
Trump calpesta la libertà di parola
Il presidente Usa aveva annunciato il ritorno del «free-speech» ma sta procedendo a reprimere le proteste in solidarietà con la Palestina negando i fondi ai campus che le ospitano
Nel suo discorso al Congresso del 4 marzo, Donald Trump si è vantato di aver «fermato ogni tipo di censura governativa e di aver riportato la libertà di parola in America». Apparentemente stupito dalle sue stesse doti, ha ripetuto: «Adesso è tornata».
In realtà, Trump è già stato sfacciatamente ostile alle norme sulla libertà di parola più di qualsiasi altro presidente negli ultimi anni. Ha sbandierato di voler togliere la concessione ai network televisivi via cavo che considera scorretti nei suoi confronti e ha intentato loro una serie di cause per diffamazione. Si è rivalso contro l’Associated Press per essersi rifiutata di ridenominare nei suoi servizi giornalistici il Golfo del Messico come «Golfo d’America». Ha persino proposto un emendamento costituzionale che preveda l’incarcerazione per chi brucia una bandiera, affermando che la pena dovrebbe essere di un anno di carcere.
Ma ecco la ciliegina sulla torta: lo stesso giorno in cui ha affermato di aver resuscitato la libertà di parola, Trump ha anche minacciato sul suo social, Truth, di togliere i finanziamenti federali a tutte le università che non reprimono con sufficiente durezza le proteste contro la pulizia etnica dei palestinesi di Gaza da parte di Israele, scrivendo:
Tutti i finanziamenti federali saranno bloccati per qualsiasi college, scuola o università che permetta proteste illegali. Gli agitatori saranno imprigionati e/o rimandati permanentemente nel paese da cui provengono. Gli studenti americani saranno espulsi in modo permanente o, a seconda del reato, arrestati. NIENTE MASCHERE! Grazie per la vostra attenzione a questo problema.
Cosa intenda l’amministrazione Trump per proteste «illegali» non è dato saperlo. La definizione potrebbe facilmente essere applicata alla tattica della disobbedienza civile dei sit-in pacifici. Potrebbe anche applicarsi a proteste senza permessi o al di fuori delle «zone di libertà di parola» individuate dalle università. I casi limite poi sono impliciti: se l’amministrazione di un’università fa una mediazione con gli studenti che tengono un sit-in invece di chiamare immediatamente la polizia, questo costituisce un «permesso» di protesta illegale? E se non riesce semplicemente a espellerli dopo il fatto?
In risposta all’ondata di proteste contro le atrocità sostenute dagli Stati uniti a Gaza lo scorso anno, i campus hanno imposto nuove restrizioni draconiane alle tattiche di protesta precedentemente consentite. Alcuni hanno vietato «le amplificazioni» che, come ho sottolineato all’epoca, è una caratteristica quasi universale delle proteste su qualsiasi tema. Molti hanno proibito di indossare maschere durante le proteste, il che deve essere compreso alla luce delle diffuse minacce dei datori di lavoro di inserire in una lista nera per le assunzioni chiunque abbia protestato contro gli orrori di Gaza. Supponiamo che le amministrazioni universitarie non chiamino la polizia o non espellano i partecipanti dopo una protesta in cui sono state indossate maschere o gli oratori si sono rivolti alla folla attraverso un megafono. Questo violerebbe l’editto di Trump e comporterebbe la perdita dei finanziamenti federali? Sembra essere questo l’intento, soprattutto se si considera che Trump ha parlato di maschere.
La destra non si è mai posta il tema del free speech
Venerdì 7 marzo l’amministrazione Trump ha messo in pratica la propria minaccia. Quattro dipartimenti e agenzie federali hanno annunciato congiuntamente la cancellazione di 400 milioni di dollari di contratti federali per la Columbia University, presumibilmente a causa della «continua inazione dell’Università di fronte alle persistenti molestie nei confronti degli studenti ebrei».
Nel 2023 e 2024, la Columbia è stata un importante luogo di attivismo studentesco contro i bombardamenti di Israele su Gaza. Gli scontri tra manifestanti e contromanifestanti sono effettivamente avvenuti, ma l’affermazione che i manifestanti della Columbia (altamente sproporzionati rispetto agli ebrei) stessero «molestando» qualcuno perché ebreo è un’affermazione tipica di una realtà alternativa.
L’idea che l’amministrazione della Columbia abbia lasciato che le proteste avvenissero è ancora più surreale. In realtà, l’amministrazione si è opposta molto più duramente di quanto non avesse fatto in passato a manifestazioni simili. Quando gli studenti della Columbia occuparono la Hamilton Hall, ai tempi del Vietnam, l’amministrazione aspettò una settimana prima di chiamare la polizia. Quando i manifestanti chiesero il disinvestimento dal Sudafrica dell’apartheid, occuparono lo stesso edificio nel 1985 e la protesta terminò volontariamente dopo tre settimane. Quando i manifestanti contro il genocidio di Gaza hanno occupato Hamilton nel 2024, la polizia di New York è intervenuta già il primo giorno prendendo d’assalto l’edificio.
Tuttavia, Trump sta cercando di additare l’esempio della Columbia come messaggio per le altre università: tenete sotto controllo i vostri studenti attivisti o ne affronterete le conseguenze. L’amministrazione sta cercando di convincere altre università del paese a reprimere il dissenso in modo ancora più duro di quanto non abbiano già fatto.
Una delle quattro agenzie che il 7 marzo hanno emesso l’annuncio è il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani (Hhs). Quando è stata annunciata la revisione dei contratti della Columbia, appena quattro giorni prima della decisione, il segretario dell’Hhs Robert F. Kennedy Jr ha proclamato che l’«antisemitismo» nei campus è un problema di salute pubblica. Se può sembrare una caricatura di destra, altamente insopportabile, del discorso «woke», il seguito è peggiore. Kennedy infatti ha sostenuto che l’antisemitismo è una «malattia spirituale e morale che ammala le società» e che le università si sono trasformate in «serre per questa pestilenza mortale e virulenta». L’idea che le opinioni politiche dissenzienti siano un elemento nocivo che richiede la soppressione da parte della burocrazia sanitaria federale è di una censura sconvolgente. E l’annuncio di venerdì scorso ha dimostrato che non si trattava solo di una spacconata.
Negli ultimi decenni, molti progressisti si sono allontanati dallo storico impegno della sinistra sull’importanza della libertà di parola, impedendo a oratori odiosi di visitare i campus universitari o addirittura avanzando argomentazioni libertarie secondo cui la censura non conta quando proviene dal settore privato. Come ho sostenuto molte volte nel corso degli anni, questo è un grave errore. In primo luogo, nessun movimento per un cambiamento sociale fondamentale può fidarsi dei centri di potere esistenti (siano essi statali o aziendali) per far rispettare le regole della censura a suo favore. In secondo luogo, il nostro progetto è quello di estendere e approfondire la democrazia, il che significa che dobbiamo fidarci dell’attenzione della working class verso punti di vista alternativi e della loro capacità di formarsi da sé i propri giudizi.
L’ipocrisia sfrenata e inequivocabile della destra sulla libertà di parola è un’opportunità perfetta per la sinistra di correggere la rotta. La libertà di parola è sempre stata un valore fondamentale per la sinistra, ed è giunto il momento di rivendicarla.
*Ben Burgis è editorialista di Jacobin, professore aggiunto di filosofia alla Rutgers University e conduttore del programma e podcast di YouTube Give Them An Argument. Questo articolo è uscito su Jacobin Mag. La traduzione è a cura della redazione.
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