Un evoliano al ministero
Il successore di Sangiuliano ha tra i suoi riferimenti il pensatore ultrareazionario Julius Evola. Il cui metodo esoterico è destinato a ripercuotersi anche nelle sue scelte
Fosse ancora qui, Tullio De Mauro coglierebbe magari l’occasione per ricordare che una cosa è conseguire un titolo di studio, poniamo una laurea in filosofia, altra cosa è mantenere nel corso di una vita il livello d’istruzione che il diploma certifica. E questo dovrebbe bastare, senza bisogno di scomodare precedenti troppo illustri al paragone, a chiudere la baruffa di secondo grado attorno al curriculum studiorum di Alessandro Giuli, il telefonato successore al soglio di Sangiuliano. La verifica dei saperi, altri direbbe «delle competenze», è questione che il conseguimento d’un titolo non risolve, e spesso accade che chi toglie la laurea dal tubo, per ostenderla in costosa cornice alle sue spalle, tenga più al principio d’autorità che all’ampiezza dei propri orizzonti culturali. Però non è nemmeno del tutto vero che sia indifferente conseguire o meno il titolo, beninteso avendo le possibilità materiali di farlo: se non altro perché ancora una volta, e inevitabilmente, il dispositivo del merito, che dà il nome a un ministero del governo di cui Giuli è ora membro, si mostra per ciò che è in realtà. Solo che non è questo il punto. Il punto invece è: quale indirizzo di politica culturale ci si deve aspettare da Giuli? O, se vogliamo, qual è la sua idea di cultura?
È già stata notata la mano premurosa che ha espunto la sezione «controversie» dalla voce del ministro fresco di nomina nella Wikipedia italiana. Cosmesi che tuttavia ha lasciato al suo posto, del resto sarebbe stato difficile se non controproducente toglierla, essendo nota, l’informazione sulla sua militanza giovanile nell’organizzazione di estrema destra Meridiano Zero. C’è un’apparizione recente di Rainaldo Graziani, l’ideologo di Meridiano Zero, nel documentario di Andrea Palladino, Lago Nero, trasmesso in aprile da La7: in veste d’anfitrione alla Corte dei Brut, il locale che gestisce con la compagna in provincia di Varese, e d’anfitrione nella sua parte che dovrebbe essere la più esoterica, ma poi finisce con l’esser mostrata a favor di telecamera, perché sull’iniziazione prevale la vanità del dire «tu non sai quanta gente importante viene qui», Graziani traffica con lo stesso materiale che maneggiava trent’anni fa insieme ai giovani neonazisti romani: simboli e riti e tradizioni e solstizi. E reverenza per le autorità naziste, chiaramente. È questa sostanziale immobilità con la fronte rivolta all’indietro, senza nemmeno la cautela in uso altrove di celare la fede nella doppiezza, né l’estremismo ulteriore di rifiutare in blocco l’organizzazione vecchio stampo e frammentarsi nel terrorgram, una delle ragioni dell’attuale crisi di quest’area del neofascismo e del neonazismo: in fasi di estremismo normalizzato, dunque accettato, l’estremismo esibito è recessivo.
Esiguità tuttavia non significa irrilevanza, specie se i confini tra gli ambienti, quello ritratto alla luce dei flash e quello conservato al buio dei solstizi d’inverno, si possono attraversare in entrambe le direzioni. Il che è poi uno dei segni particolari che costituiscono la storia del post(e il post qui comprende il neo)fascismo: la doppiezza del manganello di piazza e del doppiopetto di palazzo, della militanza simultanea nel Msi e in Avanguardia nazionale, oppure in Terza posizione e nei Nar, degli esoterici apprendisti del Kali Yuga alla corte del barone decaduto Julius Evola e intanto essoterici ora burattinai, ora fili, ora marionette della strategia della tensione e del terrorismo fascista.
Non che Giuli sia responsabile dell’intera sequela delle doppiezze, ci mancherebbe. Ma delle proprie sì. E per quanto transeunte sia stata la sua militanza neonazi, del resto transeunte è stato Meridiano Zero (durato il paio d’anni tra il ’91 e il ’93, poi sciolto sua sponte per evitare lo scioglimento d’autorità agli effetti della Legge Mancino), di certo non ha smesso di frequentare la cultura appresa al tempo in cui celebrava i solstizi. Detto con un’antonomasia, non ha smesso di essere evoliano.
Nemmeno il suo predecessore Sangiuliano era estraneo a quei giri: nella comparsata altrimenti famosa al Premio Strega dello scorso anno ha pur sempre voluto far sapere che il suo livre de chevet è Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler (traduzione italiana di Julius Evola) e a raccomandare al pubblico la lettura di Mishima, altro autore feticizzato nel canone neofascista. Ma con lui si era più dalle parti della «roba di valore», come la chiamava Furio Jesi: una cultura generica in cui si trova un po’ di tutto, purché abbia patente di culturalità, ma affastellato senza criterio, senza che sia più possibile discernere un oggetto culturale da un altro. E così tra la roba di valore, prendi ad esempio i libri del giorno, trovi Gentile e Wu Ming, Gramsci e Il libro nero del comunismo, Nietzsche e Sciascia.
L’evolismo di Giuli è più metodico e scoperto. Gli articoli che ha scritto per Il Foglio sono molto istruttivi. Una lunga serie è dedicata a temi di religione romana. In quello sull’october equus, il sacrificio animale in nome di Marte, scritto nel 2016, leggiamo:
Il cuore della lotta è appunto nel cuore: è qui, dove si agitano i tumulti interiori – stavo per scrivere «i tumulti dell’anima», ma non è così, perché l’anima bisogna prima fabbricarsela… – che dal vir si pretende saldezza, coraggio, virtù e capacità bellica atta a debellare avversità e superbie. Bisogna cioè assomigliare al nostro nume capostipite, Marte, «il dio del combattimento, il dio della guerra, il dio del guerriero, nella tregua e nei lavori di pace e nella pugna. Sempre nella vita sulla terra occorre la lancia di Marte, perché la vita dell’uomo è lotta, combattimento». E come insegnano i Padri nostri, «la vita dell’uomo sulla Terra è lotta, combattimento. Lotta e combattimento perché dall’infero bimbo, il germoglio, si forgi il giovine e poi l’adulto e il padre valente, che possa essere e dimostrarsi, nel rispetto della condizione terrestre, accetto agli dèi Patri, perché sui compos, padrone sovrano di sé stesso (potis sum) e come tale artefice del suo destino; quindi non sottomesso agli eventi, ma in grado di provvedervi, di dirigerli. A questo tendeva il Romano, quello che custodiva in sé la Virtù prisca, l’addetto di tale Virtù.
Il magistero (se così vogliamo chiamarlo) di Evola e il discepolato degli evoliani (Gianfranco De Turris, il presidente della fondazione intitolata a Evola, è autore che Giuli cita volentieri) sono evidenti, per stile e per argomentare. Prosa enfatica, che vorrebbe evocare una qualche sacralità, cioè avere un effetto di suggestione anche per mezzo dell’accostamento arbitrario di etimologie ed espressioni latine tra loro irrelate, coartare all’imitazione dei valori evocati, ma che non spiega, non significa davvero. La religione e l’antropologia dei romani trattate non come il prodotto dell’agire umano in società nel trascorrere del tempo, quindi come un insieme di valori, usanze e riti soggetti alla storia, ma come una verità atemporale e immutabile, che è ovviamente lo spirito superiore del saggio a conoscere, e non l’indagine razionale a indurre dalla documentazione disponibile. Se la si vuole fare seriamente, la storia delle religioni antiche si fa altrimenti, non scimiottando il «Barone».
Altrove, è sempre il 2016, gli omaggi a Evola sono nominativi:
Un teurgo alla maniera degli antichi, Evola? Forse, sebbene in fatto di teurgia bisogna mantenere severe riserve, lì dove si manifesta puntuale lo scarto tra la possenza della teoria e gli sfarfallamenti della pratica, fra sedicenti sciamani alle prese con «il fiore dell’intuire», pupille o pupilli medianici, magnetizzatori improvvisati e visioni farlocche se non peggio (sfaldamenti evasionistici, avrebbe detto Evola, che pure di queste cose trattò nei suoi scritti esoterici e parlò a voce con pochi intimi e operativi).
Ammesso che la teoria fosse così possente, il futuro ministro avrebbe aiutato il buon nome dell’omaggiato se fosse stato un po’ più esplicito sugli «sfarfallamenti della pratica» e sugli «operativi», perché il lettore non iniziato tende ad attribuire un senso mondano alle parole, perciò a dare un nome a questi sfarfallamenti, e dei volti a questi operativi.
Come accade sempre agli epigoni, a maggior ragione agli epigoni d’un epigono quale era Evola al confronto dell’irrazionalismo europeo che addomesticava all’uso italico, il desiderio d’imitazione e compiacimento conduce non di rado Giuli al comico involontario: come quando, sul Foglio, si prostrava alla grandezza dell’Elefantino suo demiurgo (Giuliano Ferrara) o alla bravura di qualche altro «fogliante» (ad esempio l’odierno direttore della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco, uno di cui il suo amico e «fogliante» emerito Cristian Rocca ha notato il «dolce stil-nazi»); o quando chiama per nome, affettando confidenza (salvo poi precisarne in parentesi il cognome, a edificazione del lettore essoterico), il personaggio di cui parla, naturalmente lodandolo. Propensione allo smodato elogio, questa, che forse non conviene all’aristocratico, ma è quintessenziale dell’esser «fogliante», e qualche volta riesce utile anche in deprecandi sfarfallamenti pratici. A proposito di comico involontario: gioverebbe a ridurre quello del recente ministro una considerazione più ponderata circa il peso delle proprie opinioni, proprio e di nuovo in materia di conoscenza del mondo antico. Qui è alle prese con un libro di Maurizio Bettini, e questo è il giudizio che ne dà:
A Carnevale, ogni Vertumno vale. Ma chi è Vertumno… e che cosa c’entra questo dio con i riti di travestimento e purificazione scenica caratteristici di febbraio? Premesso che per Vertumnus è sempre Carnevale, perché nella sua natura profonda risiede la causa d’ogni vertere, d’ogni trasfigurazione o travestimento, finalmente uno studioso contemporaneo s’avvicina al cuore della risposta.
Risposta che, evidentemente, Giuli conosce, il suo spirito trascendendo la temporalità della storia e direttamente attingendo la verità antica.
Nel 2014 un gruppo di studiosi si è espresso pubblicamente, cosa abbastanza inconsueta, sulla tendenza in atto in alcuni settori della cultura e dell’università italiana a rivalutare l’Evola studioso di religioni, depurandolo dall’Evola fascista e teorico del razzismo. Sennonché questa separazione è impossibile, perché Evola concepiva i suoi studi in funzione politica, cioè in funzione fascista. Scrivevano gli autori della presa di posizione:
Durante il lungo ventennio berlusconiano, nell’accademia italiana si sono aperte le porte della redenzione al pensiero pseudoscientifico, pseudostoriografico e antimodernista: un processo sottilmente revanscista che ha accompagnato le ben più crasse riabilitazioni promosse o tollerate dai governi di centro-destra. In pratica, ciò che prima non poteva essere messo per iscritto perché svergognatamente ideologico, è stato possibile dirlo e farlo passare come rispettabile risultato di una volenterosa pratica storiografica.
Si tratta, in fin dei conti, di ridare dignità a un’idea di cultura che confonde l’alto con l’inverificabile razionalmente, quindi con l’indiscutibile. Se la Verità è esoterica, per definizione non può essere spiegata, ma può essere solo intuita. Ossia, agli iniziati non c’è bisogno di spiegarla, e i non iniziati non la potranno mai intendere. Chi ritiene che la verità sia questo mistero, riterrà anche sé stesso iniziato, per il solo fatto di postulare l’esistenza di questo segreto, anche se in cuor suo magari convinto di non averlo ancora penetrato (però il più delle volte certo d’averlo fatto). Il che, alla ragione d’un triviale dialettico, significa arrogarsi il diritto a sottrarre il proprio pensiero alla critica, e di decidere la cerchia dei degni e quella degli indegni, la cerchia degli iniziati e dei profani, la cerchia esoterica e quella essoterica. Di qui alla versione spirituale, simbolica e tradizionale dell’amichettismo il passo è breve.
Le redini del ministero della cultura sono ora in mano a un alfiere di questa idea di cultura. Ce n’è abbastanza per ingaggiare la battaglia culturale con il ministro evoliano senza domandargli copia del certificato di laurea.
*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki insieme a cui ha scritto La morte, la fanciulla e l’orco rosso (Alegre, 2022). È autore di L’antifascismo e il suo contrario (Alegre, 2023).
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