Tutto qui?
Kamala Harris ha fatto meglio di Joe Biden nel duello contro Donald Trump, anche se non era difficile. Ma milioni di statunitensi si aspettano parole più chiare su diritti, guerra e armi
Uno dei momenti più strani del dibattito dell’altra sera tra la vicepresidente Kamala Harris e l’ex presidente Donald Trump è stato quando Trump ha tirato in ballo il padre di Harris, un economista di sinistra molto rispettato. In realtà, Donald Harris sembra avere un rapporto teso, nella migliore delle ipotesi, con la figlia, dovuto almeno in parte alle loro profonde differenze politiche. Durante le primarie democratiche del 2020, il professor Harris ha pubblicamente criticato Kamala per aver fatto appelli a buon mercato basati sulle «identity politics».
Nell’immaginazione di Trump, però, padre e figlia la pensano allo stesso modo: «Tutti sanno che è una marxista. Suo padre è un professore di economia marxista. E le ha insegnato bene».
L’ha anche descritta come profondamente solidale con la difficile situazione dei palestinesi uccisi, mutilati o sfollati dalle loro case dall’esercito israeliano. E alla fine del dibattito, l’ha accusata di voler dare a ogni statunitense «assistenza sanitaria pubblica» gratuita. (Orrore!).
Per quanto sia difficile da ricordare, sono passati solo due mesi e mezzo dal dibattito tra Donald Trump e Joe Biden. Quella sera fu così catastrofica per il presidente in rapido declino che ha poi dovuto abbandonare la corsa.
Le performance di Trump nei due dibattiti sono state indistinguibili. In entrambi i casi, il suo istinto è stato più e più volte quello di virare verso l’isteria xenofoba sulla presunta «invasione» di immigrati e rifugiati, anche quando rispondeva a domande che non avevano nulla a che fare con l’immigrazione. In entrambi i casi, ha accusato bizzarramente l’amministrazione Biden/Harris di un pregiudizio filo-palestinese nonostante il fatto che Joe Biden abbia armato Israele fino ai denti per il suo assalto genocida a Gaza. Al dibattito di luglio, ha detto che Biden era diventato «un palestinese» – precisamente, «un cattivo palestinese». Ieri sera, ha detto che Harris «odia Israele».
E in entrambi i dibattiti, la persona di cui era più ansioso di parlare era Biden. Ma la differenza tra le performance di Biden ed Harris è stata abissale. I commentatori conservatori come Ben Shapiro si sono ridotti a lamentarsi per gli arbirtii, che è sempre un segnale che la tua squadra sta perdendo la partita.
A luglio, Biden ha blaterato e inciampato, e spesso sembrava avere difficoltà a ricordare cosa aveva iniziato a dire. Ieri sera, Harris è stata molto più acuta e concentrata di Trump. Era ben preparata con linee di attacco e risposte preconfezionate alle offensive di Trump, e aveva un messaggio attentamente calibrato su come «il popolo americano sia esausto» delle buffonate tossiche dell’ex presidente. Harris dice spesso di essere stata un procuratore prima di essere una politica; guardandola ieri sera, è stato facile credere che fosse brava in quel mestiere.
Trump, nel frattempo, è sembrato più o meno uno squilibrato mentre inveiva su Ashli Babbitt, uccisa dalla polizia il 6 gennaio e successivamente trasformata in una martire dall’estrema destra, e ha ripetuto una leggenda metropolitana razzista sui rifugiati haitiani in Ohio che mangiano i gatti e i cani domestici. Quindi, mentre resta da vedere se ciò influirà nei sondaggi, pare chiaro che Harris ha vinto sul piano retorico il dibattito.
Ma è tutto ciò che conta? Un nuovo media che si concentra ossessivamente sulla copertura delle «corse dei cavalli» incoraggia tutti noi a pensare a noi stessi come a dei mini-esperti, che reagiscono principalmente a eventi politici come i dibattiti presidenziali prevedendo cosa ne penseranno gli altri piuttosto che cosa pensiamo noi.
Questo atteggiamento dovrebbe essere contrastato. Il compito dei politici in una democrazia dovrebbe essere quello di entusiasmare i cittadini su ciò che faranno per noi. E dovremmo essere preoccupati di quanta poca sostanza si sia sforzata di proporre Harris ieri sera. È migliore di Trump sulla maggior parte delle questioni? Ovviamente. Ma sembrava determinata a dimostrare che la sua asticella è molto bassa.
In politica estera, ha promesso di continuare le guerre per procura a Gaza e in Ucraina, e ha detto la sfacciata bugia che l’esercito Usa non è stato impegnato in combattimento sotto l’amministrazione Biden (Fact-cheching: la Marina degli Stati uniti è stata inviata nel Mar Rosso per proteggere Israele durante l’assalto a Gaza, varie milizie nella regione li hanno attaccati e gli Stati uniti hanno bombardato lo Yemen per tutta l’estate). In politica economica, ha enfatizzato la scelta di perseguire il diritto alla casa soltanto tramite qualche sgravio fiscale e un po’ di deregolamentazione.
E su armi e immigrazione, il suo messaggio è stato Trump-lite. Quando Trump l’ha accusata di voler «confiscare le armi», non si è nemmeno presa la briga di proporre leggi sulle armi che sono comuni in altre democrazie avanzate, o di sottolineare ciò che che un migliaio di politici liberal hanno sottolineato prima di lei, ovvero che c’è una ragione per cui le sparatorie di massa sono molto più comuni negli Stati uniti che in tante altre società. Ha detto solo che lei e il suo compagno di corsa erano entrambi possessori di armi e che non avrebbero approvato la scelta di «portare via» le armi.
Chiunque sia abbastanza vecchio da ricordare il 2018 ricorderà che il motivo principale per cui i liberal pensavano all’epoca che Trump fosse un fascista era per la sua crudeltà verso gli immigrati. Ma l’altra sera ha apparentemente sostenuto la falsa narrazione di destra che da la colpa agli attraversamenti illegali delle frontiere per la crisi del fentanyl, e ha criticato Trump per non essere stato disposto a sostenere un disegno di legge bipartisan sulla «sicurezza delle frontiere» che avrebbe distrutto i diritti dei richiedenti asilo.
So che ci sono tante famiglie che guardano stasera che sono state colpite dall’ondata di Fentanyl nel nostro paese. Quel disegno di legge avrebbe messo più risorse per consentirci di perseguire le organizzazioni criminali transnazionali per traffico di armi, droga ed esseri umani. Ma sapete cosa è successo a quel disegno di legge? Donald Trump ha preso il telefono, ha chiamato alcune persone al Congresso e ha detto di affossarlo. E sapete perché? Perché ha preferito cavalcare un problema invece di risolverlo.
Tutto sommato, la priorità della vicepresidente Harris sembra essere quella di presentarsi come ragionevole ai repubblicani «Never Trump» dei quartieri residenziali. Forse questa strategia darà i suoi frutti, anche se in passato ha fallito. Lo scopriremo. Ma è questo l’importante?
Viviamo in una società profondamente diseguale e militarista. Gli Stati uniti sono l’unico paese sviluppato in cui i diabetici a corto di soldi muoiono perché cercano di razionare la loro insulina. I nostri miliardari prendono voli spaziali privati mentre la nostra working class è una delle poche al mondo a cui non è garantito nemmeno un giorno all’anno di ferie pagate. E mentre gli statunitensi discutono su come interpretare i fondi di caffè degli ultimi sondaggi dalla Pennsylvania, le bombe fornite dagli Stati uniti stanno dilaniando i bambini a Gaza.
In questo contesto, è amaramente ironico che Trump abbia «accusato» Harris di essere contraria agli aiuti degli Stati uniti all’esercito israeliano, di essere influenzata dalle opinioni di economisti socialisti come suo padre e di voler fornire assistenza sanitaria a ogni singolo americano, e che tutte queste accuse siano false. Harris non ha torto quando dice che gran parte del paese è stanca di Trump e pronta ad andare avanti. Ma meritiamo di andare avanti verso qualcosa di molto meglio di qualsiasi altra cosa offerta nel dibattito dell’altra sera.
*Ben Burgis è professore di filosofia al Morehouse College e conduttore del podcast Give Them An Argument. È autore di diversi libri, il più recente Christopher Hitchens: What He Got Right, How He Went Wrong and Why He Still Matters. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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