispira esplicitamente il logo di questa rivista – fa la sua apparizione anni dopo la seduta inaugurale degli Stati generali che tradizionalmente sancisce l’inizio della Rivoluzione francese, il 5 maggio 1789; oltre due anni dopo l’assalto della Bastiglia del 14 luglio.
È innegabile che quest’uomo di quasi cinquant’anni, nato il 20 maggio del 1743 e di stanza alla piantagione Bréda vicino a Haut du Cap, sia in qualche modo il detonatore, il punto di innesco delle idee che da Parigi – in questo caso in maniera assai tortuosa – varcarono l’Oceano Atlantico e portarono a uno dei più strepitosi stravolgimenti dell’età contemporanea, e in generale degli ultimi secoli.
La classe degli oppressi di uno dei capisaldi del sistema coloniale e schiavistico del XVIII secolo, Saint-Domingue, una delle colonie più ricche del mondo dell’epoca, la cui popolazione era per quasi il novanta per cento composta da schiavi, sfidò il mostro e lo vinse, dimostrando come «i diritti dell’uomo [fossero] stati spesso ridotti ai soli diritti dell’uomo europeo», avviando l’inizio della fine dell’«abolizione dell’era coloniale nell’emisfero americano». Si incrinò così definitivamente il mito dell’invincibilità di quell’Europa imperialista e colonialista che aveva messo in ginocchio il mondo intero.
La rivoluzione degli schiavi
Personaggio in parte inafferrabile, controverso – ma quale essere umano non lo è? – e discusso, Toussaint Louverture divenne globalmente celebre già all’epoca dei fatti e poi, negli ultimi decenni, soprattutto grazie a quello strepitoso classico firmato da Cyril Lionel Robert James e uscito nel 1938: I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco, uno dei saggi storici più influenti del XX secolo. Non sono mancati, anche in tempi recenti, lavori che restituiscono la complessità di come la rivoluzione di Saint-Domingue seppe prendere piede e di come accadde in particolare grazie alla leadership di Louverture, al suo pragmatismo, alle sue abilità militari e alla sua diplomazia machiavellica, ma il libro di Césaire resta una pietra miliare per la sua lettura lucida dei «tre tempi» necessari alla maturazione del processo rivoluzionario: Césaire, da politico di lungo corso – e poeta, e narratore, e saggista –, scavò a fondo nelle contraddizioni di quel graduale disarcionamento del potere «bianco» nei Caraibi, primo tassello effettivo del lunghissimo processo di decolonizzazione, culminato non a caso proprio nell’anno in cui la prima edizione di Toussaint Louverture vide la luce, il 1960.
I fatti, innanzitutto. Come già aveva evidenziato James, la rivoluzione degli schiavi di Haiti fece deflagrare la contraddizione più eclatante tra princìpi e interessi: considerato il fatto che la tratta e la schiavitù erano «la base economica della Rivoluzione francese»” e che «un vasto impero mal si accorda con gli animi onesti», nel proliferare del privilegio strutturato sulla linea del colore «fu la contesa tra bianchi e mulatti a risvegliare gli schiavi dormienti».
Il «sipario» su questa contesa in Francia si aprì il 2 marzo del 1790, quando si assistette al «primo grande dibattito coloniale della storia parlamentare francese», come ha ricostruito Césaire, di fronte alla pressione dei mulatti che, in scia alle richieste dei coloni, rivendicavano parità di diritti anche per sé, e che – ignorati – furono così spinti alla rivolta. La successiva «rivoluzione dei negri» (Cèsaire stesso alterna i termini noir e nègre) fu resa infatti possibile dai due tentativi falliti in precedenza, in primis quello dei coloni «bianchi» che cercarono di accedere ai diritti che l’Assemblea nazionale promuoveva in linea teorica per «tutti gli uomini» esitando però per quelli nati al di fuori dell’esagono, e tenendo fuori da quel perimetro chiunque avesse la pelle più scura della loro: gli «uomini di colore», di norma mulatti figli di relazioni tra coloni e schiave o ex schiave. Proprio il tentativo di ribellione dei «mulatti», degli uomini «di colore» liberi, pur non curandosi affatto, tendenzialmente, dei diritti negati alla gran massa degli schiavi, spalancò le porte della grande occasione per quest’ultima. Sono, in estrema sintesi, i tre celebri libri che compongono il saggio di Césaire (un monumento storiografico e narrativo, frutto di un lavoro pachidermico, che ebbe non poche intuizioni interpretative destinate a restare) ripercorrendo gli eventi al di qua e al di là dell’Atlantico in particolare dal 1789 al 1804: La fronda dei ricchi bianchi; La rivolta mulatta; La rivoluzione negra.
Chiave di volta per quest’ultima furono i giorni di fine agosto del 1791, quando i mulatti tentarono invano di cogliere l’occasione di una «rivolta negra» – quando «innumerevoli orde, con la rabbia nel cuore e i coltelli alla mano, inondarono la pianura del nord» di Saint-Domingue –, sfruttandola e poi cercando di fermarla per tempo: sarebbero stati proprio loro, tra marzo e aprile del 1793, a prendere d’assalto i luoghi del potere bianco e a vincerlo temporaneamente. Annota Césaire: «È un dato di fatto che gli uomini di colore erano riusciti in poco tempo a trasformare una piccola casta disprezzata, un gruppo sociale tenuto al guinzaglio – la Rivoluzione è la locomotiva della storia –, in una classe che aveva prevalso contro le altre e senza la quale era impossibile governare».
Ma il «problema mulatto» e i rivoluzionari di Francia – tolte alcune voci isolate – non avevano realizzato in maniera sufficientemente lucida la questione anche in termini brutalmente quantitativi: il «terribile problema negro». Non c’era nulla da aspettarsi da Parigi, sintetizza ancora Césaire: «le assemblee francesi chiacchierarono tanto riguardo ai negri ma fecero molto poco per loro». E infatti in quegli stessi giorni di fine agosto del 1791, mentre duecento zuccherifici e seicento piantagioni di caffè venivano distrutti e centinaia di bianchi uccisi, emerse il leader che raggiunse la rivolta «quando questa, con la sua costanza, era nel momento in cui poteva trasformarsi in insurrezione».
Un uomo, un mito
Ad agosto del 1791 entrò sul palcoscenico della Storia Toussaint Bréda, che deciderà di essere, tre anni dopo, «Toussaint Louverture» – ed entrò per restarci. Nel lavoro di Césaire è introdotto così, con toni epici, con un trasporto che percorre tutta l’opera del cantore della négritude:
Era il cocchiere di un coltivatore, Bayon de Libertas, procuratore della habitation Bréda appartenente al conte Noé, da cui deriva il nome con il quale Toussaint fu designato per un certo periodo: Toussaint Bréda, detto Louverture.
Uomo di quarantotto anni, sapeva leggere e scrivere, godeva tra i suoi di un certo prestigio dovuto sia alla sua risolutezza che alla superiorità intellettuale.
Era per la ribellione una preziosa recluta. Talmente preziosa che non si era in grado di stimarne l’importanza.
Accogliendo il «vecchio Toussaint» la ribellione credeva di accogliere una specie di Nestor. Era in effetti un capo, cioè un capo che la ribellione si stava assegnando da sola…
Toussaint era un uomo di tatto. Seppe insinuarsi sulla scena per prenderne possesso senza allarmare nessuno.
«Quando Toussaint Louverture arrivò – scrive Césaire In guisa di conclusione – fu per prendere alla lettera la dichiarazione dei diritti dell’uomo»: dopo aver scandagliato ogni piega dell’«immorale pregiudizio del colore» che mise la Rivoluzione francese davanti a sé stessa, dal momento che dibattito dopo dibattito tra il 1790 e il 1791 non si era fatto che confermare l’istituzionalizzazione della schiavitù, il poeta martinicano rileva come non potevano certo essere i «bianchi», né i mulatti complici, a far scattare la scintilla della rivoluzione. Ci voleva una «mente politica» convinta che la conquista della «libertà generale» sarebbe stata «un compito a lungo termine», e oltretutto un compito «del popolo nero, che doveva far maturare quest’idea nella loro testa e non nella testa dei coloni». E così fu.
Toussaint Louverture seppe condurre il suo popolo militarmente e, allo stesso tempo, «forgiare una nazione nel bel mezzo della lotta». Nel cuore degli anni Novanta del Settecento, nei Caraibi, nacque così «un capo per il popolo nero di Saint-Domingue: un capo rivoluzionario, un uomo legato alle masse, che rivelava nuove capacità mano a mano che gli eventi lo investivano di nuove responsabilità. Uomo di pensiero, uomo d’azione, diplomatico, amministratore, tutte qualità che si affermavano nel momento in cui se ne mostrava il bisogno. Tutto questo fu Toussaint Louverture; e fremiamo solo al pensiero che il suo genio, se trascurato dagli uomini e inutilizzato, si sarebbe spento nella schiavitù».
Gli anni che seguirono furono tremendamente complessi, e quelli tra il 1794 e il 1801 videro le truppe dei ribelli di Saint-Domingue da lui capitanate mettersi al servizio della Repubblica francese che il 4 febbraio del 1794, dopo quasi quattro anni di dilemmi, esitazioni e cerchiobottismi, aveva infine portato il lungo corso della rivoluzione francese all’abolizione della schiavitù.
Louverture fu un uomo ambizioso – ma quale condottiero non lo è? – con atteggiamenti ambivalenti e anche contraddittori, cambiò più volte, letteralmente, bandiera: monarchico prima, poi si trovò a collaborare con altri due imperi, quello britannico e quello spagnolo, infine con il tricolore francese, per essere poi tradito dalla stessa Francia. Seppe però maturare dei princìpi saldi, inscalfibili, radicali, ben sintetizzati da una sua lettera inviata al Direttorio a giugno del 1798, nella quale commentava amaramente le trame sotto i suoi occhi a Saint-Domingue, e rinnovava il giuramento a nome suo e degli uomini e delle donne che si erano liberati delle catene, e cioè «di preferire di essere sepolti sotto le rovine di un paese resuscitato dalla libertà piuttosto che patire il ritorno alla schiavitù». E aggiungeva, nell’eventualità che si ristabilisse quella pratica: «vi dichiaro che sarebbe come tentare l’impossibile; abbiamo saputo affrontare i pericoli per ottenere la nostra libertà, sapremo affrontare la morte per custodirla».
Toussaint Louverture fu certamente riluttante a rinunciare al potere che aveva raggiunto, come evidenziato dal dibattito storiografico ripreso da Charles Fordsick su Jacobin; e fu anche un uomo – questa una delle tesi di Césaire – che non seppe, pur volendolo, riconvertire l’economia di Saint-Domingue in tempi sufficientemente rapidi, incagliato nella difficile e drammatica fase di transizione tra un sistema strutturato sullo sfruttamento schiavistico o paraschiavistico – e che avrebbe avuto lunga vita, come l’impero del caffè dimostra ancora oggi in maniera incontrovertibile, per fare solo un esempio legato alla straziante storia caraibica – e uno nuovo tutto da inventare. Seppe però capire che la situazione richiedeva il suo sacrificio: che «la sua persona, immischiata come era in tutti gli eventi», era diventata un ostacolo all’unità del popolo di Saint-Domingue, il cui territorio era tornato sotto il controllo della Francia del «console» Bonaparte: e così Louverture si consegnò di fatto ai francesi, e si fece da parte.
Salendo a bordo al largo di Cap-Français disse al comandante del Le Héros: «Rovesciando me avete abbattuto a Saint-Domingue solo il tronco dell’albero della libertà dei neri; ma ricrescerà dalle sue radici perché sono numerose e profonde».
Finali amari, finali aperti
La lotta che la popolazione di origine africana di Saint-Domingue condusse per dodici anni – sconfiggendo i coloni bianchi e i soldati francesi, respingendo un’invasione spagnola, una spedizione britannica e un ultimo attacco francese – portò infine a una vittoria epocale che lo «Spartaco nero», il primo «supereroe nero» (così definito da Sudhir Hazareesingh), non avrebbe visto. Pur con tutte le sue contraddizioni, quella di Saint-Domingue fu la prima e la sola rivolta di schiavi a farsi rivoluzione e a portare – come sottolineato da Marco Bascetta – «alla fondazione di uno stato indipendente, seppure destinato a un’esistenza decisamente infelice». E Toussaint Louverture è ancora oggi «il centro della storia haitiana, probabilmente il centro della storia caraibica», come scrive ancora Césaire, con un tono e un ritmo deliberatamente agiografici: «Gli lasciarono delle bande, ne fece un esercito. Gli lasciarono una jacquerie, ne fece una Rivoluzione. Di una popolazione fece un popolo. Di una colonia fece uno stato, o meglio una nazione».
Toussaint Louverture morì prigioniero dei francesi, a Fort de Joux, il 7 aprile del 1803, pochi mesi prima che venisse proclamata l’indipendenza della prima «repubblica nera» della storia umana, Haiti, il 28 novembre «a nome dei neri e degli uomini di colore», mentre in Francia la schiavitù era stata appena reintrodotta – e sarebbe rimasta in vigore per altri quattro decenni –, alla faccia del decreto del 1794.
Come disse in quel frangente Jacques-René Hebert, pochi giorni dopo assassinato durante il Terrore, «arriverà un giorno, spero, in cui tutti i popoli della terra, dopo aver sterminato i propri tiranni, formeranno una sola famiglia di fratelli. Forse un giorno turchi, russi, francesi, inglesi e tedeschi, riuniti nello stesso Senato, comporranno una grande Convenzione con tutte le nazioni d’Europa. Sarebbe un bel sogno che, tuttavia, potrebbe realizzarsi. Non credo però che, come profetizza Anacharsis [Cloots], dovremmo fare i don Chisciotte e intraprendere una crociata universale per convertire alla libertà coloro che ancora non sono degni di conoscerla. Sta al tempo e alla ragione un tale miracolo. Cominciamo a stabilire da noi la libertà!».
La Rivoluzione francese, «al cospetto della questione coloniale» aveva dovuto «affrontare sé stessa», e a confrontarsi «con i princìpi da cui era nata», scrive ancora Césaire: esitò, tentennò, e arrivò a fagocitare sé stessa. Ma imparò anche, grazie alla determinazione di Toussaint Louverture e del suo esercito di schiavi, che la libertà non è una forza che puoi fermare a tuo piacimento. Che gli oppressi non hanno bisogno del permesso dei tiranni, per spezzare le catene: la fronda può diventare rivolta, e la rivolta rivoluzione.
*Carlo Greppi, storico e scrittore, è curatore della serie “Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti” di Editori Laterza, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020). I suoi ultimi saggi sono Il buon tedesco (Laterza 2021, Premio FiuggiStoria; Premio Giacomo Matteotti) e Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo (Laterza 2023). È inoltre autore di un manuale per il triennio della scuola secondaria superiore di secondo grado (Trame del tempo, di C. Ciccopiedi, V. Colombi, C. Greppi, M. Meotto [Laterza 2022]), del quale firma il terzo volume: Guerra e pace. Dal Novecento a oggi.
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