Un voto oltre gli schemi
Il giornalista investigativo Ryan Grim sullo spostamento a destra dei democratici e i limiti del piano autoritario di Trump
Ryan Grim (1978) è una delle voci più autorevoli del giornalismo investigativo indipendente americano, nonché autore di libri politici, l’ultimo dei quali è The Squad: AOC and the Hope of a Political Revolution (2023). Tra le numerose collaborazioni con famose testate e i diversi ruoli ricoperti sulla carta e in video, ricordiamo la direzione, dal 2009 al 2017, di una squadra dell’Huffington Post per due volte finalista al Premio Pulitzer e la posizione di rilievo, dal 2017 al 2024, all’interno di The Intercept, cofondato nel 2014 da Glenn Greenwald, Laura Poitras – due dei tre giornalisti recatisi in segreto a Hong Kong per raccogliere le testimonianze di Edward Snowden – e Jeremy Scahill. Dopo il ritiro nel 2020 di Greenwald e Poitras, qualche mese fa anche Grim e Scahill hanno lasciato The Intercept per per fondare Drop Site News, un nuovo organo di giornalismo d’inchiesta indipendente che «opera senza timori né favoritismi di e verso coloro che detengono il potere, repubblicani o democratici che siano». Nato col supporto e gli auspici di personalità del calibro di Amy Goodman e Naomi Klein, Drop Site News si è già contraddistinto come un’importante news organization nell’ambito «dell’ecosistema indipendente progressista che ha bisogno di una solida ala di giornalismo investigativo» per potersi contrapporre alla disinformazione e misinformazione dei corporate media.
I reportage dalla Palestina, la deriva antidemocratica del Partito democratico, Kamala Harris e Donald Trump sono alcuni dei temi toccati nella lunga intervista di cui riportiamo una sintesi.
Il divario tra l’informazione mainstream, spesso definita liberal ma di fatto dominata dalle corporation, e quella indipendente è enorme. Sebbene The Intercept non appartenga alla prima tipologia, tu e Jeremy Scahill l’avete lasciato per fondare Drop Site News dove non avrete «né limiti né capi». Ce ne vuoi parlare?
Jeremy e io vogliamo fare un giornalismo investigativo completamente libero e senza ostacoli, qualunque siano le risorse e le piattaforme a disposizione. Nella mia carriera a volte questo ha comportato lavorare in altre istituzioni, mentre in questo caso ha comportato cominciarne una nuova. The Intercept è cambiato parecchio da quando il suo finanziatore principale se ne è andato, anche se il lavoro che fa è buono e speriamo continui a esserlo. L’anno scorso io e Jeremy abbiamo cominciato a ragionare su come potessimo rendere sostenibile nel lungo periodo una struttura autonoma in cui focalizzarci su quello che sappiamo fare bene: occuparci di imperialismo americano, politica estera, National Security, corruzione di Washington DC. Lavorando sodo verso quell’obiettivo siamo riusciti a fondare Drop Site News che si basa su quella visione. Non dovendo chiedere permessi a nessuno, a Drop Site facciamo il giornalismo nel modo in cui riteniamo dovrebbe essere fatto.
Come mai questo nome che sa di spy-thriller story?
Per certi versi è un omaggio a Wikileaks, che ha portato alla luce alcune delle vicende più eclatanti del mondo. Dato che nell’Intelligence un drop site è un luogo fisico segreto dove a un orario prestabilito qualcuno va a lasciare informazioni che qualcun altro andrà poi a prendere, il nome è un modo sottile per incoraggiare i whistleblower a pensare a noi come un sito dove depositare informazioni scottanti in modo sicuro. Drop Site News non è solo un organo di informazione da leggere e dove trovare reportage e notizie di cui i corporate media difficilmente si occupano o trattano da prospettive di parte, ma dove chiunque può depositare articoli, registrazioni, filmati.
Pochi giorni fa Drop Site News ha pubblicato il resoconto di un lungo lavoro investigativo e fotografico condotto da due giornalisti in uno dei battaglioni chiave dell’esercito israeliano addetti alla distruzione di Gaza. L’incipit è un passaggio della Bibbia utilizzato da Netanyahu per incitare i soldati all’inizio della guerra: «Ora andate, attaccate gli Amaleciti e distruggete completamente tutto quello che appartiene loro. Non risparmiateli; mettete a morte uomini e donne, bambini e neonati, bovini e ovini, cammelli e asini». Puoi entrare più nello specifico?
Younis Tirawi e Sami Vanderlip hanno tracciato i contenuti dei social media postati dai soldati del battaglione 749 dell’Idf fin dall’inizio della guerra. Il loro lavoro è davvero qualcosa che non si era mai visto prima. Non si era mai verificato il caso di soldati che portassero con sé i cellulari e che costantemente postassero immagini di distruzione in tempo reale, vantandosi delle loro azioni, dicendo che avrebbero raso al suolo Gaza e che nessuno li avrebbe fermati. Molti soldati condividevano quel materiale solo sulle loro pagine personali o private, altri invece lo facevano pubblicamente in modo che tutto il mondo potesse vedere. Younis e Sami sono riusciti ad accedere ai contenuti di dozzine di soldati e ufficiali e seguendo cronologicamente i loro post hanno ricostruito il percorso di due intere missioni di distruzione attraverso Gaza. Penso che quella volontà di mostrare sui social le efferatezze che compivano regolarmente rifletta il senso di impunità che hanno. Se uno sapesse che quello che fa avrà delle conseguenze, che ne dovrà rendere conto, potrebbe comunque agire in quel modo ma difficilmente ci metterebbe il proprio nome e farebbe dei post pubblici. Questo dà l’idea del reale senso di invincibilità che i soldati dell’esercito israeliano sentono di avere sulla scena internazionale.
Tra le vostre prime esclusive ci sono i reportage di Jeremy Scahill con le interviste ai leader di Hamas e della Palestinian Islamic Jihad (Pij), e ad altre fonti bene informate palestinesi, israeliane e internazionali, per cercare di capire le motivazioni e gli scopi tattici e politici degli attacchi del 7 ottobre. Ci dai qualche cenno in più su questo ampio lavoro, unico nella sfera dei media americani?
Ovviamente i media del Medio Oriente hanno intervistato figure di primo piano sia di Hamas, come i due leader Basem Naim e Ghazi Hamad con cui anche Jeremy ha parlato a lungo, sia del Pij, sebbene anche in Medio Oriente gli intervistati siano spesso dei portavoce deputati a parlare con la stampa. Jeremy ha intervistato anche Muhammad Al Hindi, numero due del Pij, che non concedeva interviste alla stampa occidentale più o meno dagli anni Novanta e che ne ha rilasciate davvero pochissime. Avere accesso diretto al pensiero di queste persone è un contributo unico e tale rimane ora che i colloqui si sono riavviati e la posizione di Hamas è sempre mediata da diversi livelli. Prima c’è il passaggio da Hamas ai mediatori in Egitto o in Qatar, poi a un certo punto intervengono gli Stati uniti che alla fine divulgano quella che dicono essere la posizione di Hamas. Per settimane il dipartimento di stato statunitense ha riferito che Hamas si rifiutava di tornare al tavolo delle trattative. Ma a noi Hamas ha detto direttamente che non è andata così. E la cosa interessante è che il consueto scetticismo che si ha verso qualsiasi fonte riguardo alle sue dichiarazioni viene meno in un caso come questo, in quanto si tratta di manifeste affermazioni autoreferenziali. Se Hamas dichiara di voler entrare nelle trattative, il fatto stesso di dichiararlo è di per sé una conferma. Lo è per definizione. Dire a un giornalista che sei interessato al colloquio è di fatto l’inizio del colloquio. E così le dichiarazioni del dipartimento di stato sul fatto che sia stato Hamas a rifiutare le trattative cadono.
Qual è la posizione degli Usa sull’Iran in relazione a Israele e che cosa ne pensa Hamas?
Israele persegue l’obiettivo di lanciare un enorme e catastrofico attacco sull’Iran, e di farlo con l’assistenza Usa, fin dalla sigla di Obama alla partecipazione degli Stati uniti all’accordo sul nucleare iraniano del 2015. Obiettivo numero uno dell’Aipac e delle lobby israeliane di Washington è sempre stato cercare di osteggiare e bloccare in tutti i modi quell’accordo, tanto che anche Netanyahu si recò al Congresso di Washington, nonostante l’opposizione di Obama, per fare pressione su deputati e senatori in una sessione a Camere congiunte affinché non lo approvassero. Ma fallì. In seguito Trump uscì dal patto e quando Biden divenne presidente invece di ripristinare la situazione precedente adottò tutte le politiche di Trump sull’intera regione: non solo non rientrò nell’accordo, ma cementò gli accordi di Abramo e continuò il processo di trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme. Secondo Hamas e il Pij si è trattato di provocazioni che, oltre alla marginalizzazione e all’isolamento della causa palestinese, li ha portati a dire: «Se dobbiamo rientrare in scena lo faremo combattendo a modo nostro». E da lì poi è scaturito il 7 ottobre e tutto quello che ne è seguito.
Passiamo a Kamala Harris e a Donald Trump. Quanto si merita di diventare presidente una persona come Kamala che quattro anni fa si è ritirata dalla corsa prima dell’inizio delle primarie senza dunque aggiudicarsi nemmeno un voto popolare? E allargando il discorso quanto di democatico c’è ancora nel Partito democratico?
Niente. Nel Partito democratico di democrazia non rimane davvero più niente. Io sono stato molto esplicito nel chiedere una convention aperta per sostituire Joe Biden, così come lo ero stato in favore di primarie vere e proprie. Ma le hanno impedite, nonostante il 10% e il 20% circa di gradimento raggiunti l’anno scorso da Marianne Williamson e Robert Kennedy. Quando in luglio Biden si è fatto da parte, il partito avrebbe potuto organizzare, se non una sfida vera e propria perché ormai era tardi, almeno un processo che sapesse di democratico. C’erano circa 3.000 delegati in partenza per Chicago dove avrebbero potuto scegliere il candidato presidenziale da una lista aperta. Kamala poteva correre così come Josh Shapiro, Tim Walz, Gretchen Whitmer, Gavin Newsom e chiunque lo volesse. Avrebbero potuto fare dibattiti televisivi, town hall, comizi e ci sarebbero stati dei sondaggi. Così anche se non si trattava di un voto popolare vero e proprio ci sarebbe comunque stato il riflesso della volontà popolare. E Tim Walz in quel caso sarebbe potuto emergere come l’effettivo candidato alla presidenza perché, così come è piaciuto non appena si è fatto conoscere, la gente avrebbe potuto vedere in lui il personaggio capace di battere Donald Trump. Invece non l’hanno fatto, si sono messi con Kamala Harris e adesso devono solo incrociare le dita. Vedremo.
Ci dai la tua opinione sia sull’appoggio a Israele che Harris continua a ribadire in ogni intervista, cosa già evidente quando alla Convention ha negato l’intervento di due minuti alla rappresentante dei delegati Uncommitted, sia sull’inconsistenza e la mutevolezza delle sue dichiarazioni?
C’è una risposta data ad Anderson Cooper nel recente town hall della Cnn che è diventata virale negli Stati uniti, quando lui le ha chiesto se pensava di poter perdere le elezioni per il sostegno a quello che sta avvenendo a Gaza e lei ha detto che capisce la sofferenza di quella gente e quanto orribile sia la situazione, e che molti elettori la pensano allo stesso modo, ma che tuttavia quegli stessi elettori vogliono anche prezzi più bassi nei supermercati e sono preoccupati per la minaccia alla democrazia di Donald Trump. È stata una dichiarazione diretta del fatto che gli elettori devono accettare il suo sostegno a quello che sta facendo Israele, ma che per loro è comunque più conveniente votare per lei perché le altre cose non sarebbero migliori sotto Trump.
La strategia del male minore.
Esattamente, e persino riconoscendolo. Quando Kamala dice «capisco che la gente sia sconvolta per Gaza, ma io abbasserò i pezzi del gas», sostanzialmente riconosce che ci sarà del male, che questo non piacerà agli elettori, ma che alla fine è una loro scelta. E il tema del votare contro Trump è sostanzialmente il punto fondante della sua campagna. Anche il fatto che non dica mai nulla di sostanziale lasciando che la gente si chieda quali siano le cose in cui crede veramente, penso che non sia solo parte del suo modo di essere, ma probabilmente corrisponda a una qualche strategia politica. Se non prendi una posizione su istanze precise, allora la gente dovrà fare la sua scelta secondo altri criteri e la speranza è che la scelta si baserà sul volere o meno Trump alla Casa Bianca. In pratica il partito sta cercando di non alienarsi le simpatie di quante più persone possibili. Ecco perché vogliono mostrare la più vasta gamma di approvazioni, da Dick Cheney a Bernie Sanders, che dal punto di vista politico è incoerente, ma da una prospettiva strategica è una scelta chiara. È come dire: «Noi non siamo Trump e questo dovrebbe bastarvi». Ormai purtroppo ciò che definisce la politica statunitense e che peraltro la rende molto noiosa per le persone che vorrebbero vedere almeno un qualche tipo di reale lotta di classe, è questa iper-polarizzazione mirata a eccitare la gente sulla base della paura dell’altro. Elon Musk e tutti i suoi amici hanno detto che se i Democratici vincono le elezioni questa sarà l’ultima elezione. I Democratici dicono la stessa cosa su Donald Trump. Al di là del cinismo dei leader che dicono spesso cose che non pensano, quello che conta è che sono riusciti a convincere la gente da una parte e dall’altra che i rispettivi avversari sono una terribile minaccia esistenziale.
Eppure, semplificando, la narrativa prevalente nei media «non di destra» in Italia è quella che vede solo Trump e i suoi come i cattivi, che dicono cose terribili e che sono una minaccia per la democrazia. Ritieni che Trump rappresenti davvero un pericolo per la democrazia o, per dirla con Chris Hedges, per «quel barlume che ancora rimane della democrazia americana»?
No, non credo. Forse potrebbe esserlo in un altro paese con istituzioni più deboli. Per sovvertire la democrazia Trump dovrebbe avere dalla sua parte due sostanziali centri di potere. O meglio tre: il suo partito, la Corte Suprema e l’esercito. Non c’è dubbio che quel partito politico personale che Trump si è costruito lo seguirebbe ovunque, ma non la Corte Suprema che è costituita da una varietà di Repubblicani differenti da lui. I giudici della Corte Suprema hanno sì le loro tendenze autoritarie, ma sono generalmente pro-business e pro-corporation con qualche elemento di teocrazia. Da Trump hanno preso tutto quello che potevano prendere o lo faranno entro la fine di un eventuale secondo mandato e quindi non hanno più bisogno di lui. In qualche misura Trump erode il loro potere e inoltre in un regime autoritario la Corte Suprema dovrebbe solo codificare le decisioni del dittatore. Poiché invece quel che vogliono è avere potere, è nel loro interesse espellere Trump dal sistema. Per di più il mandato di Trump sarebbe temporalmente limitato e così per poter rimanere in carica oltre i prossimi quattro anni, l’esercito dovrebbe fare un colpo di stato per conto di Trump, ma l’esercito è composto da milioni di persone molte delle quali Democratiche e Trump non avrebbe né la capacità né il tempo di fare quello che fece Stalin, ossia di eliminare i tre o quattro livelli apicali dell’esercito e rimpiazzarli con i suoi lealisti. Adesso sta circolando questa frase diffusa da un articolo di The Atlantic secondo cui Trump avrebbe detto di volere dei generali come quelli di Hitler. Che l’abbia detto o no, la domanda è: Trump ha tendenze di quel tipo? Certamente sì. Ma non sarebbe in grado di concretizzarle nel poco tempo che avrebbe, anche perché la prima cosa che ha promesso di fare è di impiegare parte dell’esercito per cercare gli immigrati illegali e deportarli. Tra due anni poi ci sono le lezioni di medio termine e a quel punto Trump sarebbe un’anatra zoppa e il partito avrebbe interesse a lasciarlo tale perché ci sono una quindicina di uomini e alcune donne che vogliono prendere il suo posto come leader Repubblicano. In che modo e con quali appoggi dunque potrebbe diventare un dittatore?
Ci sono stati provvedimenti del primo mandato di Trump che possono giustificare il fatto che oggi una parte numerosa della working class pare abbia intenzione di votare per lui?
Le cose principali sono state la pressione sulla Federal Reserve per mantenere bassi i tassi di interesse e mantenere una politica monetaria espansiva anche quando la disoccupazione era bassa, cosa che ha contribuito ad alzare i salari. I Democratici lo hanno criticato per aver osato fare pressioni sulla Federal Reserve che è un organo indipendente, ma la gente crede che istituzioni come quelle debbano essere sottoposte a principi democratici e quindi quello che ha fatto Trump è stato visto come una cosa intelligente e ha funzionato. Poi ha fatto pressione sul principe dell’Arabia Saudita Muhammad Bin Salman perché aumentasse la produzione quando i prezzi del gas erano alti. Ci sono state tangenti, ricatti e relazioni molto corrotte tra Trump, la sua cerchia e Mbs, tuttavia è riuscito a far sì che negli Stati uniti i prezzi del gas si riducessero parecchio, anche se lo ha fatto soprattutto perché si stavano avvicinando le elezioni di medio termine del 2018. Anche in pandemia ha fatto pressioni a Mbs quando il gas saudita era precipitato a zero dollari perché nessuno andava da nessuna parte. Trump ha fatto in modo che alzasse i prezzi e riducesse drasticamente le esportazioni, cosa che beneficiò gran parte dell’industria americana e mantenne stabile la situazione. Inoltre sempre durante la pandemia Trump passò, con l’appoggio dei Democratici che in quel momento avevano la maggioranza alla Camera, enormi contributi a vantaggio dei disoccupati e delle persone che quotidianamente lottavano con le difficoltà della pandemia. Tuttavia oggi molte persone della working class e degli iscritti ai sindacati non connettono l’aumento dei salari con le imposizioni di Trump alla Federal Reserve, anche se quello è il vero motivo. Quello che credono è che i salari siano saliti per via della stretta sull’immigrazione dato che le due cose sono avvenute contemporaneamente. «Abbiamo eletto questo tipo che diceva che avrebbe costruito un muro e tenuto lontani tutti gli immigranti e improvvisamente le nostre paghe sono aumentate». E questo vale oggi più che mai.
L’ultima domanda riguarda proprio l’immigrazione. In che cosa si distinguono Harris e Trump?
Dopo lo stop all’immigrazione causato nel 2020 dalla pandemia, nel 2021 c’è stata un’impennata al confine meridionale anche per l’accumulo creatosi precedentemente. È significativo che le ondate arrivassero da Cuba, Haiti, Venezuela, alcune anche da Honduras ed El Salvador, tutti paesi devastati o distrutti dalla politica estera americana. La risposta dei Democratici è stata di spostarsi più a destra e Kamala oggi è di fatto allineata con la maggior parte delle posizioni che aveva Trump, eccetto per un comportamento più morbido sulla politica della separazione dei bambini. Tuttavia a questo spostamento a destra dei Democratici corrisponde un ulteriore spostamento a destra di Trump che dice che impiegherà l’esercito per andare a cercare gli immigrati in giro per il paese e riportarli a casa loro.
Chi vince il 5 novembre?
Non lo so.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.