Ultimo stadio
In occasione di Inter-Barcellona, la società milanese twittava entusiasta di aver fatto il record di incassi. Ma gli stadi sono sempre più vuoti e lo sport più popolare si trasforma in un momento esclusivo
In occasione della partita di Champions League Inter- Barcellona l’Inter twittava entusiasta di avere incassato 5,8 milioni di euro dalla vendita dei biglietti, “l’incasso più alto della storia per una squadra italiana”. Dal momento che lo stadio di San Siro non ha aumentato la sua capienza improvvisamente (anzi, in seguito alle ristrutturazioni degli ultimi anni la capacità è diminuita di alcune migliaia di posti) e dato che questa non è la prima partita che registra il tutto esaurito nella storia del Meazza, i conti sono presto fatti. Ciò che spiega l’incasso record è dovuto all’aumento dei biglietti: terzo anello, 55 euro.
Fra i mutamenti che il calcio italiano ha sperimentato negli ultimi anni, quello dell’accesso agli stadi e della fruibilità delle partite dal vivo rappresenta un cambiamento palpabile. Il problema principale di questo meccanismo è quello dei prezzi.
Un calcio impopolare
Nel giorno del mio decimo compleanno, mio padre mi portò a vedere la prima di campionato. Inter-Brescia, o meglio, la partita passata alla storia per l’esordio di Ronaldo (l’unico Ronaldo) nel campionato italiano. O, meglio ancora, la gara d’esordio di Dario Hubner in serie A e del Chino Recoba che, con due missili all’incrocio dei pali, recuperò il goal dell’attaccante triestino. In quegli anni in cui noi ragazzini ci rasavamo la testa (non per motivi politici) e sfoggiavamo improponibili codini, il prezzo medio del biglietto per le partite casalinghe dell’Inter era di 24,7 euro. Tenendo conto dell’inflazione, si tratta di 35,4 euro del 2017. La differenza con i nostri giorni è notevole. Oggi, per vedere il Frosinone a Milano non si scende sotto i 30 euro. La fascia di prezzi per un biglietto senza riduzioni per le partite casalinghe di alcuni dei principali club italiani oscilla fra i 25-75 euro per la Roma, 30-125 euro per Inter e Milan, 40-125 euro per la Juventus. Questi valori rappresentano solamente la base di partenza, che può tranquillamente aumentare nel caso di competizioni più sentite: Milan-Juventus costa almeno 75 euro. L’impatto di questi aumenti sul potere d’acquisto è ancora maggiore se consideriamo l’evoluzione dei salari reali: un mero +2,8% dal 1997. Il caro biglietti non è passato insosservato ai tifosi, che hanno più volte protestato contro questa tendenza e che in alcuni casi si è arrivati al boicottaggio degli ingressi.
In questo quadro bisogna anche considerare come si è evoluto l’uso delle strutture sportive. Sempre più società si stanno muovendo verso il modello inglese, che all’uso di strutture pubbliche sostituisce stadi di proprietà delle società calcistiche. Questo modello spesso si accompagna a un restringimento delle possibilità di accesso al calcio dal vivo. Il caso più eloquente è quello della Juventus, che è passata dal Delle Alpi, con una capienza di 77 mila spettatori circa, allo Stadium (anzi, all’Allianz Stadium), con meno di 42 mila posti. Quasi la metà dello storico Delle Alpi. Una delle conseguenze di questa logica è stato l’aumento dei prezzi degli abbonamenti. Quest’anno, per vedere la squadra allenata da Allegri, i tifosi hanno dovuto sborsare almeno 595 euro per garantirsi un abbonamento, contro i 350 dei sostenitori napoletani e i 255 pagati dagli interisti. Le rivalità calcistiche non c’entrano, non si tratta di frapporre società, più o meno buone, nel trattamento rivolto ai tifosi. Siamo di fronte a un meccanismo generalizzato che sta progressivamente erodendo la fruizione popolare del calcio ai massimi livelli (nazionali). C’è da aspettarsi che meccanismi simili si installino una volta che anche le altre squadre (come Roma e Milan) porteranno a compimento i loro nuovi stadi, entrambi più piccoli degli attuali.
Paradossalmente, questi prezzi si inseriscono in un contesto in cui esiste un’ampia offerta di posti a sedere inutilizzata. Il calo storico degli spettatori è evidente. Nell’ultimo periodo il numero di spettatori degli incontri di Serie A è di circa 23 mila unità in media, mentre negli anni Novanta si attestavano sui 30 mila a partita.
Questo ha portato a casi eclatanti, come la chiusura del terzo anello del Meazza che rimane inaccessibile nella maggior parte delle partite. Si tratta del settore più lontano dal campo di gioco, ma anche quello tradizionalmente più economico. Come contropartita, come abbiamo visto, non c’è stata una diminuzione dei prezzi degli altri settori, dove anzi sono aumentati. Prezzi decisamente anti-popolari che sicuramente non sono giustificati dai risultati, tutt’atro che esaltanti, delle squadre milanesi nelle ultime stagioni. Negli ultimi anni, lo stadio più importante d’italia ci ha abituato a tristi immagini di gradinate vuote. Qui come per molti altri impianti, si sarebbero putute mettere in moto politiche per aumentare l’accesso al calcio dal vivo. Questa visione però si scontra con il modello di business perseguito dalle società: un modello elitista. Il calo degli spettatori non rappresenta una preoccupazione per le squadre, che possono garantire un flusso costante (o crescente in alcuni casi) di introiti dalla biglietteria grazie all’aumento dei prezzi. Mentre il numero di tifosi presenti alle partite diminuisce, i ricavi provenienti dalle gare per tutte le società sono sostanzialmente stabili. Aumentano voci quali i diritti televisivi e ricavi commerciali. In questo contesto, non sorprende l’ipotesi di spostare lo svolgimento di alcune gare della Serie A all’estero; il popolo che si nutre di calcio non è il benvenuto sulle gradinate.
In prospettiva internazionale, il confronto sulla presenza negli stadi è impietoso. La percentuale di presenze negli stadi italiani è ben al di sotto di quella degli altri principali paesi europei in tema calcistico. Secondo i dati Eurosport e Figc, nella stagione 2015/2016 le strutture di Serie A sono stati occupati solo un 55% della loro capienza totale, contro il 94% della Premier League, il 93% della Bundesliga, il 69% della Liga spagnola e il 66% di quelli transalpini.
Sul fronte della trasmissione televisiva del calcio giocato, la situazione non è più rassicurante. A partire da quest’anno per vedere tutte le partite di Serie A è necessario il doppio abbonamento (Sky + DAZN) per un costo totale superiore ai 40 euro mensili. Mentre Sky lascia sostanzialmente invariati i costi dell’abbonamento del pacchetto necessario per vedere la Serie A, il numero di partite offerte diminuisce considerevolmente. Questo sdoppiamento rappresenta una piccola rivoluzione nell’offerta delle pay-tv. Il mito della concorrenza che favorisce il consumatore stimolando l’abbassamento dei prezzi, si scontra con la realtà di un capitalismo monopolistico.
Nella valutazione degli interventi istituzionali riguardanti il calcio dal vivo, un altro tassello imprescindibile in questo puzzle è rappresentato dalla lotta aperta al “tifo violento”. La tessera del tifoso, il Daspo e la schedatura dei tifosi sono alcune delle misure adottate con l’obbiettivo dichiarato di contrastare gli atti violenti nel calcio. Dietro la maschera della sicurezza, gli stadi hanno rappresentato nei fatti il laboratorio privilegiato delle politiche sul controllo sociale. Misure che non hanno scardinato, perché appunto non rientrava negli obiettivi, i meccanismi criminali e in certi casi mafiosi presenti in alcune sacche di tifoseria. Il caso più recente arrivato agli onori della cronaca è quello della Juventus, documentato da Report, sui legami fra gli ultras bianconeri e cosche mafiose legate al bagarinaggio. Bagarinaggio che, va da sé, non fa che ridurre la possibilità di accesso alle partite a prezzi popolari. Quello della Juventus non è che l’ultimo esempio di come la malavita sia tutt’oggi presente negli stadi italiani.
“Riportare le famiglie allo stadio” hanno ripetuto instancabili i politici nostrani, tra cui l’immancabile Renzi. A conti fatti, possiamo quasi credere che questa, come le altre profezie dell’ex premier originario di Rignano sull’Arno, porti sfiga. Indipendentemente della retorica della nostra classe politica, lo stadio sta diventando un luogo sempre più inaccessibile per le famiglie provenenti dai ceti popolari.
Democratizzare lo sport
Non si tratta di richiedere la nostra dose di panem et circenses. La democratizzazione dello sport, dall’accesso a alla sua fruibilità da spettatori, a tutti i livelli non soltanto quelli massimi è un obiettivo sacrosanto di accesso alla partecipazione sociale. La strategia in atto, nel calcio, nello sport in generale come in troppi altri settori della società è oggi quello di restringerne l’accesso rendendoli un affare per pochi. Il calcio da spettacolo popolare a salotto di casa per i più ricchi o attrazione per turisti benestanti.
“Il lunedì gli operai al lavoro parlano di calcio, non di Marx”, mi rimproverava il padre metalmeccanico del mio amico Michele quando, da adolescenti, il nostro ribellismo ci portava a rifiutare il sistema calcistico e, di riflesso, il calcio in toto. Al contrario anche il calcio va assunto come terreno di battaglia per una società più democratica: i tentativi di emarginazione e esclusività vanno respinti ai mittenti.
*Davide Villani, PhD in Economics alla Open University. Si occupa di struttura produttiva e finanziarizzazione dell’economia.
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