Tutte le occasioni perse del Partito democratico
Il libro del giornalista di The Nation John Nichols, fa emergere le vicissitudini dei principali personaggi politici che avrebbero potuto cambiare la storia della sinistra Usa. Dal vice di Roosevelt, Henry Wallace, fino a Bernie Sanders
Nel 1935 Sinclair Lewis scrive il romanzo ucronico It Can’t Happen Here, in cui un demagogo viene eletto presidente degli Stati uniti e insedia un regime fascista. Nel 1962 Philip K. Dick sviluppa una complessa storia post Seconda guerra mondiale, The Man in the High Castle, con gli Stati uniti governati a est dalla Germania nazista e a ovest dall’impero del Giappone. Nel 2004 è la volta del capolavoro The Plot Against America in cui Philip Roth, attraverso le vicende di diversi ebrei di Newark nel New Jersey, ci conduce in una concretissima America che alle elezioni presidenziali del 1940 elegge l’aviatore antisemita Charles Lindbergh invece di Franklin Delano Roosevelt.
In epoca trumpiana dai romanzi di Dick e Roth sono state realizzate due avvincenti serie tv. Alla rielaborazione de L’uomo nell’alto castello, ora alla quarta stagione, si è quest’anno aggiunto il più fedele riadattamento di Complotto contro l’America, una straordinaria miniserie in sei puntate alla quale Philip Roth ha collaborato prima della sua scomparsa. Seppur non preso in considerazione per un analogo trattamento, il romanzo di Lewis in questi anni è stato citato decine di volte in articoli che spesso ne hanno ricalcato il titolo alla lettera. Quel Non può succedere qui, che sintetizza anche la realistica atmosfera di ambiguità e angoscia di The Plot against America, avvicina infatti il passato al presente lasciando aperti inquietanti interrogativi sul futuro.
Pur non ipotizzando situazioni da genere letterario what if (cosa sarebbe successo se un determinato evento storico fosse andato diversamente da come è andato?), è inevitabile collegare l’ultimo libro del celebre giornalista di The Nation John Nichols con mondi paralleli che si sarebbero potuti concretizzare se… E non tanto perché in The Fight for the Soul of the Democratic Party – The enduring legacy of Henry Wallace’s antifascist, antiracist politics, Nichols cita brevemente i romanzi di Sinclair Lewis e Philip Roth, quanto perché sia Henry Wallace sia gli altri politici su cui l’autore si sofferma (da George McGovern a Tom Haydens a Jesse Jackson per arrivare fino a Bernie Sanders) avrebbero potuto cambiare il futuro, se non fossero stati prima sconfitti politicamente e poi relegati all’oblio o al semioblio dall’America imperialistica e corporativa.
Nel rievocarne le vicende politiche, in particolare quelle di Wallace che dal 1932 al 1940 fu Ministro dell’agricoltura di Roosvelt e poi suo vicepresidente nel terzo mandato, Nichols traccia un’appassionante storia degli Stati uniti dagli anni Trenta a oggi, delineando le trasformazioni dei due partiti maggiori e i contributi di quelli minori. Passando per la Southern Strategy di Richard Nixon, che ha visto i Dixiecrat segregazionisti spostarsi dal Partito democratico a quello repubblicano, Nichols analizza «come il Partito repubblicano di Abraham Lincoln e dei Ricostruzionisti Radicali degli anni Sessanta dell’Ottocento sia diventato il partito di Donald Trump e degli xenofobi nazionalisti bianchi degli anni Dieci del Duemila». In campo opposto l’autore sottolinea che «i democratici più giovani del New Deal di Franklin Delano Roosevelt sono vissuti abbastanza a lungo per guardare con orrore come le regole che avevano stabilito per proteggere gli Americani dalle speculazioni di Wall Street siano state smantellate da Bill Clinton e dai suoi New Democrats».
Principale obiettivo di Nichols, condiviso con Oliver Stone, autore insieme allo storico Peter Kuznick della serie di documentari The Untold History of the United States (2012) e di un corposo volume, è divulgare la Storia, ormai diventata un oggetto sconosciuto per moltissimi statunitensi che a scuola non la studiano più, se non per cliché epurati di contenuti e personaggi scomodi, al punto che Henry Wallace viene al massimo scambiato per George Wallace, l’ultra-razzista governatore democratico dell’Alabama dei tempi di Martin Luther King e Lyndon B. Johnson. Anche Stone e Kuznick si erano occupati di Henry Wallace e, pur senza sviluppare una storia di fiction what if, sostenevano, come ricorda John Nichols, che se nel 1944 fosse stato riconfermato nel ticket presidenziale «non ci sarebbe stata la Guerra Fredda. Si sarebbe continuato a risolvere le difficoltà nel modo adottato da Roosevelt e Stalin. Il Vietnam non sarebbe avvenuto». Le cose andarono invece molto diversamente e Nichols ce le racconta nel dettaglio.
Il Secolo Americano vs il Secolo dell’Uomo Comune
Qualcuno ha parlato di ‘Secolo Americano’. Io dico che il secolo nel quale entreremo – il secolo che comincerà dopo questa guerra – può e deve essere il ‘Secolo dell’Uomo Comune’. Nessuna nazione avrà il diritto divino di sfruttare altre nazioni. Le nazioni più vecchie avranno il privilegio di aiutare quelle più giovani a intraprendere la via dell’industrializzazone, ma non ci deve essere imperialismo né economico né militare. […] Coloro che scriveranno la pace dovranno pensare al mondo intero. Non ci possono essere popoli privilegiati. Noi stessi negli Stati uniti non siamo una razza padrona più di quanto non lo siano i nazisti. E non possiamo perpetuare la guerra economica senza piantare i semi della guerra militare. Dobbiamo usare il nostro potere al tavolo della pace per costruire una pace economica che sia benefica e duratura (Henry Wallace, discorso sul ‘Secolo dell’Uomo Comune’ tenuto per la Free World Association, New York, 8 maggio 1942).
Wallace, qui in un documentario d’epoca dedicatogli dopo quel discorso, sosteneva che bisognasse organizzare bene l’uscita dalla guerra, poiché una nuova rivalità tra nazioni per supremazia e imperialismo, fomentata dall’odio reciproco di Stati uniti e Russia, avrebbe causato povertà e sfruttamento delle classi sociali non privilegiate e una terza guerra mondiale. Solo la collaborazione tra nazioni, indipendentemente dal tipo di sistema politico adottato internamente, avrebbe salvaguardato la pace, alzando contemporaneamente lo standard di vita di tutte le popolazioni. Dal canto suo Roosevelt, che in politica interna si era fatto promotore di un Bill of Economic Rights, si era espresso fin dall’inizio del 1941 per una futura politica internazionale pacifica con il discorso passato alla storia come The Four Freedoms Speech, in cui delineava le quattro libertà necessarie ai popoli di tutte le nazioni: libertà di parola ed espressione; libertà religiosa; libertà dalla povertà; libertà dalla paura.
Ma le idee di Roosvelt e di Wallace non collimavano con quelle dei potenti al cui odio il presidente aveva dato il benvenuto, che trovarono il loro portavoce in Henry Luce, l’editore dei magazine Time e Life, considerato «il più potente e innovativo comunicatore di massa d’America». Fu lui a coniare l’espressione «Secolo Americano», alla quale Wallace, a sua volta definito «il secondo cittadino pubblico più influente dei suoi tempi», oppose appunto quella di «Secolo dell’Uomo Comune». Le divergenze di opinione, racconta Nichols, portarono a uno scontro tra «i due Henry» iniziato con la pubblicazione su Life del saggio di Luce The American Century nel febbraio del 1941, «quando gli Stati uniti stavano considerando la loro partecipazione alla Seconda guerra mondiale. [Lo scontro] avrebbe definito le linee di battaglia della politica americana attraverso i decenni, fino a tutt’oggi».
Il destino manifesto
Henry Luce in sostanza rinnovava con un’accezione extra nazionale la dottrina del Destino Manifesto, in teoria esauritasi con la conquista da parte dei bianchi di origine anglosassone del territorio americano fino alle coste del Pacifico. Diventati nel XX secolo il paese economicamente più potente del mondo, gli Stati uniti avrebbero dovuto già da tempo, sosteneva Luce, assumere la leadership politica, culturale e militare che spettava loro per elezione divina. Era dunque dovere degli Stati uniti «esercitare sul mondo il totale impatto della nostra influenza, per quei propositi che riteniamo adatti e con i mezzi che riteniamo adatti. […] Se non possiamo dichiarare guerra per via di enormi distanze geografiche, perché non usare parole come Democrazia e Libertà e Giustizia?». Se in politica estera Luce diede il via alla propaganda dell’esportazione della democrazia, in politica interna attribuiva al New Deal colpe imperdonabili quali «l’enorme indebitamento del governo, la vasta burocrazia e un’intera generazione di giovani educati a guardare al governo come fonte di sostentamento per tutta la vita».
Come evidenziato in apertura, una delle principali minacce che Wallace intravedeva era quella del «Fascismo Americano». Più volte sollecitato dal New York Times a darne una spiegazione esaustiva, Wallace lo fece in un saggio di tre pagine che il Sunday Magazine del Times del 9 aprile 1944, titolò «Wallace definisce il ‘Fascismo Americano’: il vicepresidente dice che inquina l’opinione pubblica, incoraggia l’intolleranza e presenta una sfida al nostro modo di vivere democratico. Eccone uno stralcio esemplificativo dei vari collegamenti tra passato e presente che Nichols suggerisce nel corso del libro, non alludendo solamente a Donald Trump:
I fascisti americani si possono riconoscere più facilmente per il loro deliberato stravolgimento di verità e fatti. I loro giornali e la loro propaganda coltivano attentamente ogni fenditura nell’unità, ogni crepa nel fronte comune contro il fascismo. Usano ogni opportunità per impugnare la democrazia, usano l’isolazionismo come uno slogan per nascondere il loro imperialismo egoista. Coltivano l’odio verso la Gran Bretagna e la Russia. Pretendono di essere super-patrioti, ma distruggerebbero ogni libertà garantita dalla Costituzione. Chiedono la libera impresa, ma sono i portavoce di monopoli e interessi garantiti dalla legge. Il loro obiettivo finale verso il quale tutte le loro menzogne sono dirette è catturare il potere politico in modo tale che, usando simultaneamente il potere dello stato e quello del mercato, possano tenere l’uomo comune in eterna sottomissione.
La Convention Democratica del ’44 liquida Wallace e impone Truman
Antesignano di Bernie Sanders non solo per le politiche progressiste ma per il modo in cui l’establishment si liberò di lui proprio quando la sua leadership sarebbe stata determinante per il bene della gente comune, Henry Wallace, che Nichols considera l’anima stessa di quello che il Partito democratico avrebbe dovuto rappresentare, venne liquidato a tradimento durante la Convention Democratica di Chicago del 1944. Consapevoli che Roosevelt si stesse avviando alla fine dei suoi giorni tanto da considerare l’elezione del vicepresidente equivalente «all’elezione di due presidenti», le alte sfere politiche non potevano rischiare che la carica andasse a quel «populista progressista» di Henry Wallace. Da parte sua Roosevelt, ormai stremato, impegnato sul fronte internazionale e preoccupato per le tensioni interne al partito, non si impose per una riconferma di Wallace lasciando campo libero alla Convention.
Nel capitolo July 20, 1944, 10.55 p.m., sottotitolato Quando i democratici cominciarono ad abbandonare il New Deal, Nichols racconta in modo cinematografico quel che accadde a partire dal 19 luglio, quando Wallace stava per essere acclamato vicepresidente da una folla entusiasta di partecipanti alla Convention. Qualche secondo prima che il principale alleato di Wallace riuscisse a impugnare il microfono per chiederne la riconferma, che il fervore del momento avrebbe assicurato, il presidente della Dnc, terrorizzato da quella possibilità, si rivolse all’assemblea per aggiornarla al giorno dopo. Nonostante il coro di no e l’esiguo numero di sì, il presidente diede per vincenti i sì e fece cadere sul banco il martello che sospendeva la seduta. Le trattative notturne con scambi di favori e promesse di posti, la scelta di un innocuo manovrabile Harry Truman e l’invalidazione del biglietto d’ingresso a moltissimi di coloro che erano presenti il giorno prima fecero il resto. Alle 23.30 del 20 luglio Harry Truman era il running mate di Roosevelt.
«Truman», commenta Nichols, «sarebbe diventato presidente nove mesi dopo, avrebbe autorizzato il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, abbracciato la Guerra fredda, dispiegato l’esercito in Korea e autorizzato un’accelerazione nella fornitura dell’assistenza militare alle forze di Francia e Stati Associati in Indocina (le prime truppe statunitensi inviate in Vietnam). Avrebbe perso il controllo del Congresso a favore dei repubblicani conservatori e dei democratici del sud [i Dixiecrat razzisti] che inficiarono le protezioni dei lavoratori del New Deal con il Taft Hartley Act, e avrebbe consentito i processi dello Smith Act ai leader del Partito Comunista americano, a editori e a ufficiali eletti». «Eppure – continua Nichols – Truman non era conservatore. Da presidente aumentò la paga minima e integrò l’esercito. Criticò i peggiori eccessi di Mc Carthy» e fece del suo meglio per tentare di rovesciare la Taft Hartley e stabilire un programma di sanità nazionale. Ma la sua eredità fu comunque «un Partito democratico che ridusse invece di estendere il New Deal. Il senso della missione del partito svanì».
Il fallimento del New Party di Wallace alle elezioni del ’48
Quanto a Wallace e agli altri principali sostenitori del New Deal, nominati a cariche importanti anche nel quarto mandato di Roosevelt, poco dopo la sua morte il 12 aprile 1945 vennero epurati dall’amministrazione. Wallace tentò allora di costruire un New Party progressista con il quale si presentò alle elezioni del 1948. «Il partito di Mr. Dewey [il candidato repubblicano] – diceva Wallace – è il partito delle corporation i cui profitti sono radicati nella discriminazione, il partito delle differenze salariali. E il partito di Mr. Truman è tenuto insieme con il cemento della discriminazione. Entrambi sono i partiti del profitto e hanno scoperto che il pregiudizio è un affare vantaggioso». Ma poiché «i processi politici erano costruiti in modo tale da proteggere il duopolio» ci racconta Nichols, «milioni di liberali che avevano visto Wallace come il loro campione» si arresero al messaggio principale, ossia «la paura che vincesse un repubblicano». Mr. Dewey non era Mr. Trump ma il risultato fu analogo a quello che molti elettori democratici hanno determinato in questo apocalittico 2020, votando Biden invece di Sanders intimoriti dalla falsa propaganda sulla eleggibilità, come dimostrano le numerose statistiche secondo cui la maggioranza degli elettori di Biden lo vota solo perché non è Trump.
Nonostante il sostegno di W.E.B. Dubois, Dashiell Hammett, Lillian Hellman, Norman Mailer, Albert Einstein, Thomas Mann, Catherine Hepburn, Mary Van Kleeck, Ben Shan, Artie Shaw, Frank Lloyd Wright, e di molti altri esponenti del mondo scientifico e culturale, tra cui un Noam Chomsky non ancora ventenne, Henry Wallace ottenne solo il 2,37% dei voti.
Le svolte sempre più a destra di Clinton e Obama
Nel raccontare il progressivo deterioramento della politica statunitense contemporaneamente ai tentativi di ridare vita al New Deal da parte di sporadiche ma gloriose figure, Nichols non risparmia nulla né a Bill Clinton né a Barack Obama.
Fu con Clinton che il Partito democratico «divenne il partito della ‘triangulation’, raccogliendo il denaro per le campagne da molti degli stessi plutocrati che finanziavano il Gop, dice Nichols elencando le svolte sempre più verso destra della sua amministrazione quali l’implementazione delle deregulation commerciali; il Crime Bill del 1994, di cui Joe Biden fu uno dei creatori, che causò «un aumento del 60% del numero di persone incarcerate»; la sospensione di protezioni sociali per donne e bambini», che il dimissionario collaboratore di Clinton Peter Edelman definì un «indicibile colpo inflitto a milioni di persone del tutto impotenti». E poi l’incremento delle spese militari definite «enormi sprechi di denaro» anche da Repubblicani tra cui John McCain, e il deplorevole smantellamento della legge Glass-Steagall, passata nel New Deal «contro gli abusi speculativi delle ditte di investimento», che portò alla crisi del 2008. Con Clinton la ricerca delle audaci soluzioni proposte dal New Deal veniva definitivamente «sostituita con la ricerca dei dollari dei banchieri e dei Ceo», al cui odio Roosevelt aveva un tempo dato il benvenuto.
Quanto a Barack Obama, Nichols ricorda che nella sua prima intervista al futuro presidente, fattagli «quando era un senatore dello stato dell’Illinois in corsa per un seggio al senato degli Stati uniti», Obama gli disse che, se eletto, «il suo esempio sarebbe stato il senatore del Wisconsin Russ Feingold, il coraggioso democratico che diede l’unico voto contrario al Patriot Act di George Bush, si oppose fortemente alla guerra in Iraq e ruppe con l’amministrazione Clinton non solo in materia di guerra e pace, ma anche sulla deregulation di Wall Street e sulle politiche commerciali. Ma una volta senatore, Obama non prese Feingold come modello», tanto che tra i suoi primi voti in Senato ci fu «la conferma della Segretaria di Stato di Bush Condoleezza Rice». Tra i tradimenti delle promesse della campagna presidenziale invece, esemplare fu la scelta come capo staff di uno dei peggiori protagonisti degli anni Novanta e Duemila, il «sostenitore militante delle politiche di libero commercio favorite dalle amministrazioni Clinton e Bush» Rham Emanuel, «uno dei più strenui difensori democratici dei fallimentari interventi in politica estera di Bush». Colui che, continua Nichols, «rispose alle preghiere di aiuto dei sindacati dei lavoratori in grande difficoltà, dichiarando ‘Fuck the Uaw’ [United Automobile Workers]. Ai suoi livelli più alti, la leadership del Partito democratico era diventata apertamente sprezzante dell’idealismo liberale».
Un libro thrilling and depressing che non rinuncia alla speranza
The Fight for the Soul of the Democratic Party è al tempo stesso un manuale storico prezioso e un libro che alla prima lettura va via tutto d’un fiato, come un romanzo avvincente ma anche sconfortante per l’inesorabile sconfitta, da parte di una struttura politico-economico-finanziaria sempre più avida e spietata, dei migliori rappresentanti della politica americana degli ultimi 75 anni. Con il suo modo di raccontare Nichols è riuscito a comunicare al lettore le stesse sensazioni da lui provate durante la sua accurata ricerca, tanto che risulta curioso, verso la fine del libro, trovare gli aggettivi thrilling and depressing in riferimento alla lettura del materiale così ricco di entusiasmanti proposte politiche con cui è entrato in contatto da vicino. È comunque la speranza ad animare l’autore, che titola il nono e ultimo capitolo con frase I Want Us to Be that Party Again! (Voglio che ritorniamo a essere quel partito!), ripresa da un discorso di Alexandria Ocasio-Cortez, e che fin dal sottotitolo anticipa «come il Partito democratico potrebbe ritrovare la sua anima nel ventunesimo secolo». Raccontandoci del pellegrinaggio fatto con Bernie Sanders «nel luogo di nascita di Wallace in un pomeriggio piovoso dell’estate 2019» e della sua chiacchierata con lui, Nichols ci lascia con la convinzione che la missione di Bernie «di rinnovare il Bill of Economic Rights e di prendere quest’idea vecchia di 75 anni per portarla nel presente», vivrà nei nei suoi giovani eredi indipendentemente dalla sua vittoria.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue da tre anni la Political Revolution di Bernie Sanders.
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