Un corteo per invertire la rotta
Più di centomila a Roma per chiedere un cambiamento di sistema. Voci dalla manifestazione contro le grandi opere e le devastazioni ambientali
«No alle grandi opere e alle devastazioni ambientali!». Lo slogan è impresso sullo striscione giallo e rosso alla testa di un corteo che sembra essere senza fine. È il pomeriggio di sabato 23 marzo e Roma, come non accadeva ormai da tempo, è attraversata da una manifestazione oceanica. Oltre centomila persone provenienti da ogni parte dell’Italia si sono ritrovate nella capitale per ribadire come il cosiddetto governo del cambiamento non stia operando la necessaria inversione di marcia nelle politiche globali, e soprattutto nazionali, su ambiente e territorio.
Tra le bandiere NoTav, No Triv, NoTap, cartelli e manifesti hanno illustrato decine di lotte territoriali spesso poco conosciute. Battaglie contro le discariche o contro la costruzione di lussuosi resort; comitati nati per chiedere la bonifica di terreni inquinati o collettivi che si oppongono ai processi di turistificazione delle città disegnano la mappa di un’altra Italia. Un paese in cui non si investe nella messa in sicurezza dei territori e si inquina, mentre i costi del cambiamento climatico e di un ambiente malato vengono pagati dalle fasce sociali più deboli.
La Marcia per il clima arriva subito dopo il 15 marzo. Solo la scorsa settimana, anche le scuole italiane si univano all’appello dell’attivista svedese Greta Thunberg, da cui nasce il movimento FridayForFuture, formato principalmente da ragazze e ragazzi di tutto il mondo per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sulle conseguenze dei cambiamenti climatici. Secondo uno degli studi pubblicati lo scorso anno dall’Ipcc, il gruppo intergovernativo di scienziati impegnati ad analizzare gli effetti del riscaldamento globale, non c’è più tempo. Per fermare il global warming entro 1,5 gradi, sarà necessario abbattere le emissioni di gas inquinanti al 45% entro il 2030 e al 100% per il 2050. Un grido di allarme è stato lanciato dalle generazioni più giovani: «Non abbiamo un pianeta B».
E studenti e studentesse sono tornati anche ieri in piazza. «Venerdì scorso abbiamo partecipato a uno sciopero globale. Oggi, invece, ci rivolgiamo all’Italia. Noi veniamo dal Veneto e siamo attivi anche nel comitato No Grandi Navi» dice Giovanni, studente di Venezia. «La colpa è di qualcuno, non di tutti. Questi accordi presi per salvaguardare il clima non bastano – sottolinea Sara – Il modello di sviluppo attuale non è sostenibile. Per cambiare le cose, ognuno di noi deve essere un attivista ambientale». Tra i giovanissimi spiccano quelli delle scuole della Basilicata. «La nostra regione è lontana dalle telecamere – afferma una studentessa – La situazione sta precipitando. I nostri paesi sono sempre più inquinati, e le persone continuano ad ammalarsi e a morire di tumore a causa delle raffinerie di petrolio. Non è questo il futuro che vogliamo».
Dal Nord al Sud Italia, non c’è un punto dello stivale che veda il territorio libero da logiche speculative. «Il grande Nord Est è fallito. L’avanguardia economica di cui per anni si è parlato ormai non esiste più. Il decreto Genova non ha fatto altro se non alzare di venti volte le soglie dei fanghi di idrocarburi da spargere sul terreno. L’Efsa [autorità europea per la sicurezza alimentare, Ndr] ha autorizzato l’uso del glifosato, di pesticidi e di Pfas in agricoltura. Ma noi abbiamo già 400 mila persone costrette a bere acqua avvelenata – raccontano gli attivisti dei comitati veneti – Con il governo Zaia, il prosecco è diventata la monocoltura principale, distruggendo le campagne e la salute dei cittadini. Nei bambini si trovano tracce di veleni e l’aumento dei pesticidi ha abbassato la resistenza agli antibiotici. E sarebbe questo il progresso?».
A unire da un estremo all’altro il paese ci hanno pensato un gruppo di ciclisti della Riviera del Brenta, negli ultimi due anni colpita da alluvioni e tornado. «Siamo stati accolti con gioia nelle città visitate. A Padova, Rovigo, Perugia ci aspettavano con entusiasmo – ricorda con un sorriso Franz – Abbiamo scelto di usare il mezzo più ecologico, la bicicletta, per sensibilizzare le persone sui cambiamenti climatici. Gli effetti si stanno vedendo anche in Italia. Sta alle amministrazioni locali, non solo ai cittadini, compiere scelte radicali e coraggiose per salvare la terra».
«Greta siamo tutti noi cittadini – dicono da Le Monachelle di Pozzuoli – Denunciamo da anni gli scempi ambientali compiuti sulla nostra costa, molto simile a quella di Bagnoli. Non possiamo accedere al mare per via delle concessioni private. Bisogna ripensare il demanio pubblico». Lo spezzone del Sud Italia ha portato con sé diverse istanze. Lo striscione «Stop Biocidio» ricorda le dozzine di vittime della Terra dei Fuochi, e quanto intere città siano state avvelenate dagli sversamenti tossici finiti direttamente nelle falde acquifere. Dietro la Campania, ancora i movimenti contro le Trivelle e i No Muos. «In Sicilia hanno pensato di usare una sugareta per scopi militari – racconta Fabio di Niscemi – Nessuno ci ha chiesto cosa ne pensassimo, e la decisione non ha tenuto conto nemmeno degli enti locali. Noi chiediamo che le decisioni debbano considerare le risposte dal basso». Almeno trenta comitati sono partiti dalla Calabria per manifestare a Roma il proprio dissenso contro chi parla di green economy non avendo cura di un territorio martoriato dalle navi dei veleni e spesso usato come una pattumiera. «Abbiamo mille problemi. Dalla centrale Enel del Mercure agli inceneritori, fino al megadotto di Trebisacce che costerà un miliardo e mezzo di euro – dice Gennaro – Questi soldi dovrebbero essere investiti in infrastrutture e tutela dell’ambiente».
Altro protagonista è il Forum per l’Acqua Pubblica. «Il
nostro voto al referendum non è stato rispettato. Oggi ci ritroviamo una rete
idrica fatiscente. Un litro di acqua su due si perde e la gestione resta sempre
più nelle mani dei privati», dice Riccardo.
La Marcia per il clima evidenzia quanto le risorse ambientali siano oggetto di
politiche estrattiviste. Spesso siamo abituati a pensare all’estrattivismo come
qualcosa distante dall’Europa e dall’Italia. Oggi, invece, ci troviamo davanti
a un destino globale. Il capitalismo estrattivista si appropria delle ricchezze
di un territorio, sociali e ambientali, e aggredisce con “modelli economici
predatori” i territori. «La nostra è una società estrattivista. Non si tolgono
solo le risorse dal sottosuolo ma si nega, a chi abita i territori soggetti a
decisioni prese dall’alto, la possibilità di scegliere cosa sia giusto per le
proprie vite», ha spiegato Giulia di Re:Common
durante l’iniziativa Cosmopolitiche tenutasi a Roma presso il Forte Prenestino
in vista del corteo.
Cambiare rotta è possibile. Al posto di progettare infrastrutture dannose, utili soltanto a consumare il suolo e a distruggere le campagne, occorre garantire la salute dei cittadini. Entro un secolo, un quinto dell’Italia rischia la desertificazione. Un fenomeno pericoloso, portato avanti dalle devastanti pratiche dell’agricoltura industriale. L’agroindustria è tra i principali saccheggiatori delle campagne. L’agricoltura contadina è stata messa a dura prova dalle leggi a favore della Grande distribuzione organizzata, distruggendo il rapporto tra le città e la campagna.
Oltre alla riduzione delle fonti fossili, della contrapposizione tra lavoro e salute, un altro sentiero da percorrere è l’unione delle lotte tra territori rurali e contesti urbani. Solo in questo modo si otterrà la giustizia climatica, abbattendo le politiche criminali che mettono a repentaglio il presente e il futuro delle prossime generazioni.
*Alessia Manzi, attivista. Collabora con il manifesto, Comune.info e altre testate.
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