«Una donna», anzi due
Enrico Letta è il sintomo di un mondo che ha pigramente accettato che esistano anche le lotte e i diritti delle donne ma non ha nessuna intenzione di mettere in discussione i propri privilegi
Enrico Letta, maschio bianco cinquantenne segretario del Partito democratico, ha deciso di rompere con la cappa dei maschi bianchi cinquantenni che imperano in politica e, dopo aver preso il potere, ha dato ordine di nominare capigruppo parlamentari due donne.
Io ho detto che per me la cosa fondamentale è che sia una donna, perché io sono uomo, i ministri sono uomini, almeno i due capigruppo che siano due donne. Il Pd ha fatto tre congressi e ha avuto nove candidati uomini. A chi mi dice che cosa ho fatto per scardinare gli equilibri interni rispondo: nel 2021 anche in Vaticano è stato nominato un vicesegretario donna. Io ho preso di petto una questione perché nel 2021, appunto, non esiste che il Pd debba essere un partito solo di uomini.
Da dove partire per commentare una simile dichiarazione? Non certo dall’analisi di classe, completamente assente in chi ha come punto di riferimento per la sinistra le alte sfere del Vaticano. Nè dalla prospettiva non dico intersezionale, ma nemmeno vagamente antirazzista, che tace scrupolosamente sul dramma dei Cpr e sul cimitero a cielo aperto del Mediterraneo da un lato, e dall’altro agita il drappo rosso dello Ius Soli per far incazzare le destre e guadagnare qualche titolo in prima pagina.
Sicuramente non da una prospettiva femminista, perché c’è una certa stanchezza nel ribadire l’ovvio e persino le donne più battagliere ogni tanto si riservano il diritto di posare le armi della dialettica e mandare tutti affanculo.
Perché allora scrivere queste righe? Perché Enrico Letta è la mano di vernice nuova che odora di buono passata sulla ruggine e il marciume del Pd. È un moderno ritrovato della tecnologia politica che spaccia come esaltante boccata d’ossigeno la puzza di candeggina che diamo alle macchie di muffa patriarcale e che, a ogni benedetto congresso di partito o tornata elettorale, non fanno altro che rispuntare fuori più aggressive e diffuse di prima.
È la rappresentazione plastica, in tema di rappresentanza democratica, del paradosso di Achille e la tartaruga, dove tutto appare in movimento anche se è fermo, cristallizzato nell’attimo in cui il cronista chiede al Segretario una dichiarazione sull’ennesima, micragnosa, polemica interna, mentre il poderoso Achille del movimento transfemminista queer, che sulla carta dovrebbe vincere la competizione, viene battuto dalla tartaruga pachidermica del Partito con la P maiuscola e la d di dissoluzione.
«Basta che sia una donna»: non ci interessano la sua storia, il suo credo politico, le sue battaglie, le sue convinzioni profonde, la sua esperienza, la sua provenienza geografica o di classe; non ci interessano nemmeno le altrove tanto preziose e sbandierate «competenze». Basta che sia una donna, anzi, #unadonna, scriviamolo tuttoattaccato, come nelle pagine social che collezionano titoli di tenore simile provenienti da giornali, comunicati stampa, documenti vari ed eventuali, accomunati dal malcelato stupore che «una donna», una donna qualsiasi senza nemmeno il diritto a un nome e un cognome, possa fare le stesse cose che fino all’altro ieri erano state appannaggio esclusivo degli uomini. Anzi, dei maschi; bianchi.
Siamo tutti uomini, dice il Segretario, «almeno i due capigruppo che siano donne», sennò che figura ci facciamo, sembra pensare, persino al Vaticano stanno più avanti di noi, e quelli sono gente che fino a qualche tempo fa con le donne un po’ così ci faceva carbonella per il barbecue teologico, e ancora oggi se potesse prenderebbe i loro corpi e li metterebbe al ciocco della riproduzione della specie.
«Ho preso di petto la questione», aggiunge il Segretario vestendo la S dei supereroi, con i miei maschi pettorali cisgender ho rispedito al mittente l’accusa di chi mi faceva notare che sui diritti delle donne il mio partito non è riuscito a produrre un avanzamento concreto in tanti anni di onorato servizio, con un gesto virile ho cancellato secoli di dibattito sulla violenza strutturale del patriarcato – ammesso che mai l’abbia anche solo presa in considerazione come orizzonte possibile dell’azione politica – e ho deciso con piglio altero di piazzare ben due donne, in posizione subordinata s’intende, a fare da badanti a quella compagine di mitomani recalcitranti e litigiosi che mi ostino a chiamare gruppi parlamentari.
Fino a qui, che noia. Ma adesso, sentite, viene il bello. La ciliegina sulla torta, la beffa che si aggiunge al danno, è la sorpresa che il segretario del Pd dice di aver provato di fronte ai toni sessisti utilizzati per commentare la sfida tra le due candidate rompighiaccio della Camera – nella fattispecie Marianna Madia, cattolica praticante che considera l’aborto un «fallimento etico, economico, sociale e culturale», e Debora Serracchiani, avvocata convinta che lo stupro sia più grave se commesso da un richiedente asilo.
«Mi hanno sorpreso i commenti e titoli: se fosse stato un confronto tra due uomini si sarebbe usato un altro tipo di linguaggio», ha detto Letta facendo riferimento all’espressione baruffa utilizzata per descrivere la competizione, esprimendo un sentimento che per essere davvero genuino necessiterebbe di un totale scollamento con il vissuto quotidiano di metà della popolazione mondiale e con la rappresentazione che ne viene data sui media quale che sia l’argomento.
Una sorpresa che fa il paio con l’altrettanto incomprensibile indignazione di fronte alla strumentalizzazione delle donne e delle istanze femministe da parte di Enrico Letta, anche quando, a guardare più da vicino, la disgustosa retorica utilizzata dal segretario del Pd non è altro che la semplice eco parlamentare di una pratica diffusa negli ambienti progressisti di ogni dove.
Da dove partire per commentare una simile dichiarazione se questa suddetta dichiarazione non rivela in realtà niente di nuovo, di sorprendente, di diverso da quanto quotidianamente avviene nei luoghi di lavoro, nelle redazioni, negli studi televisivi, nel mondo associativo e sindacale, insomma nella vasta platea di quell’ambiente un po’ di sinistra e un po’ no, ma comunque ancora saldamente maschio e bianco in ogni dove, a cui Letta si rivolge per far vedere quanto è bravo?
Un mondo che a ogni dibattito, a ogni seminario, a ogni occasione pubblica in cui è previsto un principio di pluralismo invoca a gran voce la partecipazione di unadonna, «almeno una ragazzi!», convinto di poter sanare con una pecetta nera o fucsia le storture di un sistema ancora incredibilmente e pesantemente sbilanciato. Quel mondo che con molta riluttanza ha pigramente accettato che esistano anche le lotte e i diritti delle donne, dei neri, del movimento queer e delle persone disabili, perché lo sente il grido che sale dalle piazze, ma non ha nessuna intenzione di mettere in discussione i propri privilegi, e allora trasforma corpi e istanze in un album di figurine delle minoranze oppresse: ce l’ho ce l’ho mi manca.
In fondo, se persino il Vaticano ha un vicesegretario donna, potremmo noi forse essere da meno? Almeno una donna, ragazzi! Anzi, due.
*Gaia Benzi è redattrice di Jacobin Italia e ricercatrice di letteratura italiana. Ha pubblicato Tra principi e saltimbanchi. Medicina e letteratura nel tardo Rinascimento (Sue).
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