Tre generazioni e tanti brividi
La nomina dei due presidenti delle camere indica la «veronizzazione» del paese. Ma sempre Verona ci insegna che quando le istituzioni sono in mano alle persone sbagliate occorre tornare nelle piazze e nelle strade
Dei profili di Ignazio Benito Maria La Russa e Lorenzo Fontana, i nuovi presidenti del Senato e della Camera, la cui elezione ha dissipato di colpo le illusioni di chi aveva creduto alle rassicurazioni elettorali di moderatismo di Giorgia Meloni, avrete ormai sicuramente letto – ne è pieno il web. Saprete già dei cimeli del Ventennio che il primo considera piacevoli oggetti di arredamento, degli stretti rapporti del secondo con i movimenti cattolici integralisti e delle sue simpatie putiniane, delle relazioni che entrambi hanno coltivato con i peggiori gruppi neofascisti… Concedetemi allora in questo articolo di comporne dei ritratti non precisi, né esaustivi, ma espressionistici, un po’ disordinati anche, basati su riflessioni e sensazioni personali, anche molto personali, come leggerete.
La nazione immaginaria di La Russa
Sarà per deformazione professionale (insegno Filosofia politica e sessualità all’Università di Verona), ma tra i commenti che hanno fatto seguito all’elezione di La Russa, uno di quelli che mi ha colpito di più è stato quello postato su Facebook da Tiziana Valpiana. Si tratta del racconto di un episodio avvenuto nel 2002, quando lei era deputata di Rifondazione comunista e lui capogruppo di Alleanza nazionale alla Camera. L’aula stava discutendo la legge Bossi-Fini sulla (contro la) immigrazione, Valpiana stava presentando un emendamento che insisteva sul dovere dell’accoglienza. «Lo so io perché vuoi che vengano i negri», le urlò La Russa toccandosi la patta: «Perché ce l’hanno lungo!». Un’immagine per tutte, così mi pare: ecco chi ricopre oggi la seconda più importante carica della Repubblica italiana. Ma a costituire un affronto a quel ruolo istituzionale non è solo quanto La Russa ha fatto venti o cinquant’anni fa – ne è passata di acqua sotto i ponti, si potrebbe pensare, da quando, nel 1971, divenne responsabile del Fronte della Gioventù. È anche il primo atto che ha compiuto in quel ruolo istituzionale, il suo discorso di insediamento. Che dopo le parole di Liliana Segre, a me personalmente ha dato i brividi.
Nel centenario della Marcia su Roma, la senatrice a vita, nel ruolo di Presidente provvisoria del Senato, ha ricordato la vergogna e la tragedia del fascismo, ha espresso tutta l’emozione della bambina ebrea cacciata dai banchi di scuola che lei è stata nel trovarsi a sedere sullo scranno più alto del Parlamento. Ha poi richiamato al rispetto dei valori della Costituzione repubblicana, ha chiesto tutta l’unità che pretendono le celebrazioni di ricorrenze fondamentali dell’Italia postfascista e postmonarchica – la Festa della Liberazione, la Festa del Lavoro, la Festa della Repubblica –, ha richiamato alla responsabilità, alla serietà, al rispetto che ogni parlamentare deve alla funzione che ricopre.
Dopo il discorso di Segre, il maschilismo, il razzismo, la violenza dell’episodio che ho sopra ricordato, e anche il suo cattivo gusto, credo bastino e avanzino a evidenziare l’inadeguatezza di La Russa. Ma è anche il presente, non solo il passato, dicevo, che mi ha dato i brividi. Il discorso di insediamento del nuovo Presidente del Senato non ha avuto nulla del gesto scomposto del La Russa di vent’anni fa: è stato un discorso istituzionale, ben formulato, intelligente. Ma pericoloso. Una risposta precisa a Segre che mi sembra dare il segno di ciò che ci aspetta.
La Russa ha infatti accolto l’accorata richiesta che Segre aveva rivolto anche a lui – per capovolgerne il senso. La sua è stata una risposta generazionale: continuando la narrazione della storia d’Italia iniziata da Segre, ne ha ricordato una successiva drammatica fase, quella degli anni di piombo – come in un ben riuscito passaggio di testimone. Ma, nelle sue parole, l’appello di Segre di unità nella celebrazione dei valori repubblicani si è trasformata nell’affermazione dell’unità nella commemorazione delle vittime del terrorismo e degli scontri di piazza degli anni Settanta. Di tutte le vittime: di chi la Repubblica era chiamato a difenderla (Luigi Calabresi), di chi voleva abbatterla, da destra (Sergio Ramelli) e da sinistra (Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci). E ha poi subito – l’appello di Segre all’unità, nelle parole di La Russa – un patente rovesciamento: assieme al 25 aprile, ha detto il neopresidente del Senato, assieme al primo maggio, assieme al 2 giugno, «dovremmo prima o poi fare assurgere a festa nazionale» anche il 17 marzo: «la data di nascita del Regno d’Italia».
Il senso del discorso di Segre era chiaro. Partendo dalla sua vicenda personale, la senatrice a vita ha ricordato che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, istituita dalla lotta partigiana contro un regime liberticida. Che la Liberazione, che il referendum con cui italiane e italiani scelsero la Repubblica rappresentano punti di discontinuità e di non ritorno, che l’unità delle italiane e degli italiani è scritta nella Costituzione. E chiaro è stato, a ben pensarci, anche il senso del discorso di La Russa che pure muoveva dalla sua vicenda personale: nessuna discontinuità, nessun non ritorno, ha di fatto risposto. La nostra storia, la nostra unità, per il neoeletto alla seconda carica dello Stato, non inizia con la Liberazione, non è scritta nella Costituzione repubblicana. Inizia con il regno dei Savoia e si estende fino a un presente in cui militanti di estrema destra, militanti di estrema sinistra, funzionari dello Stato – vittime, certo, ma anche simboli – possono essere pianti assieme, senza distinguo.
In questa notte della storia in cui tutte le vacche sono nere, che ne è del fascismo? E del colonialismo? Per il nostro Presidente del Senato, in apparenza la questione non si pone – in realtà si pone chiarissima. Basta ricordare che degli ottantacinque anni del regno dei Savoia, che fu anche un efferato impero, venti il paese li trascorse sotto la dittatura di Mussolini – soltanto alla fine della quale nacque quella Repubblica nei cui valori, secondo Segre, i nostri rappresentanti dovrebbero riconoscersi unitariamente. Altra questione che nel discorso di La Russa in apparenza non si pone – e in realtà si pone chiarissima: nella sua narrazione, data la normalizzazione del fascismo come un momento storico tra gli altri, al posto dei valori della Costituzione repubblicana, che cos’altro conferisce unità al popolo italiano? Forse una fittizia nazione che viene prima della Repubblica, persino dello Stato? (Scrivo fittizia, perché si sa quanto frammentaria sia la nostra storia). Forse quell’immaginaria nazione che la futura presidente del Consiglio Giorgia Meloni, presidente del partito Fratelli d’Italia a cui La Russa appartiene, twitta infatti con la N maiuscola, e in nome della quale chiama a essere patrioti? Forse quell’immaginaria nazione, infine, da cui sicuramente i migranti per cui Valpiana reclamava accoglienza vent’anni fa, e spero chi legge reclami con lei e con me ancora oggi, sono esclusi? E assieme a loro, chi altri?
L’ideologia «anti-gender» di Fontana
La risposta era, tra le righe, nel discorso di insediamento del poco più che quarantenne Lorenzo Fontana alla presidenza della Camera. Altri brividi. Un discorso generazionale anch’esso, ben preparato per inviare i segnali giusti agli interlocutori giusti, quella nuova destra estremista che negli ultimi decenni ha trovato nella campagna «anti-gender» un nuovo collante ideologico. Fontana non ha avuto bisogno di richiamarsi all’Italia monarchica o fascista per lanciare i suoi messaggi. Perché la destra che rappresenta non è propriamente reazionaria, ma a suo modo progressista, volta a costruire un mondo nuovo a partire da una nuova interpretazione – neocattolica, la chiama Massimo Prearo – dei valori della democrazia e assieme della tradizione. Fontana non ha problemi oggi a richiamarsi alla Costituzione repubblicana segnalando la cesura che rappresenta nella storia, a elogiare «il popolo più bello e creativo del mondo», quello italiano, che ha saputo costruire «democrazia, libertà e benessere economico» dopo essersi rialzato dalla Seconda guerra mondiale. Ma da chi è costituito, secondo lui, questo popolo? E che cosa dice, secondo lui, la Costituzione?
Il discorso del neopresidente della Camera conteneva numerosi richiami al rispetto delle minoranze parlamentari (che tanto, si sa, con questa legge elettorale sono risicate), ma sono state le sue prime parole a fornire la cifra del suo messaggio, in particolare il suo «primo saluto al pontefice Francesco che rappresenta il riferimento spirituale della maggioranza dei cittadini italiani». Della maggioranza, appunto – che lui interpreta a quanto pare come una maggioranza non solo cattolica, ma anche incurante del principio costituzionale della laicità dello Stato. E infatti, al ringraziamento personale a Umberto Bossi han fatto seguito riferimenti al personalismo cattolico, alla «concezione solidaristica della Costituzione che difende la persona e i suoi bisogni», a San Tommaso che insegna che «il male non è il contrario del bene, ma la privazione del bene» (anche se scrive «inpiegato» con la «n», nel curriculum Fontana vanta tre lauree: Scienze Politiche a Padova, Storia alla cattolicissima Università Europea e Filosofia all’Università pontificia San Tommaso d’Aquino). E infine a Carlo Acutis, beatificato da Bergoglio, il cui motto recita «sei nato originale, non vivere da fotocopia».
Originali, già. C’è chi ha interpretato l’elogio di Fontana della «diversità» come un’apertura al progressismo liberale, ma è tutto il contrario. Perché la presunta diversità a cui ha fatto riferimento è quella dell’Italia rispetto «all’omologazione a culture che provengono da altrove». È cioè la presunta – anch’essa – superiorità della cultura cattolica rispetto alle culture liberali e laiche dei diritti che, nella narrazione del nuovo Presidente della Camera, proverrebbero dall’Europa o dagli Stati Uniti rispetto ai quali noi saremmo invece originali. Il messaggio era chiaro per chi conosce le retoriche di quei movimenti «anti-gender» che anche «Giorgia-sono una donna-sono una madre-sono cristiana» ha sempre considerato un fondamentale bacino elettorale. La futura Presidente del Consiglio, lo si ricordi, nel novembre 2019 si astenne dal votare la Commissione parlamentare per il contrasto dei crimini d’odio proposta da Segre spiegando, tra le altre cose, di volersi sentire libera di sostenere la superiorità della «famiglia naturale» sulle famiglie arcobaleno. E si ricordi anche che, per il Fontana Ministro della famiglia e della disabilità per il primo governo Conte nel 2018, le famiglie arcobaleno non esistevano nemmeno: non erano famiglie, aveva dichiarato del resto un anno prima, ma «schifezze».
La «veronizzazione» del paese
Che cosa significherà, allora, avere al potere questi difensori della famiglia naturale, questa nuova generazione dell’ultradestra progressista che non esita a distorcere i valori della Costituzione repubblicana mentre è alleata alla destra reazionaria della generazione precedente che vorrebbe invece celebrare la monarchia? Credo di potervene dare un saggio, raccontandovi un episodio personale. Insegno all’Università di Verona dopo tutto, e abito a Verona, che resta la città laboratorio dell’estrema destra, come la descrive Paolo Berizzi, anche se da qualche mese, grazie a una divisione dei partiti di destra alle elezioni amministrative che spero benaugurale, ha un buon sindaco di centrosinistra.
All’invito rivolto da Segre a festeggiare unitariamente il 25 aprile, Fontana ha risposto da tempo che in tale data preferisce festeggiare San Marco, piuttosto che la Liberazione. Nel 2017, in particolare, quando era europarlamentare della Lega, poco prima di essere nominato vicesindaco di Verona, festeggiò San Marco intervenendo sul quotidiano La Verità, che era stato fondato un anno prima e da subito aveva preso il centro di ricerca PoliTeSse – Politiche e Teorie della Sessualità, che dirigo presso l’Università di Verona – come obiettivo polemico, annunciando che la Lega avrebbe chiesto chiarimenti «a Roma» sull’uso dei fondi da parte dell’Università di Verona e asserendo che questa, anziché organizzare «tutti questi laboratori gender [le attività del centro PoliTeSse] che interessano una sparuta minoranza», avrebbe dovuto affrontare «le questioni del lavoro, della democrazia, della globalizzazione, delle nostre imprese, il declino demografico, la mancanza di famiglie con figli».
A intervistarlo era Patrizia Floder Reitter (che il 12 luglio 2018 avrebbe poi scritto un altro interessante articolo, intitolato Il delirio queer del prof. Di Verona: «Uomo o donna? È solo convenzione» – il prof. di Verona ero io). Il trafiletto si intitolava L’eurodeputato vuol sapere chi paga, e Fontana sosteneva che il tema più urgente dell’attualità non è «che i gay si sposino, che cambino sesso, ma che ci stiamo estinguendo». Ci stiamo estinguendo per essere sostituiti – questo è il sottotesto, ben decifrabile a chi conosce la retorica «anti-gender» – da migranti dalla pelle scura e dalla fede islamica che fanno i figli che gli italiani non fanno più, con donne migranti o con donne italiane (che tanto si sa, urlò un tempo La Russa, quali reali interessi abbiano nell’accoglienza).
L’interrogazione annunciata da Fontana fu depositata al Parlamento italiano il mese successivo da Massimiliano Fedriga, allora deputato della Lega, che nel documento segnalò che «Lorenzo Bernini», oltre a essere «un ricercatore in filosofia politica autore di gender studies e teorie queer (per le quali non ci sarebbe un solo modo di essere uomini e donne, ma una molteplicità di identità e di esperienze)», è «una presenza fissa in molti gay pride». Che scandalo!
L’episodio fa sorridere, certo. Ma al tempo non riuscii soltanto a sorriderne – attaccato ripetutamente come ero per il mio lavoro di ricerca che è mio diritto di docente universitario poter svolgere liberamente, da rappresentanti di istituzioni che avrebbero dovuto rappresentare anche me, che nel clima di destra della città di Verona riuscirono a intimidire anche chi avrebbe dovuto difendermi all’interno dell’istituzione universitaria. Ed è forse questo episodio minore del mio passato personale ad avermi reso più sensibile di altri, ad avermi esposto a quei brividi che ho avvertito nell’ascoltare i discorsi d’insediamento dei nuovi Presidenti del Senato e della Camera, in cui temo possa cogliersi già la cifra del clima che ci attende sotto il governo che verrà.
Tanto Fedriga, quanto Fontana intervennero poi al tredicesimo World Congress of Families, la kermesse anti-femminista e omolesbobitranspanintersexfobica che dal 29 al 31 marzo 2019 si è tenuta a Verona. Nel frattempo, Fedriga era diventato Presidente della regione Friuli-Venezia Giulia, che patrocinava l’iniziativa assieme alla regione Veneto, alla provincia di Verona e al Ministero per la famiglia e le disabilità. Quest’ultimo era allora presieduto, come già ho ricordato, da Fontana, che in precedenza era stato vicesindaco di Verona. E infatti il Comune di Verona figurava tra gli organizzatori. Tra i relatori c’era anche Matteo Salvini. C’era anche Giorgia Meloni. E infine l’arciprete ortodosso Dimitri Smirnov, braccio destro di quel patriarca Kirill che nel febbraio scorso ha giustificato l’invasione russa dell’Ucraina sostenendo che con la guerra Putin sta difendendo il cristianesimo dai Pride Lgbt.
Al World Congress of Families, la Verona democratica e antifascista reagì con una grande manifestazione, organizzata da Non Una Di Meno, che prese il titolo di Verona città transfemminsita, e con un fitto calendario di dibattiti e iniziative a cui contribuì anche il centro PoliTeSse. Molte e molti, in quelle discussioni, denunciarono il rischio di una «veronizzazione» dell’intero Paese, e paradossalmente quei timori si stanno realizzando proprio oggi che Verona è amministrata dal centrosinistra. Anche da quella bella, importante, rabbiosa ma pacifica e festosa reazione abbiamo allora oggi da imparare, oltre che dalle parole istituzionali, altissime, della senatrice Segre. Quando le istituzioni sono in mano alle persone sbagliate, è nelle piazze e nelle strade che occorre tornare.
*Lorenzo Bernini insegna Filosofia politica e sessualità presso l’Università di Verona, dove dirige il centro di ricerca PoliTeSse – Politiche e Teorie della Sessualità. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il sessuale politico: Freud con Marx, Fanon, Foucault (Ets 2019) e LGBTQIA+ (Treccani 2021).
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