Un Trump senza bombe nucleari
Una lunga chiacchierata con Elio De Capitani su teatro, politica, fanatizzazione delle masse e (inevitabilmente) Silvio Berlusconi, che interpretò nel Caimano di Nanni Moretti
Un paio di settimane prima della scomparsa di Silvio Berlusconi, che Elio De Capitani ha interpretato nel film Il Caimano di Nanni Moretti nel 2006, ho incontrato l’attore, regista e co-direttore artistico, con Ferdinando Bruni, della storica compagnia teatrale dell’Elfo fondata nel 1973.
Nella nostra lunga conversazione incentrata soprattutto su alcuni personaggi americani della sua carriera, che per diversi aspetti prendono però il via dallo studio condotto per l’interpretazione di Berlusconi, De Capitani ha spaziato tra gli aspetti artistici della sua attività e le varie sfaccettature della realtà da cui il suo lavoro e quello dei drammaturghi che l’Elfo mette in scena traggono origine. Affrontando in modo particolare tre personaggi reali (Berlusconi, Cohn e Nixon) e due letterari (il «commesso viaggiatore» di Arthur Miller e il capitano Ahab di Herman Melville nella rivisitazione di Orson Welles) e analizzando gli aspetti pre-politici, antropologici, demagogici, nazionalistici e ideologici della società, De Capitani ci offre un ampio panorama umano, politico e sociale viaggiando temporalmente nella storia internazionale fino alla contemporaneità italiana di Giorgia Meloni.
Ai contenuti dell’intervista abbiamo aggiunto in coda un breve commento chiesto a De Capitani dopo la morte di Berlusconi, la cui impersonificazione ha rappresentato per il De Capitani attore un momento saliente della carriera.
Il 3 dicembre 2018 hai fatto gli onori di casa quando il teatro Elfo Puccini ha ospitato la prima presentazione milanese di Jacobin Italia con il fondatore e direttore di Jacobin Magazine Bhaskar Sunkara, arrivato dagli Usa per l’occasione. Partiamo quindi dal giacobino nero, simbolo di questa rivista e importante anche per te. Il tuo «giacobino nero» però non è quello della Rivoluzione di Haiti, bensì uno dei tre protagonisti di La Missione di Heiner Müller – dopo R.W. Fassbinder, uno degli autori contemporanei europei più significativi per l’Elfo – ambientato in Jamaica. Nel 1997 ne hai curato la regia per un radiodramma Rai.
Il mio «giacobino nero», un ex-schiavo liberato di nome Sasportas, è uno dei tre emissari della Rivoluzione francese che la Convenzione manda in missione in Jamaica per organizzare la rivolta degli schiavi. L’involuzione del processo rivoluzionario, sotto la spinta delle forze conservatrici termidoriane e l’arrivo di Napoleone, porterà a queste tre persone un destino molto diverso: in Sasportas l’istinto rivoluzionario si farà più estremo, a lui si unirà il contadino Galloudec ed entrambi finiranno impiccati. A Debuisson, aristocratico e figlio di un proprietario di schiavi, toccherà in sorte «la vergogna di essere felice in un mondo simile», riaccolto nel ventre della sua classe di padroni.
Nel testo c’è anche un inserto, intitolato The man in the elevator, il cui protagonista è un impiegato tedesco che prendendo un ascensore finisce in Sud America. Essere catapultato in una realtà completamente diversa è un meccanismo onirico che conosco bene ed è anche un’allegoria molto tipica in Müller: l’idea dei due mondi uno dentro l’altro sottolinea come noi occidentali siamo legati al terzo mondo per le azioni che compiamo.
Quindi l’idea del Black Jacobin che ha dato nome a questa rivista mi ha subito incuriosito moltissimo – da lì la sottoscrizione dell’abbonamento «a vita» – anche per il ricordo di quel lavoro per Radio tre con quel fantastico cast di tanti amici. L’edizione statunitense di Jacobin la leggo online appena posso, mentre l’edizione italiana la ricevo su carta e me la tiro dietro in tour, lettura d’elezione per i trasferimenti in treno.
L’Elfo è conosciuto a livello internazionale per l’altissimo livello degli allestimenti di classici e contemporanei che, pur non togliendo nulla all’integrità dei testi e alla fedeltà agli autori, presentano una costante attenzione al presente e lasciano spesso sbalorditi per la visionarietà delle soluzioni escogitate in tutti i settori del lavoro teatrale. Ci sono anche caratteristiche organizzative peculiari dell’Elfo cui vorrei accennassi prima di passare ai tuoi personaggi.
Molto in breve l’Elfo, che quest’anno festeggia i suoi cinquant’anni, è un collettivo di pensiero e un ensemble artistico che ha perfezionato il suo modello di gestione partecipata, trasformandosi nel 2011 nella prima Impresa Sociale creata in Italia in ambito teatrale. Coinvolge i lavoratori di tutti i comparti nella creazione di un innovativo modello di teatro d’arte indipendente e nella formazione permanente delle nuove generazioni di artisti, tecnici e organizzatori.
Quanto agli specifici personaggi di cui vorrei trattare, il primo in ordine cronologico è il tuo Silvio Berlusconi del 2006, che ha dato il via a quella che Laura Mariani nel suo libro L’America di Elio De Capitani definisce «la triade» (Berlusconi, Cohn, Nixon). Tuttavia, immaginando quanto tu desideri interpretare Donald Trump, vorrei cominciare dal Roy Cohn di Angels in America di Tony Kushner, che hai impersonato per la prima volta nel 2007, in quanto è stato mentore e avvocato di Trump dai primi anni Settanta fino alla morte nel 1986. Artefice della condanna a morte dei coniugi Rosenberg, braccio destro di Joseph McCarthy durante la caccia alle streghe dei primi anni Cinquanta e implicato in altre infinite nefandezze, Roy Cohn è un personaggio non solo immenso per le opportunità che offre a un attore – nella serie Hbo del 2003 di Mike Nichols è Al Pacino – ma anche estremamente profetico, rivelando la precisione con cui Kushner, all’inizio degli anni Novanta, ha fotografato l’America di oggi. Come hai affrontato questo personaggio, che per me rappresenta il male assoluto, e quanto ti sei divertito soprattutto nelle scene in cui Cohn dà libero sfogo ai commenti sul marciume della politica, orgoglioso di esserne un protagonista?
[De Capitani esordisce con una battuta a memoria]: «Sono i succhi gastrici che si rimescolano, sono gli enzimi e gli acidi, è l’intestino, sono gli spasimi delle budella, è carne e sangue, roba che puzza, è la politica, Joe: il gioco di essere vivi».Roy Cohn, che per Kushner è stato una vera ossessione, negli States è l’epitome del campione della destra viscerale, reazionaria, maccartista. In quanto «cattivo maestro» del giovane Trump, possiamo considerarlo il padre putativo della destra Maga [Make America Great Again, Ndr]. Alle sue prime rogne legali da presidente, Trump è stato sentito dire più volte «Where’s my Roy Cohn?», frase che ha poi dato il titolo a un bel documentario su Cohn. So che Kushner vuole fare un testo su Trump ma poiché ha deciso di aspettare la fine della sua parabola devo pazientare. Quanto al mio approccio molto studiato nell’interpretare Roy Cohn, è parte essenziale del mio essere artista, e soprattutto del mio essere attore: mi piace dire che non sono cattolico, non credo al diavolo, non sono manicheo, bensì, citando Terenzio, «sono un essere umano e nulla di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me». Noi abbiamo messo in scena Angels in America per la prima volta nel 2007, quindi il mio contributo alla comprensione del «vitalismo della destra» attraverso la figura di Roy Cohn ha annunciato con quindici anni di anticipo quel che sarebbe avvenuto anche in Italia: la penetrazione e poi il trionfo di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, il Maga italiano. L’immedesimarsi in qualcuno che si dichiara paladino di alti valori nazionali in pubblico e non sente di avere limiti morali nell’azione politica concreta, come nel privato del resto, è il contributo che un attore può dare alla comprensione di movimenti che chiamerei «antropologici» nella società. In scena io non rappresento il male segnalando agli spettatori che quello è il male, lascio che siano loro a giudicare. Possono dire «mamma mia che mostro», ma possono anche provare a capire perché quel mostro susciti delle forti empatie, che spiegano come il successo «antropologico» della destra nel mondo sia il perverso risultato dell’insicurezza sociale: un postulato necessario – non solo un danno collaterale – del neoliberismo.
Ricordando che il dramma si svolge in piena epoca reaganiana, dal momento della conclamazione dell’Aids nel 1985 fino alla morte di Cohn nel 1986, con un epilogo nel 1990, veniamo a quel brano profetico che Kushner mette in bocca a Cohn, che è poi la continuazione della frase che hai appena citato:
«A Washington c’è una rivoluzione, Joe. Una nuova dottrina e un vero leader, finalmente. Loro [i Democratici] si sono ripresi il Senato ma noi ci teniamo stretti i tribunali. Prima del 1990 avremo una maggioranza granitica alla Corte Suprema, e giudici Repubblicani alle Corti Federali piazzati come mine dappertutto, da qualsiasi parte si rigirino. Istanze contro la discriminazione? Prego, si accomodino alla Corte. E boom che esplode la mina. E faremo di testa nostra praticamente su tutto: aborto, difesa, America centrale, tutela della famiglia, in un clima di fiducia da parte degli investitori. […] Sarà il trionfo degli autentici valori americani e una pietra tombale non solo sulla sinistra liberal e le sue balle sociali da New Deal, ma su ogni discorso del genere. Sarà ipso facto la fine dell’umanesimo secolarista e il ritorno della vera fede. L’alba di un nuovo carattere politico nazionale, americano fino al midollo. Modellato su Ronald Wilson Reagan».
Orchestratore del profetizzato «trionfo», realizzatosi però negli ultimi dieci anni, è stato Mitch McConnell, una sorta di Roy Cohn, diventato speaker del Senato dopo le elezioni del 2014 nelle quali i Democratici persero anche la camera alta. McConnell negò a Obama le nomine di più di cento giudici, tra cui quella del justice che avrebbe dovuto sostituire alla Corte Suprema Antonin Scalia, morto nel febbraio 2015 quando Obama aveva ancora 11 mesi di governo effettivo. Poi con l’arrivo di Trump le mine furono piazzate ovunque. Che effetto ti ha fatto riprendere lo spettacolo nel 2019, dopo sette anni durante i quali tutte quelle previsioni si erano concretizzate?
Ritornare soprattutto su quel brano è stato incredibile. Ai tempi dell’ultima tournée del 2011-12 nessuno si immaginava nemmeno l’arrivo di Trump. E invece dopo sette anni la versione trumpiana della dottrina Maga ultra-conservatrice imperversava anche nella Corte Suprema. Quella profezia di Roy Cohn, che io recitavo tutte le sere, mi ha indotto non solo a documentarmi più approfonditamente sul sistema giudiziario statunitense, ma a fare considerazioni su un personaggio dalla vita esemplare come Ruth Bader Ginsburg, che ostinandosi a non lasciare la poltrona ha favorito il gioco della destra. D’altra parte non si può neanche colpevolizzarla troppo perché si sarebbe dovuta dimettere prima del 2014 visto che, come hai giustamente sottolineato tu, Obama ha avuto le mani completamente legate nei suoi ultimi due anni di presidenza. Comunque, a rendere davvero terribile la vicenda è stato il momento della scomparsa della Ginsburg il 18 settembre 2020 con le elezioni il 3 novembre vinte da Biden. Qualche giorno in più di vita e forse Trump non avrebbe potuto nominare la Barrett.
Tornando ancora a Roy Cohn, ma anche ad altri tuoi personaggi reali e letterari, quanto di Shakespeare e del tuo modo di lavorare su Shakespeare c’è in loro?
Shakespeare è il maestro di tutti noi dell’Elfo, tanto che la sala più grande del nostro Teatro Elfo Puccini a Milano porta il suo nome. È lui che ci insegna costantemente un modo d’essere artisti vivi, immersi nel proprio tempo senza esserne prigionieri: uno sguardo fermo nel tumulto dei conflitti sociali e di potere, ma che ci costringe ad acuire lo sguardo su noi stessi e la nostra epoca.
Tempo fa ho sentito un’inviata del TG3 che recensiva un Mercante di Venezia affermando che è un testo «dichiaratamente antisemita». Ma siamo fuori di testa? È esattamente il contrario. Shakespeare mette a confronto due discorsi: il primo, che dominava una parte rilevante dell’opinione pubblica all’epoca, passa attraverso l’astio antigiudaico violentissimo di molti personaggi; l’altro è un controcanto, continuo e persistente, che confuta il primo. Il principe del Marocco dice «tagliatemi le vene e dimostratemi che il mio sangue è diverso dal vostro». Jessica, la figlia di Shylock, dice «sono figlia del suo sangue ma non dei suoi comportamenti». Una frase come questa, in cui il sangue è disgiunto dai comportamenti, è radicalmente contraria all’antisemitismo e al razzismo. Shakespeare non è razzista. Mai. Mai stato. In Otello è il bianco Jago a corrompere una persona idealista e dolce come Otello, che pur essendo un generale in guerra ha un cuore, una grazia, una sofferenza interiore per la storia della sua vita di ex-schiavo. Alla fine è il bianco e demoniaco Jago che lo fa diventare nero d’animo.
Shakespeare ha sempre un doppio suono. Nella bella società di Belmonte dove regna Porzia si scherza molto, ma c’è anche la malinconia del «diverso» Antonio, che è il personaggio più dichiaratamente omosessuale in tutta l’opera di Shakespeare. Questa è una costruzione drammaturgica fassbinderiana ante litteram: c’è un diverso come Antonio che se la prende con un altro diverso come Shylock, e che è anzi il più accanito a volerlo umiliare, malmenare, oltraggiare, tanto che l’usuraio ebreo dice: «Io metto in pratica la malvagità che mi avete insegnato voi cristiani».
Dunque io, regista e attore di teatro contemporaneo ma molto educato dalla lezione e dal doppio suono di Shakespeare, e dei classici greci, quando interpreto Roy Cohn, che è omosessuale, ebreo, omofobo e Repubblicano (e beffardamente iscritto fino alla morte al partito Democratico) non ho come compito quello di rappresentare il male, ma la forza del vitalismo e dell’edonismo della destra contro cui noi di sinistra siamo quasi disarmati. Perché io mi sento il contrario di quel vitalismo tracotante e sfacciato, per me fare politica è molto più un dilemma, l’etica mi è connaturata quasi fisicamente, credo negli altri, non solo in me stesso, vorrei una società più giusta, non solo il mio successo personale. Noi siamo il dubbio, siamo figli di Amleto. Siamo figli del pensiero dialettico, per cui sappiamo che la realtà è fatta di cose complesse. La semplificazione ci distrugge ma mostrare quelle caratteristiche significa anche rendersi conto di chi devi combattere e di quale energia hai di fronte. E l’energia di Roy Cohn è immensa fino all’ultimo istante di vita. E io la rappresento con tutto me stesso non certo per empatia né umana né politica, ma per profondità di ricerca artistica come strumento al servizio del pubblico e in senso lato della società.
Puoi approfondire i concetti a cui hai accennato sulla contrapposizione tra destra e sinistra, anche in relazione alla tua esperienza giovanile di militanza politica?
Innanzitutto c’è qualcosa di pre-politico di cui tenere conto ogni volta che si parla di militanza politica e io in gioventù ne ho fatta tanta. Al liceo sono stato un «leaderino» del movimento, come si diceva allora, e poi ho fatto politica attiva e militante fino al 1977, fino al convegno contro la repressione di Bologna. Da lì in poi ho scelto di farla solo attraverso il teatro. Su questo c’è una mia conversazione con Enrico Donaggio e Daniela Steila su Alfabeta 2.
Parliamo di male assoluto. Tu dici che Roy Cohn rappresenta il male assoluto. Ma attenzione, Roy Cohn non è Riccardo III. Cohn è un anticomunista viscerale, cosa che gli dà una forza incredibile e senza limiti etici, perché si fa schermo di un «alto scopo morale», cosa che può valere anche per un jihadista. I suoi comportamenti derivano più da un hooliganismo sociale – la versione cento anni dopo dell’arditismo alla base del fascismo – che da un’ideologia. Certi la chiamano «fede politica» e per la fede sei disposto a tutto pur di sconfiggere il male, il nemico. Il comunismo è stato il male, oggi il male è l’«antifa», il diverso, il migrante. Ma anche il complotto mondiale, Soros, le banche, le multinazionali, le scie chimiche, mischiando realtà e fake news. E tutti i mezzi sono giustificati per sconfiggere il male in funzione di un bene superiore: l’etnia, la patria, quel «noi» fatto di eroi e vittime al tempo stesso. È un meccanismo che va studiato, che io studio attraverso il teatro, che non si può considerare estraneo all’umano e che non ci è estraneo nella storia del socialismo. Penso alla divisione dell’Italia tra neutralisti e interventisti nel corso delle «radiose giornate di maggio» che, saldando il mito risorgimentale al nazionalismo squadrista, portarono all’«invenzione» del fascismo di Mussolini, maestro di Hitler. E non è estraneo alla storia del comunismo: le svolte nazionalistiche, rosso-brune a est, non sono tanto ideologiche quanto pre-politiche, antropologiche. È tutto politico invece il rapporto fra masse e potere, è quello che genera l’ideologia. Ci sono leader della destra molto abili a trasformare impulsi pre-politici in un’aggregazione di branco e poi in una «fede», dove la politica si trasforma quasi in una religione.
L’ho constatato quando nel febbraio 2020 sono andata a un gigantesco evento di Donald Trump a Des Moines in Iowa facendomi qualche ora di coda. Anche Bernie Sanders ha un seguito incredibile con una fortissima componente affettiva, sebbene i media mainstream non ne parlino. Eppure nulla di paragonabile all’invasamento dei trumpiani: una folla di seguaci, impermeabili alle bugie che Trump sparava a raffica, tanto da inneggiare a ogni menzogna, comprese quelle sul lavoro e sulle tasse.
Il culto del leader, l’affiliazione delle masse a un movimento politico che diventa una fede, che trasforma un diffuso disagio sociale prepolitico in movimento politico sempre più egemone, è un fenomeno che si verifica nelle epoche di grande paura, che possono essere di tipo diverso, ma sempre caratterizzate dalla perdita di certezze e dalla sensazione di non contare nulla. Di fronte allo spiazzamento totale, molte persone reagiscono contrapponendosi su qualunque cosa permetta loro di sentirsi qualcuno, un individuo che conta. Ti ricordi Taxi Driver? Un film importante per questa mia analisi. Era ispirato all’esistenzialismo europeo, in particolare a La nausea di Sartre e a Lo straniero di Camus, oltre che alla storia di Arthur Bremer, che nel 1972 tentò di assassinare il candidato Democratico alle presidenziali Usa George Wallace. La didascalia iniziale del film, sceneggiato da Paul Schrader, recita: «In ogni strada di questo paese c’è un nessuno che sogna di diventare qualcuno. È un uomo dimenticato e solitario che deve disperatamente provare di essere vivo». Ecco, Travis Bickle/Bob De Niro era un cane sciolto del disagio sociale, come le decine di cani sciolti che compiono stragi coi fucili d’assalto nelle scuole americane o altrove, come lupi solitari della jihad suprematista bianca americana. Ma se qualcuno dà un nemico, o molti nemici, se qualcuno indica un «noi» a cui appartenere e un «loro» da combattere, allora il cane sciolto confluisce in un movimento sentendo di essere parte di qualcosa. E di contare divenendo massa.
Penso al film L’onda del 2008, ispirato a una vicenda avvenuta negli Usa negli anni Sessanta, ambientato in una scuola superiore tedesca dove, per spiegare il nazismo, un professore mette in atto in buona fede un esperimento di affiliazione degli alunni a un gruppo fittizio, l’Onda appunto, con conseguenze tragiche. Uno dei ragazzi è proprio il prototipo dell’emarginato che in questo gruppo trova la sua unica ragione di vita scambiando la finzione con la realtà. Ma la stessa cosa accadde nel primi anni Settanta agli studenti dell’università di Stanford nell’esperimento del dottor Philip Zimbardo, che divise un gruppo di 24 maschi, di ceto medio e non inclini alla violenza, tra carcerati e secondini con effetti inimmaginabili.
Sì, sono due esempi calzanti perché mostrano come il fenomeno non coinvolga solo gli emarginati sociali, ma anche gente inserita, borghesi benestanti addirittura, incattiviti. Prendi quell’ipocrita di Joe Pitt di Angels in America, il giovane avvocato di Roy Cohn, mormone, gay ma sposato, che dietro la sua facciata da bravo ragazzo fa assolvere, attraverso un cavillo giuridico, una ditta che inquina, fa ammalare e rende ciechi dei bambini. Anche lui vuole sentirsi parte del flusso del cambiamento reaganiano, per cui l’America torna ad avere fiducia in sé stessa. Molto dell’alt-right americano contemporaneo esprime questa manifestazione di riappropriazione di potenza, di razza, di genere. Trump ha saputo ridare a persone demotivate questa grandezza, parlando di lavoro e di principi sociali che poi non mette in pratica, e additando il nemico, che di volta in volta sono gli ebrei o i messicani o i migranti in generale. E un’altra cosa che crea il culto del leader è vederlo come quello che ha il coraggio di dire le cose come stanno. E siccome è vero che per trovare la verità bisogna andare fuori dal mainstream, molti credono di trovarla nella spazzatura in rete e ci si attaccano totalmente e acriticamente. Però anch’io a sinistra ho osservato persone bersi notizie completamente prive di fondamento e basarsi su quelle per costruire una verità contraffattuale rispetto a quella ufficiale.
Parlando di culto del leader possiamo inserire nel novero americano anche un mito letterario come il capitano Ahab, che catalizza la ciurma al punto da trascinarla con sé nella sua tragica ossessione. E dunque raccontaci qualcosa del tuo strabiliante spettacolo Moby Dick alla prova – primo allestimento italiano di Moby Dick Reharsed, scritto, diretto e interpretato nel 1955 da Orson Welles – che intreccia Shakespeare, Melville, Welles, il Conrad di Cuore di Tenebra, importante punto di riferimento anche per Welles al cui Kurtz tu aggiungi anche il Kurtz di Marlon Brando in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Ricordiamo che dopo il debutto dell’anno scorso e le due tournée del 2022 e 2023, la Pequod dell’Elfo continuerà la sua navigazione per altre due stagioni.
Tra i molteplici livelli del romanzo di Melville volevo puntare soprattutto sugli aspetti ecologico e politico, ossia quelli che Orson Welles dilata e amplifica nel suo Moby Dick Reharsed, segnando il passaggio dall’Ottocento alla metà del Novecento con il bagaglio delle due guerre mondiali, macigno che crea a Welles anche l’interrogativo sul modo in cui fare arte dopo Auschwitz. Tutte le opere e le scelte di Orson Welles sono plasmate da una consapevolezza politica, anche quelle apparentemente non politiche. Quando Starbuck dice ad Ahab di essere sulla Pequod per portare a casa dei soldi, il capitano ribatte con un veemente discorso contro la finanza, molto strano per il capo di un’industria così proficua come una baleniera. Ma a Welles interessava quella demagogia reazionaria anticapitalista che si faceva nelle piazze – mentre poi i finanziamenti venivano dai grandi capitalisti – che ha portato ai fascismi e alla Seconda guerra mondiale. Penso ai discorsi arringa-folle di Mussolini sul complotto «demo-pluto-giudaico-massonico», alla narrativa fascista de «la grande proletaria si è alzata» con la coesistenza del termine di sinistra «proletario» e l’esaltazione della conquista coloniale come riscatto per l’Italia, penso alla definizione nazional-socialista attribuita al Reich. Ecco, l’ideologia demagogica della destra europea contiene e spaccia sempre istanze anticapitaliste e sociali, se non socialiste, mentre in America si ricorre ad altri termini perché il vocabolo «socialista» è tabù.
Sulla Pequod l’elemento catalizzante è un altro, ma assistiamo comunque a quel fenomeno per cui tutti i marinai vengono ammaliati da Ahab, tanto da diventare adepti fanatici a quel «Morte a Moby Dick!», che urlano in coro. Persino Ishmael, l’unico sopravvissuto all’ecatombe finale, che si è imbarcato per vivere un’esperienza particolare, è conquistato da Achab. Il rapporto che si crea tra loro due è sostanzialmente lo stesso che si crea tra Marlowe e Kurz in Conrad o tra Willard e Kurtz in Apocalypse now, per cui uomini razionali soccombono, almeno temporaneamente, di fronte a questi eroi impazziti: vi si vede in filigrana, come in Ahab, il modo in cui i leader dei regimi totalitari del Novecento hanno saputo sottomettere le masse conquistandole al male.
Per me portare in scena il capolavoro di Welles è molto importante in questo momento di ritorno alla fanatizzazione delle masse. Tra l’altro la nostra prova generale è stata il 6 gennaio 2021, il giorno in cui un improbabile Ahab con il riporto biondo cotonato aizzava la sua ciurma a dare l’assalto al bianco Campidoglio – che in italiano fa pure gioco di parole con capodoglio. Quelle immagini erano il correlativo oggettivo dell’allegoria contenuta nell’ossessione di Ahab verso il nemico demonizzato nel bianco mammifero marino.
Un’altra figura fondamentale del tuo specchio statunitense è Willy Loman, il commesso viaggiatore di Arthur Miller. Dove si colloca nel meccanismo americano?
Willy Loman rappresenta molto bene il motivo per cui attecchiscono le grandi paure. Il povero Willy Loman forse oggi sarebbe uno che vota Trump. Magari votava anche democratico, però questa sua idea dell’essere numero uno, dell’inseguire il successo a tutti costi, fa parte del mito americano. E lui essendone vittima, diventa al contempo carnefice di sé stesso non accettando il fatto che nel mito americano per uno che arriva ce ne sono migliaia dietro in fila. E oggi con l’insistente discorso italiano sulla meritocrazia anche noi siamo di nuovo lì, nel senso che si presuppone la società come già risolta, si presuppone la costituzione italiana come già applicata. Ed ecco allora il merito. Ma il merito ci potrebbe essere solo se tutti partissero nelle stesse condizioni. Da questo punto di vista io uso l’America come specchio.
Ed eccoci all’unico italiano di questa carrellata, Silvio Berlusconi. Poco dopo la vittoria di Trump, un’amica americana mi disse che Trump era un «Berlusconi with nukes». Mi risulta che nel 2006 quando hai impersonato il primo dei tre Berlusconi de Il caimano – gli altri due erano Michele Placido e lo stesso Nanni Moretti – ossia quello del periodo compreso tra la costruzione di Milano 2 negli anni Settanta e l’annuncio tv del ‘94 della «discesa in campo» per «l’Italia che amo», tu ti sia divertito parecchio. Pur essendo capace per natura di un mimetismo assoluto, non lo applichi mai ai personaggi reali, più o meno noti che siano al pubblico italiano. Qual è stato finora il tuo approccio con loro e con Berlusconi in particolare?
È vero che mi sono divertito anche a interpretare Berlusconi e se nella tua premessa c’era anche l’allusione, come credo, all’irritazione di Moretti, è vero anche questo: «Ma tu non puoi! È un mostro! Tu ti diverti!» [l’imitazione di Moretti è tale e quale, Ndr]. Certo che mi diverto. Io devo mostrare quello che lui è veramente. Io devo mostrare in uno sguardo chi è. Non sono mica scemi quelli che sono stati sedotti da quell’uomo lì. Adesso sì, ma allora non lo erano. Lui è un altro dei maestri di Trump. Quanto al mimetismo, è vero che certi personaggi non sono così a fuoco nella nostra cultura. Nemmeno Nixon lo era, anzi molte cose sono state scoperte dopo. Io per esempio per il mio Nixon di Frost/Nixon di Peter Morgan, in cui Ferdinando Bruni interpretava il giornalista britannico David Frost, sono stato ispirato dall’opera di Adams Nixon in China, dove il trucco rendeva gli attori simili a statue di cera. Ho costruito così la maschera: un avvocato e abile politico americano che confessa il Watergate in televisione, più vero del vero e al tempo stesso una maschera. Cosa che Berlusconi è ancor di più, ma lui non confesserà mai nulla. Questi personaggi diventano un po’ come personaggi shakespeariani, assumono la loro autonomia dagli originali, permettendone l’universalizzazione. L’ho fatto anche con Berlusconi. Io non ho assolutamente imitato il tono di voce di Berlusconi o Roy Cohn o Nixon, perché di ogni personaggio mi interessavano alcune caratteristiche. Non cerco mai il mimetismo documentaristico, ma un mimetismo più profondo, direi antropologico. E siccome il personaggio è già una sintesi, che cosa rimane di Berlusconi? Rimane un accento. È una questione di linguaggio universale che lui incarna come unicum quando dice «sono il presidente operaio». In realtà lui è il presidente «piazzista», che ti deve vendere l’assicurazione sulla vita, non dico l’aspirapolvere, ma qualcosa di un po’ più ideologico.
Un piazzista con una notevole autorevolezza nel trattare con gli altri da natural leader. Penso ad esempio a quella superiorità che tu riesci a comunicare nella scena in cui incontri per la prima volta Valerio Mastandrea, la guardia di finanza che poi finisce per diventare un dipendente di Berlusconi.
Se devi vivere sempre in competizione, è molto importante che tu creda in te stesso, e totalmente. Il fatto che alcune persone resistano a lungo anche alle sconfitte, che non mollino, è perché hanno un’automitografia forte, che si traduce nel fisico e che coincide anche con l’hybris. Ne hanno a quintali ed è la loro forza. E spesso anche la loro caduta è per lo stesso motivo, perché devono partire dal presupposto che hanno sempre ragione e mai torto: il torto non esiste, è la macchina del fango contro di loro. La sinistra è il dubbio, la critica. Quella invece è l’autosufficienza totale. Non esistono le bugie, Trump non mente. Trump un secondo dopo crede alle sue bugie, anzi, un secondo prima di dirle, come Berlusconi. Devono fare così perché se no non vendono il prodotto. Ci devono credere. «Attaccare, contrattaccare e non chiedere mai scusa» diceva Roy Cohn a Trump. È un meccanismo per cui non potrai mai essere nemmeno autocritico. Per questo parlo di hybris, perché l’autocritica è una cosa che ti può salvare dal fare errori. Lì non si salva nessuno perché vanno avanti sempre allo stesso modo, come carri armati.
Grazie Elio a nome dei «giacobini neri» per questa bella chiacchierata.
Grazie a te, allo staff di Jacobin Italia e ai suoi lettori.
Ho raggiunto Elio De Capitani qualche giorno dopo la nostra intervista per chiedergli un commento sulla morte di Berlusconi.
Se devo fare un bilancio della vita appena conclusa di Berlusconi, direi che ha capito e saputo surfare sulla natura autoindulgente, e furbetta, di molti italiani e li ha presi per il verso giusto: «La sinistra è triste; i comunisti sono tutti sfigati e moralisti ma lo sono anche i ricchi radical chic giustizialisti; non vogliono lasciarci divertire e ci imbrigliano con lacci e laccioli; la cosa che ci piace di più come Italiani è la libertà di fare come ci par»”. Ha strizzato l’occhio «alle masse» dicendo loro: «La sinistra vuole farvi la lezioncina e farvi diventare migliori, ma a me andate bene così perché io sono come voi e ho fatto un mucchio di soldi non facendomi scassare la minchia dalle regole; vi piaccio perché li frego sempre tutti, che è il vostro sogno segreto…».
Ma ora che la crisi sociale è più profonda e il disagio crea più paure, emergono leader della destra capaci di approfittare degli impulsi pre-politici della gente per convogliarla in un’aggregazione dalle caratteristiche fideistiche, dove la politica si trasforma quasi in un «culto della nazione». Berlusconi muore con una destra che del suo atteggiarsi a liberal-democratico non sa che farsene. È una destra nazional-sovranista. L’onda è cambiata, il surfer affonda!
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders. Elio De Capitani è attore e regista, opera da sempre al Teatro dell’Elfo. Ha lavorato con Gabriele Salvatores e allestito diverse opere teatrali e vinto diversi premi.
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