
Un piccolo esercizio di filologia antifascista
Se si analizza passo dopo passo la lettera scritta da Giorgia Meloni in occasione del 25 aprile, se ne coglie la contraddizione logica: per festeggiare veramente la liberazione dal fascismo bisogna smetterla di festeggiare la liberazione dal fascismo
Nella sua lettera del 25 aprile al Corriere della sera, Giorgia Meloni approfitta della ricorrenza per prodursi in una notevole performance di legittimazione dell’eredità politica del fascismo e di delegittimazione uguale e contraria della memoria della Resistenza, come risulta evidente da un semplice quanto necessario esercizio di filologia antifascista.
Caro direttore, oggi l’Italia celebra l’anniversario della Liberazione. Io stessa lo farò accompagnando il presidente della Repubblica Mattarella nella tradizionale cerimonia di deposizione di una corona di alloro all’Altare della Patria, mentre i ministri del governo parteciperanno alle altre celebrazioni istituzionali previste. Nel mio primo 25 Aprile da presidente del Consiglio, affido alle colonne del Corriere alcune riflessioni che mi auguro possano contribuire a fare di questa ricorrenza un momento di ritrovata concordia nazionale nel quale la celebrazione della nostra ritrovata libertà ci aiuti a comprendere e rafforzare il ruolo dell’Italia nel mondo come imprescindibile baluardo di democrazia. Lo faccio con la serenità di chi queste riflessioni le ha viste maturare compiutamente tra le fila della propria parte politica ormai 30 anni fa, senza mai discostarsene nei lunghi anni di impegno politico e istituzionale. Da molti anni infatti, e come ogni osservatore onesto riconosce, i partiti che rappresentano la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo.
L’incipit della lettera nasconde manco troppo velatamente, dietro ai convenevoli istituzionali, una dichiarazione d’intenti ben precisa, che ne costituisce l’obiettivo: legittimare, e rivendicare, l’eredità politica del fascismo, a cui il partito postfascista di Giorgia Meloni appartiene fieramente.
La rivendicazione della svolta di Fiuggi all’inizio della lettera significa in effetti esattamente il contrario di quello che dice: la presa di distanza dal fascismo è ipso facto la rivendicazione della legittimità politica del post-fascismo, che trent’anni fa (sic) fu così maturo da lasciarsi definitivamente alle spalle ogni tendenza nostalgica.
Il 25 Aprile 1945 segna evidentemente uno spartiacque per l’Italia: la fine della Seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del Ventennio fascista, delle persecuzioni anti ebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e privazioni che hanno afflitto per lungo tempo la nostra comunità nazionale.
Il focus è spostato immediatamente dal venticinque aprile come ricorrenza che commemora la fine del nazifascismo al venticinque aprile come data che segna la fine di tutta una serie di tragedie e lutti uniti a prescindere dalle responsabilità politiche: sono così equiparati, in particolare, il ventennio, le leggi razziali e l’occupazione nazista con i bombardamenti e la fine della Seconda guerra mondiale in genere. Non che i bombardamenti alleati non siano stati tragedie, ovviamente, ma l’equiparazione è funzionale all’obiettivo dell’intero articolo: ironicamente, è solo se si fa preliminarmente di tutta l’erba un fascio – confondendo i crimini fascisti con la tragedia della guerra – che si può porre le basi per una legittimazione del postfascismo.
Purtroppo, la stessa data non segnò anche la fine della sanguinosa guerra civile che aveva lacerato il popolo italiano, che in alcuni territori si protrasse e divise persino singole famiglie, travolte da una spirale di odio che portò a esecuzioni sommarie anche diversi mesi dopo la fine del conflitto. Così come è doveroso ricordare che, mentre quel giorno milioni di italiani tornarono ad assaporare la libertà, per centinaia di migliaia di nostri connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia iniziò invece una seconda ondata di eccidi e il dramma dell’esodo dalle loro terre. Ma il frutto fondamentale del 25 Aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana.
La resistenza in quanto tale è definita guerra civile. Vero, lo fu, come già ci insegnò il più grande storico della Resistenza. Una guerra civile la cui responsabilità storica e politica ricade unicamente sui fascisti; un prezzo altissimo che il movimento resistenziale più forte dell’Europa occidentale decise di pagare pur di liberare il paese dall’invasore e dalla dittatura. Niente di tutto questo traspare tuttavia da questo passaggio, il cui la definizione di Claudio Pavone serve piuttosto a spostare l’attenzione sui morti fascisti e sulle rappresaglie partigiane dopo la fine della guerra – la resistenza italiana è l’unica guerra civile della storia di cui si pretende sarebbe dovuta finire alle 00.01 del giorno dell’armistizio, senza strascichi e vendette su chi era stato ad esempio il tuo aguzzino per vent’anni – e, in maniera del tutto inopportuna, sulle sempiterne foibe, in un ennesimo sforzo di equiparazione e di vera e propria mitopoiesi storica.
Da quel paziente negoziato volto a definire princìpi e regole della nostra nascente democrazia liberale — esito non unanimemente auspicato da tutte le componenti della Resistenza — scaturì un testo che si dava l’obiettivo di unire e non di dividere, come ha ben ricordato alcuni giorni fa su queste pagine il professor Galli della Loggia. Nel gestire quella difficile transizione, che aveva già conosciuto un passaggio significativo con l’amnistia voluta dall’allora ministro della Giustizia Togliatti, i costituenti affidarono dunque alla forza stessa della democrazia e della sua realizzazione negli anni il compito di includere nella nuova cornice anche chi aveva combattuto tra gli sconfitti e quella maggioranza di italiani che aveva avuto verso il fascismo un atteggiamento «passivo».
Bel passaggio che inizia innanzitutto con una implicita ma evidente accusa contro il Partito comunista, reo di non voler affatto costruire una democrazia liberale come esito della Resistenza; seguito da un notevole esercizio di revisionismo storico. La costituzione che voleva si unire e non dividere, ma unire le diverse forze antifasciste, e che dispone letteralmente il divieto di ricostituzione del partito fascista, diventa un testo con l’aspirazione di reintegrare – ancora prima dell’amnistia Togliatti – i fascisti nella vita sociale e politica del paese. Amnistia che, a sua volta, viene reinterpretata come episodio chiave di questa volontà di reincludere i fascisti – mentre servì a fermare, per paura di un ritorno alla guerra civile, un’insurrezione che si scagliava precisamente contro la loro mancata epurazione totale. Infine, un inquietante promemoria di quanto la maggioranza degli italiani avesse tenuto un atteggiamento passivo – leggi: benevolo, o meglio: indifferente ma tutto sommato approvante – verso il regime. Vero, almeno in parte. Ma al posto di essere oggetto di una profonda autoriflessione e di un mea culpa collettivo, questa adesione passiva, questa ennesima maggioranza silenziosa cara alla destra e già oggetto della condanna di Gramsci, Moravia, Gadda, Pasolini ecc., è ormai di fatto legittimata come componente essenziale della storia del paese, che è necessario ricordare e rispettare al fine di costruire una memoria «condivisa».
Specularmente, chi dal processo costituente era rimasto escluso per ovvie ragioni storiche, si impegnò a traghettare milioni di italiani nella nuova repubblica parlamentare, dando forma alla destra democratica. Una famiglia che negli anni ha saputo allargarsi, coinvolgendo tra le proprie fila anche esponenti di culture politiche, come quella cattolica o liberale, che avevano avversato il regime fascista. È nata così una grande democrazia, solida, matura e forte, pur nelle sue tante contraddizioni, e che nel lungo Dopoguerra ha saputo resistere a minacce interne ed esterne, rendendo protagonista l’Italia nei processi di integrazione europea, occidentale e multilaterale.
Et voila, fine della prima parte in cui la tesi iniziale viene infine esplicitata e ribadita. Doppia operazione concettuale: rivendicazione dell’eredità politica del fascismo, qui particolarmente esplicita (si, siamo proprio noi, quelli che per ovvie ragioni storiche sono rimasti esclusi dal processo costituente) attraverso la sottolineatura del suo ruolo nella vita democratica del paese. Si, proprio l’Msi, il partito presieduto anche da Junio Valerio Borghese (comandante della X mas e in seguito autore del tentato golpe più famoso degli anni di piombo), il cui motto Non rinnegare, non restaurare ricorda il rapporto volutamente ambiguo col fascismo (unico modo per continuarne la tradizione nella cornice repubblicana); l’Msi per anni posto fuori dal cosiddetto arco costituzionale; l’Msi del governo Tambroni, dell’assalto alla Sapienza – Almirante in prima fila –, dei rapporti con l’eversione nera; l’Msi che non rinnegò mai il fascismo, come Meloni stessa ricorda quando rivendica l’importanza della svolta di Fiuggi con cui per l’appunto l’Msi venne sciolto proprio in seguito all’abiura formale del fascismo. Il che significa che Meloni sta qui letteralmente sottolineando, da post-fascista, il contributo alla storia politica del paese dei neofascisti mai pentiti che furono i suoi padri ideologici. En passant: ricordo della fonte di legittimazione per eccellenza delle fragili istituzioni repubblicane dello Stato, la lotta contro il terrorismo. Aaaaaaamen. (lo stesso Stato che non ci ha mai spiegato perché per più di un decennio è stato connivente con chi ha messo bombe nelle piazze, nelle stazioni e sui treni. Non che non lo sappiamo, anzi. E d’altronde, se c’è qualcuno che ne sa tanto quanto noi, dovrebbe essere proprio la grande famiglia politica della destra postfascista…).
Per questo non comprendo le ragioni per le quali, in Italia, proprio fra coloro che si considerano i custodi di questa conquista vi sia chi ne nega allo stesso tempo l’efficacia, narrando una sorta di immaginaria divisione tra italiani compiutamente democratici e altri — presumibilmente la maggioranza a giudicare dai risultati elettorali — che pur non dichiarandolo sognerebbero in segreto un ritorno a quel passato di mancate libertà. Capisco, invece, quale sia l’obiettivo di quanti, in preparazione di questa giornata e delle sue cerimonie, stilano la lista di chi possa e di chi non possa partecipare, secondo punteggi che nulla hanno a che fare con la storia ma molto hanno a che fare con la politica. È usare la categoria del fascismo come strumento di delegittimazione di qualsiasi avversario politico: una sorta di arma di esclusione di massa, come ha insegnato Augusto Del Noce, che per decenni ha consentito di estromettere persone, associazioni e partiti da ogni ambito di confronto, di discussione, di semplice ascolto. Un atteggiamento talmente strumentale che negli anni, durante le celebrazioni, ha portato perfino a inaccettabili episodi di intolleranza come quelli troppe volte perpetrati ai danni della Brigata ebraica da parte di gruppi estremisti. Episodi indegni ai quali ci auguriamo di non dover più assistere. Mi domando se queste persone si rendano conto di quanto, così facendo, indeboliscono i valori che dicono di voler difendere. È probabilmente questa consapevolezza ad aver spinto Luciano Violante a individuare — nel suo memorabile discorso di insediamento da presidente della Camera quasi trent’anni fa — proprio in una certa «concezione proprietaria» della lotta di Liberazione uno dei fattori che le impedivano di diventare patrimonio condiviso da tutti gli italiani. Un concetto ripreso nel 2009 da Silvio Berlusconi (allora presidente di un Consiglio dei ministri nel quale sedevo anche io) in un altro famoso discorso, quando a Onna, celebrando l’anniversario della Liberazione sulle macerie del terremoto, invitò a fare del 25 Aprile la «Festa della Libertà», così da superare le lacerazioni del passato.
Dopo una prima parte tutta dedicata, attraverso vari mezzi retorici, non alla celebrazione della resistenza ma a una legittimazione dell’eredità politica del fascismo, ecco un attacco frontale a tutte le concezioni proprietarie della liberazione (concezioni proprietarie della liberazione è lemma complesso, che identifica però con precisione tutte quelle concezioni della liberazione proprie a coloro che non amano festeggiare la liberazione dal fascismo con i fascisti). I famosi antifascisti-più fascisti-dei-fascisti accusati dai novelli voltairiani in camicia (quasi) nera di non essere nemmeno ascoltati (chi penserà ai bambini, ma soprattutto ai neofascisti?). Quelli che attaccano la brigata ebraica… Quelli che, così facendo (cioè: sostenendo che la festa della liberazione non deve includere i fascisti o i postfascisti) indeboliscono i valori che dicono di voler difendere (cioè: la condanna totale di ogni forma di fascismo e di postfascismo). Naturalmente, i valori che risultano indeboliti sono quelli che Meloni vuole difendere e rendere maggioritari: la liberazione come vuota festa della libertà, svuotata di ogni riferimento alla lotta antifascista e definitivamente pacificata.
Un auspicio che non solo condivido ma che voglio, oggi, rinnovare, proprio perché a distanza di 78 anni l’amore per la democrazia e per la libertà è ancora l’unico vero antidoto contro tutti i totalitarismi. In Italia come in Europa. Una consapevolezza che ha portato il Parlamento europeo a condannare inequivocabilmente e definitivamente tutti i regimi del ‘900, senza eccezioni, con una risoluzione del settembre 2019 nella quale mi riconosco totalmente, e che il gruppo di Fratelli d’Italia, insieme a tutta la famiglia dei Conservatori europei e all’intero centrodestra, votò senza alcuna esitazione (a differenza, purtroppo, di altri). Una risoluzione che assume nell’attuale contesto un valore ancora maggiore, dinnanzi alla eroica resistenza del popolo ucraino in difesa della propria libertà e indipendenza dall’invasione russa. In tutto il mondo le autocrazie cercano di guadagnare campo sulle democrazie e si fanno sempre più aggressive e minacciose, e il rischio di una saldatura che porti a sovvertire l’ordine internazionale che le democrazie liberali hanno indirizzato e costruito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la dissoluzione dell’Unione Sovietica è purtroppo reale. In questo nuovo bipolarismo l’Italia la sua scelta di campo l’ha fatta, ed è una scelta netta. Stiamo dalla parte della libertà e della democrazia, senza se e senza ma, e questo è il modo migliore per attualizzare il messaggio del 25 Aprile. Perché con l’invasione russa dell’Ucraina la nostra libertà è tornata concretamente in pericolo.
Passaggio di respiro internazionale con cui l’autrice, in certo modo, quadra il cerchio. Ricapitoliamo il ragionamento: dalla legittimazione dell’eredità politica del fascismo si è passati quasi meccanicamente alla delegittimazione dell’antifascismo «proprietario» e alla rivendicazione di una liberazione vuota e senza colore politico. Questa sì che è una liberazione che la destra festeggia volentieri, dice ora Meloni. Prova ne è che il suo partito ha votato, con la grande famiglia – spia lessicale insistita, naturalmente non causale. Che poi: sarà fisicamente una famiglia, tipo, che ne so, quelle omosessuali, o no? – dei conservatori europei, una mozione che condanna… i regimi comunisti. Siamo talmente a favore della liberazione del fascismo che abbiamo condannato il comunismo in sede europea. Si, perché la mozione in questione è tutta centrata sull’equiparazione tra regime nazista e comunista. Essa si impegna in effetti innanzitutto a ricordare che la Seconda guerra mondiale, il conflitto più devastante della storia d’Europa, è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop, e dei suoi protocolli segreti, in base ai quali due regimi totalitari, che avevano in comune l’obiettivo di conquistare il mondo, hanno diviso l’Europa in due zone d’influenza; e tutto il resto del testo è teso a sancire questa equivalenza sistematica. Ragion per cui è stato rigettato da diversi partiti – gli altri citati da Meloni, quelli che a differenza di Fratelli d’Italia non sono veramente antifascisti perché si rifiutano di equiparare nazismo e comunismo…
Ma la vera mossa del cavallo arriva dopo. Questa perversione della memoria e dei valori della liberazione, appena inseriti in un contesto europeo in cui risultano perfettamente capovolti da un punto di vista storico (visto che la liberazione diventa liberazione da qualunque totalitarismo, compreso quello che più di ogni altro sconfisse militarmente il nazifascismo), è rivendicata come arma ideologica fondamentale contro l’autocrazia russa. Il riferimento all’Ucraina, già usato sistematicamente come strumento di normalizzazione del proprio partito e governo in sede internazionale, è qui traslato nel dibattito interno nel tentativo di legittimare definitivamente questa narrazione perversa della storia della Resistenza. Ambizioso, quanto grottesco.
È, questa, una convinzione che ho rafforzato grazie all’incontro con una donna straordinaria, Paola Del Din. Durante la Resistenza combatteva con le Brigate Osoppo, le formazioni di ispirazione laica, socialista, monarchica e cattolica. Fu la prima donna italiana a paracadutarsi in tempo di guerra. Il suo coraggio le è valso una Medaglia d’oro al valor militare, che ancora oggi, quasi settant’anni dopo averla ricevuta, sfoggia sul petto con commovente orgoglio. Della Resistenza dice: «Il tempo ci ha ribattezzati Partigiani, ma noi eravamo Patrioti, io lo sono sempre stata e lo sono ancora». Nell’Italia repubblicana è stata insegnante di Lettere e, nonostante i suoi quasi cento anni, continua ad accettare gli inviti a parlare nelle scuole di Italia e del valore della Libertà. Dedico questo giorno a lei, madre di quattro figli e nonna di altrettanti nipoti, ma anche, idealmente, di tutti gli italiani che antepongono l’amore per la propria Patria a ogni contrapposizione ideologica.
Finale-capolavoro. Meloni sceglie di ricordare una donna della brigata Osoppo. È un vero easter-egg per tutti i nostalgici, per i vecchi camerati, insomma per gli amici suoi. La brigata Osoppo fu infatti vittima di una rappresaglia da parte di partigiani comunisti: la sua vicenda – il massacro di Porzus – è il più famoso e tragico caso di tensioni tra le diverse forze politiche della Resistenza. Ennesimo gesto di delegittimazione della Resistenza, seguito dal colpo retorico finale: la prima e unica occorrenza del termine partigiani nel testo, tratto da una citazione della partigiana in questione (lei non ce la può proprio fare a dirlo!), è in una frase in cui per l’appunto si nega ogni valore al termine stesso, lo si squalifica interamente. Più in particolare, lo si mostra come ancora legato a una concezione vecchia, divisiva, proprietaria della Resistenza, che siamo infine chiamati a superare definitivamente. Non partigiani, ma patrioti. Patrioti che antepongono l’amore per la propria Patria non al fascismo, ma… a chi vuole escludere i fascisti e i postfascisti dalla celebrazione della resistenza (la contrapposizione ideologica).
…Come Anna Del Din, che combatté letteralmente contro i nazisti ma che fu soprattutto – è la cosa più importante – madre e nonna. Cattolica, patriota e madre. Dio, patria, famiglia.
Terminiamo questo esercizio filologico con un paio di considerazioni conclusive di più ampio respiro.
a) La lettera implica, nella sua interezza, un’ulteriore, e forse ancora più audace, operazione politica. Si tratta in effetti di difendere il contributo fondamentale dei postfascisti alla definizione di una festa della liberazione veramente universale. Contributo necessario, pena il ricadere in versioni parziali e proprietarie, deleterie dell’unità della Repubblica. Il non senso non è solo semantico – per festeggiare veramente la liberazione dal fascismo bisogna smetterla di festeggiare la liberazione dal fascismo – ma storico. I limiti della Resistenza e soprattutto della fase costituente – non essere riusciti a epurare definitivamente i fascisti dalla vita pubblica – diventano i suoi meriti. In qualche modo, tuttavia, l’operazione di Meloni è coerente. Lei sa benissimo che sono questi limiti della Resistenza, a loro volta paradossalmente esito del suo successo – che evitò all’italia l’imposizione di una Norimberga per i gerarchi fascisti – ad aver permesso ai suoi padri di continuare il loro progetto politico.
b) La prospettiva aberrante di Meloni sulla Resistenza non è stata solo preparata dal ventennio berlusconiano. Se la memoria resistenziale è diventata vulnerabile a queste riletture perverse, è anche e soprattutto per la riluttanza sempre più evidente della sinistra istituzionale a ribadirne il significato orgogliosamente parziale, conflittuale, divisivo. Una riluttanza che, in realtà, risale alle origini della Repubblica. La storia della memoria repubblicana della Resistenza è la storia del graduale disinnesco delle sue componenti più eversive. Con i risultati che oggi vediamo dispiegarsi sotto ai nostri occhi in tutta la loro arroganza.
*Andrea Di Gesu è dottore di ricerca in filosofia politica. Attualmente vive in Francia, dove è insegnante di filosofia al liceo e all’università. Si occupa di teoria della democrazia e teoria critica, con particolare attenzione all’opera di Foucault.
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