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Tra i lobbisti e le lotte

Leila Chaibi Francesco Massimo Nicola Quondamatteo 3 Dicembre 2022

Leila Chaibi, europarlamentare, racconta il dibattito e i conflitti attorno alla direttiva Ue sul lavoro nelle piattaforme: la posta in palio è il concetto di subordinazione

Leila Chaibi è europarlamentare dal 2019, eletta con La France Insoumise ed esponente del raggruppamento della sinistra (The Left) a Bruxelles e Strasburgo. Fa parte delle commissioni Employment and Social Affairs, Transport and Tourism e Constitutional Affairs. Due dei fronti su cui Chaibi è più impegnata al Parlamento europeo sono le mobilitazioni transnazionali dei lavoratori e delle lavoratrici e la lotta all’uberizzazione, tema molto sentito in Francia anche per via della vicinanza culturale e ideologica tra il Presidente Emmanuel Macron e la narrazione veicolata dalla multinazionale di servizio taxi – attestata recentemente anche dagli Uber Files. Con Leila Chaibi abbiamo parlato della discussione attorno alla Direttiva europea sulla regolamentazione del lavoro di piattaforma, del peso dei lobbisti sul processo decisionale dell’Ue, della direttiva sul salario minimo, della crisi inflazionistica in corso, dei nuovi rapporti di forza in Europa in seguito alla vittoria elettorale della destra italiana e di immigrazione (tema nuovamente caldo in seguito allo scontro tra Italia e Francia sui salvataggi delle navi delle Ong). L’intervista è stata realizzata online in due momenti (23 e 28 novembre).

La lotta per l’approvazione della Direttiva europea sul lavoro di piattaforma è ancora in corso. Qual è la genesi della proposta e quali gli ultimi sviluppi in materia? Qual è la posizione dei vari attori sociali e quali possibili risultati prevedi?

Questa è una grande questione ed è la ragione per cui siamo molto impegnati in questo periodo. Sì, la lotta è ancora in corso e noi in Commissione Employment and Social Affairs dobbiamo esprimerci sul mandato del Parlamento, sulla posizione da difendere nel dialogo a tre con Commissione e Consiglio. Per questo motivo stiamo avendo molti incontri negoziali. 

L’anno scorso, il 9 dicembre 2021, la Commissione europea ha pubblicato una proposta di Direttiva sulle lavoratrici e i lavoratori di piattaforma. Il dibattito ruota attorno al concetto di presunzione di subordinazione, se si deve presupporre che i lavoratori di piattaforma siano autonomi o subordinati. La presunzione di subordinazione c’è nella proposta, il che significa che si suppone che le piattaforme abbiano una responsabilità, la responsabilità di essere datori di lavoro. La relazione di subordinazione esiste, perché le piattaforme sanzionano e controllano i lavoratori. Per venire alla genesi della proposta, quando la proposta della Commissione venne fatta un anno fa, non cadeva dal cielo. Essa era piuttosto il risultato dell’assestamento di equilibri di potere, di due anni di lotte dentro e fuori le istituzioni europee. All’inizio nel 2019 – l’anno in cui sono stata eletta – la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen disse che noi (Parlamento) e loro (Commissione) avremmo lavorato sul tema del lavoro di piattaforma. E quando disse questo non era una buona notizia per i lavoratori dal momento che le piattaforme pensavano di avere un’opportunità, l’opportunità di legalizzare quello che i tribunali del lavoro sostenevano essere illegale ovunque in Europa. Avevamo piattaforme che entravano nel mercato dicendo di essere meri intermediari tra lavoratori autonomi e i loro clienti. Ma i lavoratori andavano dal giudice e dicevano: «Ok, guarda, sono un autista di Uber e si suppone che io sia un lavoratore autonomo. Ho comprato la macchina perché pensavo di essere il capo della mia azienda individuale. Ma alla fine non scelgo il prezzo della corsa né il modo in cui lavoro. Non sono un lavoratore autonomo, non ho la libertà del lavoratore autonomo». E la maggior parte delle volte i giudici, quando i lavoratori hanno sollevato la questione di non essere indipendenti, hanno riclassificato il rapporto da un rapporto commerciale a un rapporto di lavoro dipendente. Ma di fronte a questo le piattaforme hanno pensato di non curarsene, anche perché hanno ritenuto – come, dall’altra sponda, eravamo soliti pensare anche noi – che le politiche europee sarebbero state fatte negli interessi e in favore delle lobbies e delle aziende piuttosto che in favore dei lavoratori e delle lavoratrici. L’Unione europea è molto lontana dai lavoratori, dai cittadini. I lobbisti si sentono come a casa nelle istituzioni europee. Così le piattaforme hanno pensato che noi avremmo reso legale ciò che i giudici stavano ritenendo illegale. Secondo loro, noi avremmo dovuto legalizzare una sorta di terzo status (tertium genus) tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato. Sarebbe stato un regalo per gli imprenditori perché significa che tu puoi avere un lavoratore effettivamente e sostanzialmente subordinato ma per molti aspetti inquadrato come un lavoratore autonomo. Ciò naturalmente significa che l’azienda, in questo caso la piattaforma, non deve pagare per la protezione sociale, non deve rispettare il diritto del lavoro, ecc. Il problema è tutto in capo al lavoratore, perché ha un datore di lavoro che gli dice cosa deve fare e quindi avrebbe solo gli svantaggi del lavoro autonomo senza avere i vantaggi e le tutele del lavoro dipendente. Niente diritto del lavoro, niente parte buona del lavoro subordinato (le garanzie) né del lavoro autonomo (nessuna autonomia e nessuna libertà sulla propria prestazione). 

Dall’altro lato ci siamo stati noi come forze progressiste al Parlamento europeo, ma soprattutto ci sono stati tutti i lavoratori e le lavoratrici che hanno iniziato a organizzarsi. Lo hanno fatto nonostante fosse più difficile organizzarsi nelle piattaforme rispetto nelle aziende tradizionali in cui c’è un normale contratto di lavoro vero e proprio. Così i lavoratori hanno iniziato a organizzarsi in tutta Europa, dicendo che il loro doveva essere considerato un lavoro a tutti gli effetti e che questo processo legislativo non doveva portare alla legalizzazione del terzo status e non doveva dipendere dalle piattaforme. I lavoratori dicevano che è compito del datore di lavoro rispettare il diritto del lavoro. E sostenevano che se un’azienda vuole avere persone alle sue dipendenze allora deve seguire le regole giuslavoristiche, pagare la protezione sociale. 

Come saprete, come Parlamento europeo non abbiamo il diritto di iniziativa. Non possiamo scrivere la prima bozza della proposta, ma dobbiamo aspettare la proposta della Commissione. In ogni caso noi avevamo molto da dire, io ho fatto una proposta di Direttiva anche se formalmente non ne avevo diritto. Era pertanto una proposta non ufficiale, ma era una cassetta degli attrezzi per fare pressione nel dibattito, per dire che era possibile ragionare sulla base dell’Articolo 153 del Trattato di Funzionamento dell’Unione europea [quello che fa riferimento alla necessità di proteggere i lavoratori e contrastare l’esclusione sociale, Ndr]. Comunque siamo riusciti a costruire una coalizione in Parlamento dicendo che la Commissione doveva proporre una Direttiva che includesse la presunzione di subordinazione. Siamo riusciti a costruire una coalizione ampia. Anche la destra tradizionale – pur amando il mercato e la competizione – non poteva accettare che alcune aziende dovessero rispettare la legge e altre [le piattaforme, Ndr] no. Essendo in favore della concorrenza equa, non poteva accettare il modo di fare delle piattaforme. Così siamo riusciti ad avere come Parlamento una proposta molto ambiziosa dalla Commissione europea. Siamo riusciti a portare i lavoratori stessi a Bruxelles, dentro le istituzioni, a farli ascoltare dalla Commissione che in genere era solita ascoltare sempre le lobby, le piattaforme. Se tu hai qualcuno di fronte a te tutto il giorno, naturalmente ne sarai influenzato. Siamo riusciti a portare i lavoratori a Bruxelles, abbiamo organizzato tre volte un forum alternativo transnazionale di azione, che non è stato semplicemente un meeting. È stata un’occasione in cui più di 100 lavoratori da 20 differenti paesi dell’Europa (ma anche dell’America Latina) hanno detto che si aspettavano molto dalla Direttiva europea. Hanno detto che la Commissione non sarebbe stata monitorata solo dalle lobbies. 

Penso che questo punto sia stato fondamentale, ha avuto una conseguenza: la Direttiva del 9 dicembre 2021. Naturalmente le lobbies non si aspettavano che noi avremmo vinto la battaglia. Pensavano che sarebbe stato tutto facile per loro, perché si parlava di lavoratori non organizzati, senza sindacati, senza un modo tradizionale di organizzarsi. Ma hanno perso e si sono svegliati. Lo vediamo ogni giorno qui in Parlamento, vogliono fare pressione per annacquare la Direttiva – in Consiglio ma anche in Parlamento europeo dove qualcuno ha avuto fondi e aiuti dalle lobbies [al contempo Takeaway, multinazionale del food delivery che ha inquadrato i propri riders come dipendenti, ha scritto una lettera aperta al Financial Times a sostegno della direttiva, a testimonianza di una spaccatura in seno al campo datoriale prodotta da anni di lotte dei lavoratori, Ndr]. Da parte sua, la Commissione diceva che ci sono cinque criteri di subordinazione. Quando tu soddisfi due su cinque criteri, tu devi applicare la presunzione di subordinazione. Le piattaforme volevano aumentare i criteri da soddisfare in modo che non fosse più una reale presunzione di subordinazione. Secondo me, non c’è bisogno dei criteri di subordinazione. Se tu hai criteri, non è una presunzione di subordinazione. Ci siamo riusciti. Ora ci sono i passaggi in Commissione e poi in plenaria a dicembre. Ma la strada è buona. 

Dovremmo riuscire ad avere una posizione del Parlamento europeo. Da un lato, l’Articolo 4 dovrebbe poter uscire senza criteri. Dall’altro l’Articolo 5 potrebbe essere formulato con dei criteri, ma non di subordinazione ma di lavoro autonomo. La differenza è che l’Articolo 4 è sulla presunzione di subordinazione, l’Articolo 5 riguarda la possibilità di confutare la presunzione nel caso dialcune piattaforme che per il loro modo di funzionare non implicano  una relazione di subordinazione de facto. Per esempio, ci sono alcune piattaforme per freelance dove tu magari sei un designer e usi la piattaforma per l’intermediazione col cliente. Puoi scegliere il tuo prezzo, il tuo modo di lavorare, sei in contatto col cliente: effettivamente, usi la piattaforma solo come intermediazione. In questo caso, se si danno tutti questi elementi la presunzione di subordinazione decade. La differenza con la situazione attuale è che ora il lavoratore deve andare dal giudice e dimostrare di essere un subordinato. L’onere della prova è sul lavoratore. Invece con la nostra proposta è la piattaforma che deve rifiutare e contestare la presunzione di subordinazione. Questa è una grande differenza. Per ora siamo riusciti a fare un buon lavoro nel Parlamento europeo, ma non siamo ancora sicuri di avere la maggioranza. Stiamo avendo degli incontri anche con membri di commissione del Partito popolare europeo. Poi c’è il Consiglio, dove la proposta di annacquamento del governo della Repubblica Ceca non è riuscita. Ad ogni modo siamo soliti vedere la Commissione abbassare i diritti, qui invece la sfida è di alzarli.

Qual è stato il ruolo dei lobbisti in questa partita? Che tipo di attori politici sono? Ci riferiamo, ad esempio, al caso degli Uber Files.

Dall’inizio il ruolo dei lobbisti delle piattaforme è stato molto importante. E, come immagino saprete, in genere le lobby nel Parlamento europeo e nelle istituzioni europee si sentono come a casa. Pensavano di avere la strada in discesa, di raggiungere il loro obiettivo come sono soliti fare, affinché i lavoratori non fossero considerati lavoratori.

Il primo tentativo di lobbying è stato di Uber. Ma in questi anni, prima ancora dell’annuncio della Commissione europea, i lavoratori si sono organizzati. Nello stesso tempo siamo riusciti a costruire una sorta di alternativa, una sorta di «lobby dalla parte dei lavoratori». Abbiamo organizzato tre meeting con centinaia di lavoratori da tutta Europa e anche dall’America Latina. Tutto questo a Bruxelles, proprio davanti alla Commissione. Loro non sono abituati a vedere lavoratori comuni in carne e ossa qui a Bruxelles. Penso che questo sia stato importante per i risultati che abbiamo conseguito. La Commissione non ha avuto altra scelta che ascoltare in primis questa sorta di lobby alternativa pro-labour. Così le piattaforme hanno iniziato a essere consapevoli che dovevano organizzarsi. Dovevano avere delle persone che parlavano per loro conto nel Parlamento europeo. All’inizio avevano provato a ingaggiare una persona di destra, che era coinvolta nelle negoziazioni, ma non era così in favore delle lobbies. Così le piattaforme hanno iniziato a bussare a una porta dopo l’altra. Io ho parlato poi con una di queste persone: sembrava una caricatura. Ripeteva come un disco rotto gli argomenti di Uber. Io e i miei colleghi pensavamo che fosse Uber a parlare per lei. Poi ci sono state le rivelazioni degli Uber Files nei mesi scorsi e sono state una conferma di quanto avevo visto. Sulla lista c’era il governo francese e in particolare Emmanuel Macron. Quando ho incontrato per la prima volta un lobbista di Uber, mi parlava di Emmanuel Macron come se fossero innamorati, totalmente innamorati. Diceva che Macron sapeva come fare ed era il solo che capiva veramente le cose. In effetti Macron è stato il miglior difensore degli interessi delle lobbies. Le piattaforme hanno insistito per avere qualcuno del partito di Macron come rapporteur per il report del Parlamento europeo. Sappiamo da una fonte, abbiamo anche una lettera che lo prova, che il governo francese ha tentato di fare qualsiasi cosa per evitare l’inserimento della presunzione di subordinazione. Dall’altro lato abbiamo la Spagna, che ha fatto una legge sui riders, che cura gli interessi dei lavoratori [il governo spagnolo è stato protagonista anche di una riforma complessiva del mercato del lavoro, di cui Jacobin ha scritto, Ndr].

Recentemente è stata approvata anche una Direttiva sul salario minimo. Qual è stata la genesi? È abbastanza o servono anche ulteriori strumenti?

È stata una buona idea quella di avere una Direttiva sul salario minimo, perché, nell’Unione europea c’è una grande differenza degli standard salariali e una libera circolazione dei capitali e dei lavoratori. Qual era in prima battuta l’idea di un salario minimo? Nessuno diceva che avevamo bisogno dello stesso ammontare in tutta Europa. Però abbiamo detto: una persona che lavora deve avere una vita decente. Il secondo obiettivo era quello di ridurre il dumping sociale perché oggi l’Europa è costruita sul libero mercato, separata dai lavoratori. Questo significa che tu sei un’azienda e che sai che c’è una grande differenza salariale (e non solo salariale) tra Europa occidentale e Europa orientale. C’è una grande differenza all’interno dell’Europa, che è costruita sulla competizione e sulle imprese che utilizzano questa competizione tra lavoratori. Le imprese, ad esempio, possono dire che rimangono in Francia solo se non ci sono scioperi perché altrimenti vanno a produrre in Romania o in altri paesi dove il lavoro è molto meno costoso. 

Questi erano i due obiettivi della Direttiva sul salario minimo: assicurare ai lavoratori in Europa una vita decente e combattere il dumping sociale. Da quando sono in Parlamento europeo, dal 2019, ho potuto vedere gli effetti di due crisi: la crisi dovuta al Covid-19 e quella successiva allo scoppio della guerra in Ucraina. Il più delle volte, quando ci sono delle crisi, si parla di cambiamento. L’Europa è stata costruita su un dogma “religioso” secondo il quale se tu realizzi politiche di mercato, la gente vivrà bene e la giustizia sociale cadrà dal cielo. Non è stato così, come noi abbiamo sempre detto. Abbiamo visto gli effetti del Covid-19. È almeno dal summit di Göteborg del 2017 sul pilastro sociale europeo che sosteniamo che se vogliamo mantenere l’Unione europea non possiamo pensare che tutte le politiche siano guidate dal mercato ma dobbiamo pensare alla questione sociale. Ma il blablabla qui è di casa: parole, ma non azioni. 

Per quanto riguarda la  Direttiva sul salario minimo, il problema è che è difficile, da un gruppo di opposizione come il nostro, migliorare quanto propone la Commissione. Per esempio il mio gruppo voleva ribadire che un salario minimo in grado di garantire una vita decente e differente da un mero reddito minimo, deve essere il 75% del salario mediano di un paese [nella Direttiva europea i riferimenti solo il 60% del salario mediano e il 50% del salario medio, Ndr] in tutti gli Stati membri. Ad esempio, in Francia il 60% non è sufficiente perché noi abbiamo un salario mediano molto basso. Non è abbastanza. In Portogallo, ad esempio, il salario minimo è già al 63% del salario mediano. Non è sufficiente. C’è un’altra questione: se tu sei in un paese dove tutti i salari sono bassi, anche il 75% del salario mediano sarebbe basso. Potrebbe non essere adeguato. Bisognerebbe parlare dell’accesso a un paniere di beni e servizi in grado di portarti a condurre una vita decente. La discussione sul salario minimo si è chiusa in fretta perché Macron voleva farne un obiettivo della presidenza di turno francese. Aveva bisogno di un accordo in tempo per le elezioni presidenziali per ricostruire la sua immagine sociale. In una riedizione del Dr Jekyll e Mister Hyde, era come se stesse realizzando un incubo sociale in Francia dicendo allo stesso tempo di star salvando i lavoratori europei dalla povertà. Ma non c’è il riferimento al 75% che noi chiedevamo. Ci sono però cose buone nella Direttiva, come la soglia dell’80% di lavoratori che devono essere coperti dalla contrattazione collettiva. In Francia abbiamo il 96% di copertura. Ma qual è la media in Europa? In Francia si sta ingannando il cuore e la mente delle persone. Perché la gente si chiede cosa cambia per loro con questa Direttiva e non cambierà molto.

La crescita dell’inflazione sta gravemente colpendo il potere d’acquisto della classe lavoratrice. In questo quadro la Banca centrale europea sta portando avanti politiche monetarie restrittive, come l’aumento dei tassi di interesse. Ci sono strade alternative per combattere l’aumento dei prezzi?

Permettetemi di fare un salto indietro. Quando l’Unione europea è stata creata era essenzialmente un mercato. La premessa era che si pensava che il mercato sarebbe stato la soluzione, la bacchetta magica, che avrebbe risolto qualsiasi cosa. Ma non si pensava minimamente al bisogno urgente di portare fuori dal mercato molte cose. Di cosa abbiamo bisogno per poter condurre una vita decente? Del riscaldamento, dell’elettricità, di una casa. Su molte di queste cose abbiamo lasciato fare al mercato. La Commissione europea, a suo tempo, aveva criticato l’Olanda perché il settore pubblico stava investendo troppo sul diritto alla casa. Secondo questa visione, il governo di Amsterdam non stava rispettando le leggi della giusta concorrenza alterando il mercato, perché stava facendo concorrenza sleale al settore privato investendo risorse nel social housing. Inoltre abbiamo un modo stupido di determinare il prezzo dell’energia a livello europeo: il prezzo dell’elettricità è fissato al prezzo del gas. Ciò ha fatto crescere molto l’inflazione. La nostra proposta è di fissare un certo livello di prezzo e dire che non crescerà ulteriormente. ì La classe lavoratrice sta pagando non solo l’inflazione ma anche la transizione ecologica. Noi diciamo che bisogna garantire alla gente una vita decente. Certe cose devono essere fuori dal mercato.

Con il cambio governativo avvenuto in Italia (ma anche in Svezia) ci saranno conseguenze in Europa? Per esempio sulla stessa Direttiva sul lavoro di piattaforma di cui parlavamo prima…

Purtroppo l’Italia non è il primo paese in cui c’è una crescita dell’estrema destra. Abbiamo una medaglia con due facce. Da un lato il liberalismo, un liberalismo estremo, e dall’altro l’estrema destra con un contorno di autoritarismo, fascismo, razzismo, ecc. Io penso che la soluzione sia creare un’alternativa che permetta alla gente di avere una vita decente, di avere un lavoro, bloccando l’aumento delle disuguaglianze. Il neoliberalismo aumenta le disuguaglianze e bisogna combatterlo per ridurre anche l’influenza dell’estrema destra. 

È veramente triste aver visto l’esito delle elezioni italiane, con il governo di Giorgia Meloni e il un nuovo avanzamento della destra radicale. Anche in Francia l’estrema destra è sempre forte e potremmo essere i prossimi a conoscere questo tipo di governo. Ma il prossimo turno deve essere il nostro, della sinistra, e ci serve un grande programma sociale. Penso che lo stesso valga a livello europeo. Dobbiamo mostrare che l’Europa può assicurare una vita decente alle persone, che può combattere le iniquità. Se riusciamo a ottenere una buona direttiva sul lavoro di piattaforma, questa non è solo per i riders o per gli autisti. Va a beneficio di tutto il diritto del lavoro. Quando si lavora per un’impresa, l’impresa deve rispettare i lavoratori, deve avere degli obblighi. Non possiamo accettare di distruggere le protezioni del lavoro, la protezione sociale, il diritto stesso del lavoro. Dovremmo mostrare che la vita delle persone può cambiare e che noi siamo capaci di fornire protezione. Sulla Direttiva sul lavoro di piattaforma, per molti mesi l’Italia non ha avuto una posizione. Come la Germania, per altre ragioni. Come la Svezia. La Svezia, anche prima di questo governo di destra, ha teorizzato che tutto ciò che ha a che fare con i bisogni sociali si affronta con la contrattazione collettiva e non con la legge. Dopo la presidenza ceca del Consiglio europeo ci sarà quella svedese. Poi ci sarà quella spagnola, che è favorevole alla Direttiva. I sei mesi di presidenza spagnola saranno importanti.

Lo scontro tra Meloni e Macron ha portato di nuovo all’attenzione del dibattito pubblico la questione dell’immigrazione. Qual è il tuo giudizio?

Si tratta di una vera e propria strumentalizzazione dell’immigrazione. Poche persone che vengono usate per spaventare perché non si ha una soluzione. È facile dire che il problema sono i migranti, invece di dire che sono i capitalisti. Anche in Francia sono molto preoccupata del clima politico. Recentemente abbiamo avuto una dichiarazione razzista all’interno dell’Assemblea Nazionalecontro un nostro collega nero. Dal partito di Marine Le Pen qualcuno gli ha detto di tornarsene a casa, di tornarsene in Africa. Questo è il livello della discussione… 

Abbiamo un obbligo di accoglienza, non possiamo lasciare morire le persone in mezzo al mare. Abbiamo fatto un’azione al Parlamento europeo ricordando le persone, le migliaia di persone, morte nel Mediterraneo. Non è possibile nel 2022. Dobbiamo stoppare questa politica che spaventa le persone sui temi dell’accoglienza. Nessuno è felice di lasciare il proprio paese, spesso non è una scelta. Noi abbiamo molte responsabilità, per le guerre, per il cambiamento climatico. I paesi occidentali hanno inquinato e inquinano molto di più di quelli africani. Dobbiamo sostenere la solidarietà.

*Francesco Massimo scrive per Jacobin Italia. Attualmente vive in Francia dove fa ricerca e insegna a Sciences Po, Parigi. Nicola Quondamatteo, dottorando in scienze politiche e sociologia presso la Scuola Normale Superiore, si occupa di lavoro, precarietà e movimenti sociali. È autore di Non per noi ma per tutti. La lotta dei riders e il futuro del mondo del lavoro (Asterios 2019).

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4h

Se pensate che in nome della fantomatica «cancel culture» qualcuno stia manipolando i libri dovreste leggere quanto scrive l'Associazione dei bibliotecari americani sulla campagna oscurantista in atto. Spoiler: non c'entra la sinistra
https://jacobinitalia.it/la-censura-viene-da-destra/

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30 Mar

Nel solo 2021 negli Stati uniti le macchine hanno causato circa quarantatremila morti per incidenti. Ma ormai le accettiamo in quanto sfortunato ma inevitabile costo della vita moderna
https://jacobinitalia.it/le-auto-distruggono-la-citta/

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Avatar Raúl @sanchezcedillo ·
29 Mar

Grazie anche a @JacobinItalia per la ripresa dell'intervista con @PabloIglesias per la rivista @ctxt_es su "Questa guerra non finisce in Ukraina", che per l'appunto è in corso di traduzione all'italiano. https://twitter.com/JacobinItalia/status/1641011347340025858

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29 Mar

La guerra definisce l'ambiente ideale per produrre nuovi fascismi e per cancellare ogni istanza di liberazione. Basterebbe questo per lottare per la «pace costituente» di cui parla Raúl Sánchez Cedillo con Pablo Iglesias
https://jacobinitalia.it/senza-rivolta-il-pacifismo-e-sconfitto/

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