
Un altro genere di forza
La nonviolenza come risposta collettiva, corale, a un tempo sofferta e gioiosa al lutto per sfuggire alla depressione e rispondere efficacemente alla violenza strutturale, nel nuovo libro di Judith Butler
In base a quale schema di riferimento la violenza viene definita come tale per giustificare azioni violente e al tempo stesso occultare quanto esse siano strutturalmente violente? Il poliziotto che stringe il collo di un uomo a terra sino al punto di strangolare una persona inerme agisce così perché davvero ritiene che la sua e la nostra vita siano in pericolo? O quando un nero volta la schiena e scappa e viene crivellato di pallottole? O quando un tossicodipendente in stato di arresto viene brutalmente picchiato? O quando migliaia di migranti vengono lasciati annegare nel Mediterraneo o sopravvivono in condizioni indegne in campi di reclusione e confino?
Judith Butler nel suo nuovo libro (La forza della non violenza, un vincolo etico-politico, traduzione di Federico Zappino, Nottetempo 2020) dimostra ancora una volta la sua capacità di problematizzare e arricchire il pensiero critico in una continua ricerca delle forme di resistenza alla necropolitica contemporanea e in un dialogo serrato tra democrazia «sorgiva» (la gioia di partecipare, l’assemblea dei corpi) e «insorgiva» (la nonviolenza militante e necessariamente «aggressiva» volta a decostruire la violenza strutturale di un sistema).
Da subito appare evidente che ogni discorso su violenza e nonviolenza parte dalla necessità di decostruire le interpretazioni con cui la violenza viene sempre paludata o occultata dagli schemi di riferimento che la nominano, specialmente quando questi schemi definiscono «violento» qualsiasi sforzo volto a evidenziare la violenza sistemica, rappresentata come ineludibile prerogativa di un apparato di controllo sociale.
È importante, dice Butler, «tracciare i modi in cui la violenza si riproduce sotto forma di logica difensiva intrisa di paranoia e di odio». «D’altronde – aggiunge – non c’è modo di praticare la nonviolenza se prima non la si interpreta in relazione alla violenza, specialmente in un mondo in cui questa appare sempre più giustificata in nome della sicurezza, del nazionalismo o del neofascismo».
Gli esempi non mancano: abbiamo visto come la critica alle politiche di discriminazione dello Stato di Israele viene riletta come antisemitismo in collusione violenta con il nemico; come un articolo di un giornale turco critico nei confronti delle politiche del governo e della sua collusione con l’Isis in Siria e come una petizione per la pace con i curdi siano state interpretate e come atti di guerra; come la lotta per l’uguaglianza degli afroamericani sia stata più volte definita come una minaccia violenta alla sicurezza nazionale. Anche la riflessione critica sul «genere» è stata interpretata come un attacco nucleare contro la famiglia.
Chi è degno di una buona vita?
Butler suggerisce che la razzializzazione (e tutte le altre forme di esclusione che non si limitano al colore della pelle) modifica la percezione in modo tale che alcune vite abbiano un diverso valore o non siano nemmeno considerate tali. Di fronte all’omicidio di Willy Monteiro Duarte qualcuno ha potuto scrivere: «In fondo era solo un extracomunitario». Per comprendere quale sia la cartina di tornasole che rivela la violenza sistemica, si può partire da questa definizione ormai classica di Ruth W. Gilmore:
Il razzismo, in modo specifico, consiste nella produzione e nello sfruttamento della maggior vulnerabilità di un gruppo esposto alla possibilità di una morte prematura – sia in forme autorizzate dallo Stato che in forme non giuridiche.
Butler da anni ragiona su quanto la differenza tra vite degne e indegne di lutto sia un efficace criterio per immaginare il possibile e rifondare un’etica politica. Il concetto di «grievability», centrale nell’articolazione del suo discorso, può essere tradotto così: «La possibilità di onorare una vita come degna di lutto». Ma esso implica anche la possibilità o impossibilità di celebrare il valore di una vita che potrebbe ancora essere vissuta.
Solo entro i confini della «cittadinanza» (e in modo di fatto assai limitato se consideriamo il trattamento differenziale di molte donne, bambini, migranti, seconde generazioni, anziani) le vite degne di lutto sono quelle per le quali si può immaginare una prospettiva di salvaguardia pubblica dalla violenza. «In questo mondo – scrive Butler – le vite non contano tutte allo stesso modo; la loro richiesta di non essere offese o uccise non sempre viene presa in considerazione. Uno dei motivi per cui questo accade è che le loro vite non sono considerate degne di dolore o di lutto. Tra le molte ragioni di ciò vi sono il razzismo, la xenofobia, l’omo-transfobia, la misoginia o l’indifferenza sistemica nei riguardi dei poveri e degli spossessati. […] Non possiamo fare a meno di porci nuovamente gli interrogativi fondamentali del nostro tempo: cosa rende una vita degna di valore? Cosa giustifica i modi iniqui di considerare le vite? Come si può iniziare a formulare un immaginario egualitario che divenga parte della nostra pratica nonviolenta – una pratica di resistenza, vigile e carica di speranza?».
Il mito dello «stato di natura»
Il mito a partire dal quale Hobbes scrisse il Leviatano nel 1651 descrive l’aggressività umana come costitutiva di un immaginario stato di natura che vedrebbe ogni singolo uomo (le donne naturalmente non entrano nel discorso) pronto a sfidare tutti gli altri per soddisfare i suoi bisogni. Come se un tribalismo da «orda» violenta predisposta alla lotta prevaricante di ognuno fosse la condizione naturale pronta a riemergere se lo Stato non esercitasse il suo potere e la sua «violenza legale» per limitare i danni. Oggi sembra invece emergere la realtà di una legalità animata da un fantasma sadico dove molti Stati e governi rivendicano la legittimità di un’autodifesa estrema e violenta contro pericoli immaginari animati da fantasie paranoiche di distruzione. La natura stessa di questa violenza viene continuamente occultata sul piano discorsivo e sovente anche su quello giuridico, proprio col ricorso hobbesiano che giustifica la violenza come prerogativa dello Stato come regolatore di rapporti che altrimenti tenderebbero all’anarchico perseguimento distruttivo delle pulsioni individuali.
Butler parte da una diversa esplorazione dell’aggressività come predisposizione psichica specificatamente umana. Ci sarebbe un’ambivalenza radicale al cuore dell’esperienza umana, un’oscillazione tra amore e odio che nasce dal legame stesso, dalla dipendenza, dall’essere affidati e in balìa, dall’attaccamento e dal modo in cui la nostra vita è da subito inestricabilmente legata a quella degli altri e dalle eredità senza testamento che la storia ci affida. Il sé non è mai strettamente individuale ma si costruisce a partire da questo indissolubile intreccio. La possibilità di una deriva paranoica nella costruzione delle identità nasce probabilmente da questa consapevolezza della natura ambivalente dei «legami».
Tuttavia mentre nei sistemi naturali l’aggressività di ogni singola specie è connessa al bisogno di nutrirsi, di riprodursi e difendere un territorio e sembra ricombinarsi con un complessivo equilibrio sistemico, nella società umana l’aggressività tendenzialmente o sovente sfugge a questa implicita tendenza. Non abbiamo più a che fare con una dinamica del reciproco nutrirsi e nella maggior parte delle società umane la possibilità della distruzione si accentua con una tendenza al cieco perseguimento della guerra, della prevalenza della specie, della colonizzazione, della disuguaglianza, del profitto individuale a prescindere da tutto, persino dalle condizioni stesse di sopravvivenza della vita come la conosciamo. Questo ben al di là dell’ambivalenza costitutiva dei primi legami affettivi.
Gli studi dell’antropologo David Graeber, scomparso pochi giorni fa, hanno invece lungamente esplorato le tradizioni di solidarietà che si esprimono in molte forme proprio nelle società «senza stato». Qui il potere sociale è infatti considerato effimero, precario, intrinsecamente debole, sottoposto a mille limitazioni e tabù. Pur considerando la straordinaria variabilità del dato etnografico Graeber e altri ci hanno raccontato come in molte tradizioni costituiscano l’anima dell’esperienza gruppale senza alcun bisogno di essere controllate «socialmente». Ciò non vuol dire che l’aggressività venga negata. Ne La caduta del Cielo (Nottetempo, 2018, traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri) lo sciamano yanomami Davi Kopenawa nel raccontare la fierezza combattiva del suo popolo evidenzia la totale assenza di una pulsione genocida: l’elaborazione del lutto non genera il desiderio paranoide e necrofilo di annientare radicalmente l’altro.
Davi Kopenawa, nella sua etnografia del nostro «triste occidente» rovescia la prospettiva inaugurata da Levi-Strauss con il suo classico saggio sui «tristi tropici» ragionando sulla presunzione dei bianchi e su quanto la loro distruttività derivi dalla rimozione della mortalità: «Il loro pensiero è di corto respiro e oscuro. Non riesce a estendersi ed elevarsi perché essi scelgono di ignorare la morte». L’aggressività e la stessa fisiologica reazione di rabbia di fronte a un lutto inaspettato vengono ritualizzate senza cedere totalmente alla paranoia, ci può essere uno scambio di frecce col supposto mandante di un attacco magico ma senza mai pensare alla distruzione del suo gruppo. Una serie di mediazioni successive porta alla riconciliazione in una sorta di giustizia riparativa tribale. Tutto ciò viene contrastato con l’aggressività bianca che nasce da un’elaborazione profondamente paranoica del lutto perché chi uccide «per desiderio geloso dell’oro […] non sa piangere i propri morti». In realtà, dice Kopenawa, anche i bianchi fanno la guerra per i loro cimiteri ma non lo sanno e compensano i lutti negati con la brama di possesso, diventano «popolo delle merci» e «mangiatori di terra».
Nonviolenza e violenza strutturale
Se la nonviolenza ha un senso come posizione etico-politica non può ignorare l’aggressività. La legittimità delle lotte anche nei loro momenti più esplosivi non è in discussione, eppure la violenza, sostiene Butler ha una sua autonomia pericolosa, di per sé è una forma di azione che tende a eludere il controllo e andare al di là delle intenzioni.
Vi è inoltre un aspetto decisamente patriarcale nel considerare la violenza «attiva» «maschile» e la nonviolenza «passiva» «femminile» (vedi anche il bel libro di Alessandra Chiricosta che ha ispirato il titolo di questo articolo). Spesso la violenza viene considerata come un mezzo necessario per raggiungere un nobile fine. La nonviolenza al contrario non è né un mezzo per raggiungere un fine e nemmeno un fine perché rifiuta la logica strumentale del dominio. È ciò che Walter Benjamin definiva un «mezzo puro» strutturalmente dissimile dalla logica del dominio. Benjamin già chiariva che ogni regime che deve legittimare il monopolio della violenza tenterà di rileggere come violenta ogni critica o sfida a quel regime…
Per Butler solo la nonviolenza militante avrebbe la forza condivisa di strutturare alleanze volte a ridefinire una qualità etica e politica di resistenza, denuncia e smascheramento della violenza sistemica che nega il valore di alcune vite, che non le considera degne di lutto:
La pratica della nonviolenza necessita di un’opposizione alle forme biopolitiche di razzismo e alle logiche di guerra che regolarmente operano distinzioni tra vite che vale la pena salvaguardare e vite per cui non vale la pena farlo – popolazioni concepite come danni collaterali o come ostacoli alla realizzazione di obiettivi politici e militari.
Se la stessa idea di «umano» è determinata storicamente e articolata in forme in cui prevale la disuguaglianza, il vincolo etico-politico della nonviolenza non può essere definito al di fuori di un immaginario comunitario che dovrebbe costituire il cuore pulsante delle pratiche. Nel riconoscimento della radicale uguaglianza di chi è degno di lutto. La nonviolenza ha senso al di fuori di ogni individuale tentazione «eroica» nella costruzione condivisa di una risposta alla disuguaglianza strutturale che dà forma alla violenza sistemica.
Il potere di una comunità
Butler prende lo spunto da una lettera angosciata di Einstein a Freud in cui gli chiede se la deriva nazionalista paranoide (che porterà al delirio nazista) sia radicata in una tendenza psicotica della psiche, in un amore della guerra e della morte destinato a prevalere. Freud risponde senza insistere sulla possibilità che la necrofilia e la pulsione di morte trionfino evocando una possibilità alternativa e cioè che una «comunità di interessi», «un’alleanza dei deboli», «il potere di una comunità» prevalgano sulle logiche del dominio. Per far questo occorrerebbe ovviamente una denazionalizzazione dell’immaginazione in grado di spegnere la miccia paranoica che l’identitarismo tende ad accendere. Non a caso l’ultimo capitolo de La forza della nonviolenza, volge proprio alle difficoltà nell’elaborazione del lutto, a come contrastare la deriva depressiva, in agguato anche per chi milita dopo tante delusioni.
Qui il discorso si fa però più complesso perché Butler evoca una sorta di positiva risposta maniacale come una risposta collettiva, corale, gioiosa – in quell’intreccio di democrazia «sorgiva» e «insorgiva» di cui si accenava nei primi paragrafi di questo articolo.
Bisogna premettere che dal punto di vista clinico la dimensione della «mania» è sempre associata a un disturbo dell’umore, a uno stato eccessivo di eccitazione, molto sovente associato alla sindrome bipolare o maniaco-depressiva. In altre parola la fase «maniacale» è considerata una compensazione temporanea di un più strutturale stato depressivo, cosa a cui la stessa Butler accenna.
Del resto, la spinta maniacale, e la manipolazione eccitata di pulsioni ed emozioni, viene ampiamente utilizzata a destra come motore di identificazioni affettive e di coesione sociale fondate sull’identitarismo escludente e rabbioso.
Sul menefreghismo condiviso, sul sessismo, sulla razzializzazione a compensazione del familismo dichiarato, dei lutti, delle ferite e della subalternità elaborati in chiave rabbiosa e paranoica. La violenza strutturale deve nutrire queste forme di «mania».
Ovviamente qui Judith Butler tenta una ridefinizione del concetto di «mania» evocando la forza trasformativa di una spinta affettiva condivisa da un’assemblea di corpi, di vulnerabilità e di differenze. Un movimento immerso nella sospensione radicale della violenza che nello slancio si riconosce autenticamente vitale, aperto al possibile, capace di moltiplicare la propria efficacia. Per quanto necessariamente sopra le righe, (è questo il riferimento alla «mania»?) esso si contrappone con tutta la forza possibile alla violenza e agli squilibri che costringono all’acquiescenza o al nichilismo populista.
Nel libro di Judith Butler vi sono numerosi accenni all’interdipendenza costitutiva dei sistemi viventi e non viventi, una sorta di svolta inclusiva ampia (non a caso oltre a Mbembe viene citata anche Donna Haraway). Io credo che siano proprio le «ecologie dei popoli indigeni» ad aiutarci ad ampliare la riflessione su cosa Butler possa intendere per «mania» nel senso di una immersione in qualcosa di non finalizzato, predefinito, ideologizzato. Una dimensione per certi versi analoga al «nagual» (la capacità trasformativa) mesoamerindiana o alle pratiche di prospettivismo sciamaniche (trasversali dall’Amazzonia alla Melanesia) che fanno «danzare le immagini» riuscendo a entrare radicalmente in una prospettiva «altra» che esula dai saperi e dalle identità costituite senza farsene divorare e riuscendo poi a tornare alla propria prospettiva e a integrarla con ciò che – nelle parole dello psicoanalista Wilfred Bion che parafrasava a sua volta il poeta John Milton – riusciamo a trarre dall’«infinito vuoto e senza forma».
Quest’immersione in un non-sapere, in un’esperienza senza altro fine se non quello di smontare la logica dei fini, è forse da intendere come una full-immersion relazionale, in cui ci immergiamo pienamente nella resistenza alla violenza. Sarebbe allora al contempo un essere-con, un essere-senza e un essere-a-rischio e potrebbe anche generare un essere-per: un’appartenenza senza identità definitite dalle logiche binarie che la violenza sistemica predilige.
Lasciarsi andare senza perdersi non è affatto facile richiede «spazi sicuri» (safe spaces), condivisione di ricerca, solidarietà concreta. Se l’aggressività è costitutiva della stessa pulsione di vita, la possibilità di negoziarla all’interno di spazi solidali promotori di nonviolenza appare cruciale per combattere la violenza strutturale e la distruttività cieca promossa dalle logiche di disuguaglianza del neoliberismo. Per Butler la nonviolenza può trasformare l’ambivalenza nel cuore pulsante di una prospettiva ecosistemica e organica del nostro essere viventi insieme ad altri viventi.
Avremmo in questo senso a che fare con una dialettica non lineare, un ritmo tra momenti di identità alternati a una condivisa appartenenza non identitaria. Mi convince ciò che ha detto recentemente Paul B. Preciado sulla partecipazione gioiosa come tecnologia di vita e inscrizione in una genealogia della resistenza:
La razza è una tecnologia di controllo sviluppata dal colonalismo capitalista. Vale lo stesso per la differenza sessuale. A me interessa chiedere: cosa vogliamo essere collettivamente? Cosa saremmo se non fossimo stati formati da tecnologie di potere patriarcal-coloniali? Come potremmo desiderare? Fino a ora tutte le lotte politiche sono state concepite in termini d’identità […] Certamente in movimenti come Black Lives Matter, è necessario passare per politiche dell’identità, e bisognerebbe viverle come una specie di festa politica collettiva. […] Così come abbiamo visto emergere la voce delle donne stuprate, abusate sessualmente. Si tratta di qualcosa di unico e che deve essere ascoltato, che non può essere ignorato perché in ogni situazione si tratta di violenze specifiche che ci parlano dell’infrastruttura stessa e dei meccanismi di controllo e di dominio. Ci indicano dove è necessario agire. […] e allo stesso tempo non possiamo credere a quella tassonomia identitaria che pretende di dar conto di ciò che siamo.
Se il razzismo è una delle forme che rivela la violenza insita nella rivendicazione di una «essenza» identitaria che sfuggendo viene proiettata sul simulacro della differenza (il colore della pelle) la tensione all’uguaglianza delle lotte nonviolente potrebbe costituire nella loro intersezione un’apertura radicale alla pluralità.
La tradizione degli oppressi di cui parlava Walter Benjamin ha molto a che fare con questa capacità di superare la fissazione identitaria e celebrare il possibile in condizioni impossibili, di celebrare cioè il valore di ogni vita anche là dove esso viene negato – è per questo motivo che la celebrazione delle vite non ritenute degne di vita, può diventare l’occasione per una mobilitazione dei corpi e della memoria verso un’aspirazione condivisa. Una risposta che contrasti efficacemente l’amore paranoico per la guerra e l’esclusione agita dai dottor Stranamore della necropolitica contemporanea.
Tutto ciò impone di coltivare non solo un’etica del dovere – sempre a rischio di derive totalizzanti o ideologiche – ma anche una real-politik della meraviglia e una poetica della relazione. L’immaginazione politica e utopica che Judith Butler con molti altri ci invita a esplorare.
*Fabrice Olivier Dubosc è etnoclinico e psicoterapeuta. La sua ricerca si interroga sulle possibili forme di una psicologia decoloniale. Ha esplorato le risonanze psicosociali dell’eredità coloniale in Approdi e Naufragi, resistenza culturale e lavoro del lutto (Moretti e Vitali, 2016). Nel suo ultimo libro, Sognare la Terra. Il troll nell’antropocene (Exòrma 2020), ragiona di diritto al respiro, violenza e nonviolenza, vulnerabilità e interdipendenza, immaginazione etica e politica, sogni pandemici e non.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.