Una comunità contro il fossile
Accade a Civitavecchia: l’unità di classe arriva dalla lotta contro il carbone e per il diritto alla salute. Così una città prova a immaginarsi diversa
A Civitavecchia le cose più antiche furono sepolte dai bombardamenti che colpirono il Lazio all’epilogo del secondo conflitto mondiale. Una chiesa medievale, nelle vie della città portuale laziale, non la si trova neanche dopo spossanti ricerche. La più antica chiesa rimasta è la barocca Santa Maria dell’Orazione. Prima del Seicento, il vuoto.
Si tratta di un territorio impoverito due volte: la prima per la rimozione dei segni del tempo causata dalle bombe. L’altra per le politiche della ricostruzione postbellica, che l’hanno resa un centro di produzione energetica con enormi centrali termoelettriche, di cemento, e uno dei più importanti scali portuali della costa tirrenica, fondamentale anche per le acciaierie di Terni.
Poi, come per il comune umbro, si è trattato di affrontare il conflitto tra la salute, l’ambiente e il lavoro. E in tal caso il ricatto occupazionale è stato favorito da un impoverimento del territorio durato decenni: un logorante sfruttamento che ha lasciato sul campo una prevalenza di posti di lavoro poco qualificati e scarsamente retribuiti, togliendo alle popolazioni locali la forza materiale, economica, ma non anche morale di reagire dinanzi al ricatto.
La comunità di Civitavecchia ha infatti proposto, per abbandonare le fonti fossili, e al contempo rilanciare gli scarsi livelli occupazionali, un progetto di ambientalizzazione del porto e in particolare un impianto eolico off-shore.
I dati che provenienti dalla Germania stimano un tasso di occupazione nella filiera industriale dell’eolico offshore di circa tre posti di lavoro per ogni megawatt (MW) di potenza installata. Un dato coerente con il rapporto proficuo ravvisato dall’Organizzazione internazionale del lavoro dell’Onu (Oil) tra la transizione alle energie rinnovabili e la creazione di nuovi, più qualificati e meglio retribuiti, posti di lavoro.
Di conseguenza se l’Italia decidesse di attuare un programma teso a raggiungere entro il 2030 una potenza di eolico offshore nazionale di 10.000 MW, coprirebbe il 10% dell’attuale consumo elettrico nazionale e la filiera industriale creerebbe circa 30.000 nuovi e migliori posti di lavoro.
Nel documento della Regione Lazio sulla costruzione dell’impianto di eolico offshore a largo della città portuale laziale, viene ipotizzata l’installazione di 27 aerogeneratori a una distanza compresa tra 20 e 30 km dalla costa per una potenza complessiva di 270 MW. La configurazione studiata potrebbe inoltre essere replicata fino a raggiungere potenze complessive di circa un GW.
Dovrebbe essere lo Stato a svolgere quel ruolo attivo, che è ancor più necessario nelle aree in cui il mercato lascia i propri relitti industriali, facendosi primario attore di una reindustrializzazione che, nel rispetto dello stesso dettato costituzionale, veda garantita l’utilità sociale dell’attività economica privata.
Lotta di classe e salute
La combustione del carbone rilascia in atmosfera gas come il monossido di carbonio, anidride carbonica, biossido di azoto e particolato atmosferico. Gli studi epidemiologici evidenziano come l’inalazione dei suddetti gas abbia un impatto significativo sui polmoni, facendo aumentare i casi di asma, cancro ai polmoni e bronchite cronica. Gli effetti negativi non si fermano qui e colpiscono anche il cuore. L’esposizione agli inquinanti determina anche un aumento della casistica di altre patologie, come quelle neurodegenerative tra cui l’Alzheimer, ma anche il diabete, che sono individuabili nella casistica del comune di Civitavecchia.
A Civitavecchia, da un’analisi dei dati del 2020 disponibili sulla piattaforma Open Salute Lazio, emerge come il tasso standardizzato di diabete di tipo 2 non sia in linea con quello regionale. Il tasso standardizzato regionale ha un valore pari a 52,7, mentre quello dell’Asl dove ricade Civitavecchia risulta avere un valore di 57,6.
Nel caso dei tumori maligni vi è un maggiore tasso standardizzato di diverse patologie oncologiche, come alla mammella femminile, colon-retto e ano, pancreas, linfoma non Hodgkin e tumori a bronchi e polmoni.
Infine, anche il tasso standardizzato delle morti è dissonante rispetto a quello regionale. La prima causa di morte è dovuta alle malattie del sistema circolatorio, seguite dai tumori maligni e dalle malattie dell’apparato respiratorio.
Tutti questi dati vanno contestualizzati: gli inquinanti hanno un impatto diversificato sulla popolazione, in quanto a essere più esposte sono le classi popolari, che solitamente vivono in prossimità degli impianti inquinanti.
A tal proposito vale la pena citare uno studio condotto dal Servizio Sanitario della Regione Lazio che ha preso in esame un campione di 71.362 persone residenti nel comune di Civitavecchia e nei comuni limitrofi per monitorare gli sviluppi a seguito dell’esposizione alle varie sorgenti inquinanti del territorio per ben 17 anni. Nell’analisi sugli impatti dovuti al porto è stata analizzata la popolazione residente entro 500 metri dal perimetro portuale ed è emerso con chiarezza un aumento di mortalità per tumori al polmone e malattie neurologiche rispetto ai residenti delle altre zone. L’impatto del transito delle navi si estende poi agli stessi lavoratori portuali, in cui è stato documentato un eccesso di mortalità per tumori della pleura.
Lo studio citato ci invita a riflettere sull’evidenza presente tra l’eccesso di mortalità tra residenti in aree con stato socio-economico più basso rispetto ai residenti in aree con uno stato elevato.
Tra centri e periferie
Di fronte a questi dati è doverosa una presa di posizione e una ferma denuncia di un sistema economico basato sull’evidente divisione tra centri, intesi come luoghi di consumo, e periferie: le aree dove quegli stessi beni e servizi (ma anche gli effetti inquinanti che ne derivano) vengono prodotti, sotto però la stretta eterodirezione dei centri stessi. Questo significa la creazione di una dipendenza di queste aree dai centri che decidono i destini delle classi che vi abitano: produttori sfruttati e costretti a vivere in un territorio in cui la salute è subordinata alle attività economiche e che soprattutto non possono ambire a essere, in nessun campo della produzione stessa, classe dirigente.
La centralizzazione della produzione energetica da parte di colossi come Enel, Eni, A2A e altri può far emergere un subdolo meccanismo di potere che coincide con la capacità di azzerare la possibilità di immaginare un futuro diverso da quello che è stato definito per il territorio. In tal senso la dimensione di potere si esplicita proprio nella capacità che tali colossi hanno di influenzare l’agenda politica e di indicare le priorità e le linee strategiche da seguire.
Riflettere sulla centralizzazione ci aiuta anche a comprendere le ragioni per cui Enel ha sostenuto la proposta di transizione dal carbone al gas (e non alle rinnovabili). Tale scelta strategica le avrebbe permesso di non veder mutare i rapporti di forza con i territori in cui produce energia.
Ed è quindi proprio quando emerge un movimento antagonista al fossile che si crea un momento in cui all’interno della società civitavecchiese si definisce un’importante linea di faglia. È un meccanismo tipico del divide et impera, perché se dal punto di vista della cittadinanza la comunità si trova dilaniata, con al proprio interno sacche di popolazione che difendono gli interessi della multinazionale Enel, dal suo punto di vista l’azienda riesce a sfruttare a proprio favore le divisioni per portare avanti il modello di sviluppo che ha tessuto per anni sulla città, imprimendole delle ferite che sono particolarmente evidenti ma, nel tempo, sanabili.
La comunità ha dimostrato, attraverso le più recenti lotte, di riuscire a superare le iniziali frammentazioni, peraltro un riflesso delle politiche neoliberiste di frantumazione della solidarietà di classe attraverso l’assunzione della competitività a dogma indiscusso. Quella dei «soggetti vivi» di Civitavecchia, non è una in sé conclusa soggettività politica, bensì, per dirla con le parole del sociologo Luciano Gallino, uno dei molti luoghi in cui «si può trovare una comunità di interesse che il luogo di lavoro non offre più».
Per meglio comprendere il contesto sociale civitavecchiese e il movimento che ha sostenuto l’urgente necessità di abbandonare la produzione termoelettrica da carbone, salvaguardando al contempo i posti di lavoro offerti dalle centrali esistenti, abbiamo intervistato Riccardo Petrarolo e Fabrizio Baffetti, attivisti del movimento No al Fossile – Civitavecchia.
Puoi farci un inquadramento storico del rapporto di Civitavecchia con gli impianti inquinanti presenti sul suo territorio?
Riccardo: Nel dopoguerra con l’esigenza di ridare a Civitavecchia un tessuto occupazionale e produttivo, attraverso i fondi del piano Marshall fu costruita la sua prima centrale, inizialmente non alimentata a carbone. Da allora Civitavecchia è sempre stata immaginata come uno dei centri nevralgici della produzione energetica italiana. Negli anni Sessanta venne inaugurata una seconda centrale, nell’area di Torrevaldaliga. Solo dopo qualche anno ne venne invece costruita una terza, più grande e tristemente famosa. Fino al 1992 Civitavecchia contava ben tre centrali termoelettriche, alle quali bisogna aggiungere il cementificio e anche il porto in costante espansione. A Civitavecchia abbiamo respirato tutti i combustibili fossili.
Come si è evoluto nel tempo il modo di affrontare la lotta contro l’inquinamento a Civitavecchia?
Riccardo: Nei primissimi anni 2000 il governo decise, su impulso di Enel, di convertire da olio combustibile a carbone l’impianto di Torrevaldaliga Nord (Tvn): questo passaggio lacerò la città. Un’enorme massa di cittadinanza si mobilitò infatti contro la conversione a carbone di Tvn, perché l’idea che in molti avevano era di una città emancipata dalle fonti fossili. C’era però una consistente parte della cittadinanza, in particolare i lavoratori delle centrali, che accettava questa riconversione. Fino al 2003, l’anno dell’autorizzazione, a Civitavecchia si respirava una forte tensione che spaccò letteralmente partiti, sindacati, associazioni e finanche famiglie. La mobilitazione fu molto forte, venne occupato il consiglio comunale di Civitavecchia per diversi giorni. Occupammo anche i binari interrompendo la tratta ferroviaria sulla direttrice Roma-Genova-Ventimiglia. Il livello di conflittualità fu alto, ma non fummo in grado di far convergere la lotta sui temi ambientali e della salute pubblica con quella per una buona occupazione. Il contesto storico era diverso e le immature tecnologie che avevamo a disposizione non ci permisero di proporre un’alternativa.
Quali sono invece le attuali condizioni e proposte della mobilitazione che intende abbandonare i combustibili fossili? Quali le strategie per salvaguardare ambiente e salute dei civitavecchiesi perfino migliorando il livello occupazionale del territorio?
Riccardo: Oggi questa centrale a carbone è in piena attività. Nel Piano integrato per l’energia e il clima (Pniec) è stato inserito il giorno in cui le centrali a carbone dovrebbero spegnersi. La data è il 31 dicembre 2025, ma nello stesso documento si proponeva una transizione a gas o rinnovabili. Questo ha portato rapidamente la città a immaginarsi in maniera diversa. Abbiamo scomodato ingegneri, fisici, chimici e associazioni di categoria. Diverse realtà hanno iniziato a strutturare una serie di progetti alternativi che seguono due direttrici: l’ambientalizzazione del porto attraverso fotovoltaico, eolico offshore, ma anche impianti per accumulare energia in casi di intermittenza delle fonti rinnovabili: non solo batterie, ma anche idrogeno verde. La costruzione di un impianto eolico offshore galleggiante a largo di Civitavecchia darebbe immediata continuità occupazionale a circa 500 lavoratori dell’indotto di Torrevaldaliga Nord. Lavoratori che con la transizione al gas passerebbero invece da 500 a 40; e questo ci ha dato modo di dialogare sempre di più con la realtà operaia di Civitavecchia.
Nel 2003 mancò l’appoggio dei sindacati: come siete invece riusciti a creare l’attuale convergenza tra ambientalisti e classe operaia?
Fabrizio: All’epoca era molto minore la sensibilità ambientale e quindi ci fu una contrapposizione netta tra gli ambientalisti e il mondo del lavoro. Nel 2003 entrò in funzione la centrale a carbone. Dobbiamo ammettere che come ambientalisti non avemmo l’accortezza di riflettere sulla divisione tra lavoratori e dirigenti. Avremmo dovuto comprendere la differenza tra il lavoratore che deve pagare il mutuo e la classe dirigente, provando anche a dare gli strumenti retorici per combattere una certa narrativa legata al ricatto occupazionale. Questa volta abbiamo cercato di non ripetere gli errori del passato. Abbiamo stabilito dei contatti con tecnici per redigere dei progetti alternativi da proporre agli operai. Adesso siamo un caso vincente, proprio in virtù di questo confronto diretto. Avendo fatto il portuale posso dirvi che oggi sono gli stessi lavoratori a chiedere un futuro diverso per la città e questo è veramente emozionante. La città si è resa conto che il fossile non dà futuro. Bisogna immaginare una realtà diversa in cui poter avere una salute e un lavoro migliori, e non alimentare la crisi climatica.
Cosa vuol dire per una città di poco più di 50.000 abitanti avere sul proprio territorio tutti questi impianti inquinanti?
Fabrizio: Noi oggi siamo con il sorriso, ma sotto viviamo una tragedia: abbiamo visto tanti amici e parenti morire di tumore e la sofferenza oncologica è qualcosa che spegne lentamente chi ne è affetto, e il trauma più grande è proprio il percorso, vedere negli occhi la gioia che scompare e in alcuni casi vedere in chi ce la fa il rimorso del sopravvissuto. Spesso anche per autodifesa non facciamo riferimento a questa dimensione più tragica, ma parliamo di centinaia di malati oncologici in una città di poco più di cinquantamila abitanti. Ben oltre le statistiche però, noi questi numeri li leggiamo nel venir meno dell’affetto delle persone che non ci sono più.
Se quindi le rinnovabili garantirebbero un’occupazione maggiore e migliore in qualità, perchè Enel si ostinava a proporre la transizione da carbone a gas?
Fabrizio: Non c’è solo l’interesse per gli utili. Avere una mega centrale in una città vuol dire controllare il fabbisogno energetico di mezza Italia: il nostro voler arrivare alle comunità energetiche le toglierebbe questo potere. Avere qui una grande centrale significa mantenerne il controllo a Roma, dove lavorano gli stessi ingegneri di Civitavecchia (tra cui molti dei nostri ex compagni di scuola, quasi tutti emigrati). Non vogliamo solo la produzione energetica attraverso l’eolico offshore: vogliamo la fabbricazione delle pale eoliche per garantire lavoro al mondo operaio della città e un polo pubblico di ricerca, perchè comunità energetica non vuol dire solo produrre energia, ma qualcosa in più dal punto di vista intellettuale. Vogliamo che le comunità possano elaborare la capacità progettuale necessaria per gestire il processo di produzione energetica. Noi per anni siamo stati vittime della produzione da fonti fossili, ora vorremmo avere tutti i vantaggi legati alla produzione di energia rinnovabile, come un distaccamento della Sapienza che faccia ricerca nel campo della transizione ecologica.
*Ferdinando Pezzopane studia Scienze Internazionali, dello sviluppo e della cooperazione presso l’Università degli Studi di Torino e la Scuola degli Studi Superiori di Torino, è attivista di Fridays For Future Italia. Si interessa di relazioni internazionali, di ambiente, ecologia e del loro rapporto conflittuale con il sistema capitalistico. Per una critica del modello di sviluppo in una prospettiva classista ed ecologista. Giorgio De Girolamo, studia Giurisprudenza all’Università di Pisa, è attivista di Fridays For Future Italia. Si interessa e ha scritto di ambiente, clima e analisi storica e giuridica su varie testate nazionali.
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